B irmania, 2008. Un gruppo di primatologi sta studiando i gibboni. Parlando con le popolazioni locali, comincia a raccogliere testimonianze su una strana creatura, una scimmia che vivrebbe nella parte settentrionale dello stato Kachin. Il nome usato da tre diverse etnie per descriverla è traducibile nello stesso modo: “scimmia col naso all’insù”. L’animale, infatti, sarebbe facilmente identificabile durante i temporali a causa dei rumorosi starnuti causati dall’acqua che gli entra nelle narici.
Difficilmente si sarebbero potuti biasimare i ricercatori se dieci anni fa avessero liquidato queste testimonianze come fantasie, o tentativi di farsi gioco di loro. In parte, però, quelle voci sembravano avere un senso. La descrizione dell’animale era compatibile con quella del genere Rhinopithecus, diffuso in Cina e Vietnam ma mai segnalato in Birmania. Seguirono altre spedizioni e, nel 2010, con l’aiuto delle popolazioni locali, i ricercatori localizzarono una popolazione di rinopiteci appartenenti a una specie sconosciuta alla scienza. Le assegnarono il nome scientifico Rhinopithecus strykeri e nel 2012 entrò nella lista rossa dello IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione della Natura) tra le specie criticamente minacciate.
Le origini della criptozoologia
La scoperta della “scimmia col naso all’insù” sembra vendicare alcune delle idee sviluppate dallo zoologo belga Bernard Heuvelmans nel secondo dopoguerra. Solo pochi decenni prima erano stati scoperti animali carismatici come l’okapi (Okapia johnstoni, descritto nel 1901), il varano di komodo (Varanus komodoensis, 1912), il gorilla di montagna (Gorilla gorilla beringei, 1914). Erano tutti animali già conosciuti dalle popolazioni locali, presenti nei loro racconti anche se nascosti da tratti fantastici.
Forte di casi come questo, Bernard Heuvelmans propose nel libro Sur la Piste des Bêtes Ignorées (1955) l’istituzione di una branca all’interno della zoologia dedicata ad accelerare la scoperta di specie. Questa sottodisciplina si sarebbe dedicata ad analizzare miti, leggende, testimonianze oculari e altre prove circostanziali per localizzare e descrivere potenziali animali ancora sconosciuti alla scienza. Questi potevano essere specie totalmente nuove, ma anche popolazioni di specie già note e ancora sconosciute in una certa regione, oppure specie ritenute estinte ma di cui in realtà sopravviveva una popolazione. Il nome scelto da Heuvelmans per questo tipo di indagini fu criptozoologia, scienza degli animali nascosti.
Lorenzo Rossi, divulgatore naturalistico, dal 1999 cura Criptozoo, il primo sito italiano dedicato alla criptozoologia e punto di riferimento per l’argomento. “La criptozoologia alla sua nascita è pienamente all’interno della scienza cosiddetta mainstream”, racconta Rossi. “I presupposti delineati originariamente da Heuvelmans erano del tutto ragionevoli, specialmente alla luce delle scoperte di allora. Gli indigeni parlavano del gorilla di montagna come di un orco che rapiva le donne, ed è difficile immaginare una descrizione più lontana dalla realtà. Eppure basta andare nelle nostre campagne per sentire che l’istrice lancerebbe i suoi aculei, con tanto di testimoni oculari a confermarlo. Nonostante siano nascosti dalle superstizioni, sia gli istrici che i gorilla di montagna sono indubbiamente animali in carne e ossa”.
Bernard Heuvelmans propose l’istituzione di una branca all’interno della zoologia dedicata ad analizzare miti, leggende, testimonianze oculari per localizzare e descrivere potenziali animali ancora sconosciuti alla scienza.
Rossi, che nel libro Problematic Wildlife – A Cross-Disciplinary Approach (Springer, 2016) ha pubblicato una revisione sistematica sul complicato status della criptozoologia a livello accademico, fa parte di quel gruppo di studiosi convinti che la scienza degli animali nascosti si possa e si debba riformare. “Heuvelmans era un convinto conservazionista e aveva notato che senza un nome e un cognome tassonomico era impossibile proteggere una specie legalmente. La criptozoologia era quindi un modo per arrivare il prima possibile a descrivere una specie, e permettere al più presto la sua protezione. Oggi gli studi ci dicono che siamo all’interno di un’altra estinzione di massa, e stiamo perdendo specie che nemmeno sapevamo esistessero. Per questo fenomeno si usa il termine criptoestinzione, che non è stato certo inventato dai criptozoologi”.
La criptozoologia potrebbe ancora essere in grado di fornire una chiave di lettura diversa per accelerare la scoperta delle specie e, forse, rallentare la loro scomparsa. Ma – prosegue Rossi – ha un problema di immagine enorme, e non si può dire che la sua cattiva fama sia del tutto ingiustificata.
Ai confini della realtà
Heuvelmans, che Rossi racconta come un personaggio “genio e sregolatezza”, è in buona parte personalmente responsabile se oggi Wikipedia tende a cestinare la criptozoologia come pseudoscienza, mettendola quindi in compagnia di omeopatia, creazionismo, fusione fredda. Fu proprio il papà della criptozoologia, infatti, a spingere le sue idee oltre i limiti del ragionevole. Per esempio, cominciò a nominare e descrivere i presunti animali “nascosti” prima che fossero stati effettivamente scoperti.
In genere per descrivere una nuova specie ci si basa sull’olotipo, che nel caso degli animali è il corpo di un esemplare. Ci sono eccezioni, per esempio sono state accettate nuove specie sulla base di fotografie (anche per ragioni conservazionistiche), e in passato sono stati considerati validi dei disegni. Questo, tuttavia è diverso dal dare un nome scientifico allo Yeti (Heuvelmans propose Dinanthropoides nivalis) o inventarsi una classificazione in nove categorie dei mostri marini. Secondo Heuvelmans, invece, più un animale era strano più generava storie. Un’ipotesi ragionevole, ma questo non implica che ogni racconto, mito o illustrazione fantastica testimoni l’esistenza di un animale in carne e ossa, come invece Heuvelmans sembrava credere. Nel suo libro Hunting monsters – cryptozoology and the reality behind the myths (Sirius, 2016) il paleontologo e divulgatore Darren Naish parla a questo proposito di letteralismo criptozoologico e spiega perché non è compatibile con la scienza: da una parte, in miti e leggende compaiono degli archetipi che non necessariamente corrispondono a qualcosa di reale, dall’altra è a dir poco problematico considerare i racconti di presunti testimoni oculari alla pari di fotografie e filmati ad alta definizione.
“Lo studioso di Loch Ness Adrian Shine”, spiega ancora Rossi, “fece un interessante esperimento negli anni Settanta. Nascose nelle acque del famoso lago un meccanismo che faceva emergere a comando un palo di legno di 45 cm perfettamente dritto, messo in funzione in presenza di ignari testimoni a circa 150 metri dall’oggetto. Quando poi veniva chiesto ai testimoni di disegnare ciò che avevano visto, la maggior parte restituiva un ritratto fedele del palo. Quasi un terzo dei testimoni, però, disegnò un animale o una figura con collo e testa tipici dell’iconografia standard di Nessie”, il leggendario mostro.
I temi della criptozoologia, proposta inizialmente come niente più che una sottodisciplina della zoologia, cominciarono anche a fondersi con quelli del paranormale e del complottismo.
Nonostante questo bagaglio poco scientifico, la criptozoologia continuò a imbarcare entusiasti, anche tra le file degli scienziati. Nel 1982 fu fondata la International Society of Cryptozoology, che scelse come simbolo l’okapi. La cerimonia di fondazione fu ospitata dal dipartimento di zoologia del National Museum of Natural History, presso lo Smithsonian Institution di Washington. Presieduta da Heuvelmans, la società pubblicava Cryptozoology, una rivista soggetta a revisione e riesame degli articoli.
Nonostante questa iniziativa, i più noti criptozoologi continuarono ad allontanarsi sempre di più dalle buone pratiche della scienza. I temi della criptozoologia, proposta inizialmente come niente più che una sottodisciplina della zoologia, cominciarono anche a fondersi con quelli del paranormale e del complottismo (alieni, fantasmi, esperimenti segreti ecc.), ed è stato soprattutto in questa accezione che sono diventati famosi presso il grande pubblico. Un esempio di questa contaminazione è la leggenda del Chupacabra, la belva vampira inizialmente segnalata a Porto Rico. Forse aliena, forse esperimento sfuggito al controllo, forse tutte e due: è stato scritto di tutto su questa creatura, ma nessun (cripto)zoologo degno di questo nome dovrebbe prendere seriamente una bufala del genere.
La società si sciolse nel 1998 e contestualmente cessarono le pubblicazioni della rivista. Nel 2001 Heuvelmans morì, ma la criptozoologia e le sue due facce, quella scientifica e quella pseudoscientifica, continuano a sopravvivere.
Una cosa seria
Oggi esistono ancora i criptozoologi tipici dei documentari sensazionalistici, quelli che sembrano usciti da un episodio di X-files. Cacciatori di mostri che hanno già deciso l’esistenza di questa o quella creatura e piegano le prove più vaghe a favore della loro ipotesi prediletta. Il tutto senza porsi troppi problemi quando una creatura non è biologicamente plausibile, per esempio perché incompatibile con i fossili e l’evoluzione (come un gigantesco ominide nord americano comunemente chiamato Bigfoot) oppure perché ecologicamente insostenibile (come la presenza di un’enorme creatura nelle acque di un freddo lago scozzese).
Dall’altra parte ci sono però quelle persone che hanno continuato ad applicare le rodate convenzioni del metodo scientifico e, magari a malincuore, hanno dovuto ammettere che i criptidi più famosi erano anche quelli meno probabili. Seppellito il fallimentare letteralismo criptozoologico, sono portavoce di una criptozoologia in un certo senso “de-mostrificata”, ma non meno interessante. Tra coloro che fanno appello a questa riforma troviamo tra l’altro quelli che, stando a Wikipedia, dovrebbero essere tra i principali avversari: scienziati assolutamente mainstream e seguaci dello scetticismo scientifico.
Lorenzo Rossi, per esempio, collabora con il Cicap, la principale associazione italiana per la promozione del pensiero critico, e oltreoceano gli scettici discutono regolarmente di temi criptozoologici cercando di spiegare, per esempio, la psicologia dietro gli avvistamenti. Non solo, infatti, la criptozoologia non è necessariamente in antitesi con le “buone pratiche” della scienza, pubblicazione su riviste peer-reviewed comprese, ma ha anche una dimensione folcloristico/psicologica che non è priva di interesse.
La criptozoologia non è necessariamente in antitesi con le “buone pratiche” della scienza, ma ha anche una dimensione folcloristico/psicologica che non è priva di interesse.
Darren Naish, per esempio, riflette su come le persone descrivano con sicurezza incontri con animali estinti riportando caratteristiche fisiche o comportamentali incompatibili con la visione più aggiornata di quelle creature secondo la scienza, ma perfettamente in accordo con la cultura pop. Questo avviene perché ormai abbiamo più familiarità con dinosauri visti al cinema o in un libro per bambini (e quindi scientificamente obsoleti) di quanto non ne abbiamo con la fauna “ordinaria”.
Allo stesso modo può esistere un approccio scientifico all’ufologia, che analizza criticamente i racconti di quello che persone dicono di vedere in cielo. Anche la criptozoologia scientifica (o scettica) riconosce pienamente che i testimoni oculari e le leggende continuano a non essere sostitutivi di prove concrete, ma non di meno accetta che possono dare utili indicazioni agli scienziati. Rossi a questo proposito nota che nello studio dei fulmini globulari, fenomeno atmosferico in gran parte inspiegato, le testimonianze oculari sono state fondamentali. Anche l’appeal della criptozoologia, che inevitabilmente riesce ad affascinare, non dovrebbe essere lasciato agli pseudoscienziati. Stephen Jay Gould in Bravo brontosauro (Feltrinelli, 1992) proponeva di sfruttare la mania dei dinosauri per avvicinare i ragazzi alla biologia: perché anche gli animali misteriosi (veri o presunti) non potrebbero servire allo stesso scopo?
“Eppure oggi”, continua Rossi, “può addirittura succedere che un ricercatore si autocensuri pur di non essere accostato alla criptozoologia: o meglio, all’idea che ha il pubblico di criptozoologia. Come è successo nel caso del kilopilopitsofy e del kidoky, due nomi con cui i nativi del Madagascar sembrano descrivere un ippopotamo pigmeo (estinto recentemente sull’isola) e un lemure gigante (anch’esso scomparso da poche migliaia di anni). Nel 1995, durante una spedizione paleontologica e archeologica i ricercatori raccolsero testimonianze orali su questi ipotetici animali, ma esitarono a condividerle con la comunità scientifica per paura di essere considerati criptozoologi. Eppure negli ultimi vent’anni molti primati sono stati scoperti proprio grazie alle tradizioni locali, la scimmia con il naso all’insù è solo uno dei possibili esempi”.
Ma c’è ancora speranza. Henry Gee, paleontologo ed editor di Nature, nel 2004 ha commentato sulla rivista la scoperta dei resti fossili del cosiddetto Homo floresiensis riabilitando, in sostanza, i metodi della criptozoologia. La scorsa estate il professor Bill Adams, ecologo, e il dottor Shane McCorristine, geografo, hanno spiegato su The Conversation perché secondo loro la criptozoologia, opportunamente de-mostrificata, potrebbe essere sfruttata da chi si occupa di conservazione della natura. Non solo può essere uno strumento pratico per accelerare la scoperta di specie (come proposto da Heuvelmans), ma insegna l’importanza della meraviglia: Bigfoot e Nessie sono diventati delle star, ma là fuori esistono realmente tanti animali bizzarri, spesso scoperti in maniera avventurosa, e le loro storie meritano di essere raccontate e usate per proteggerli.
Lo storico della scienza Marco Ciardi scrive nel suo libro Scienza e credenze (Hachette, 2016):
Come nel caso di molti ambiti dedicati alla ricerca di cose strane e misteriose, il problema non consiste nel cercare di rintracciare animali la cui esistenza è supposta su base indiziaria. Ciò che conta è il modo con cui viene portata avanti la ricerca. La criptozoolgia potrà perciò essere considerata una disciplina scientifica solo se rispetterà le regole in base alle quali è condotta qualsiasi altra ricerca capace di ottenere il riconoscimento da parte degli specialisti di un determinato settore, nel caso particolare degli zoologi. Si dovrà quindi necessariamente passare dal mondo della fantasia a quello della realtà, dal piano degli indizi a quello delle prove.
La criptozoologia è una cosa seria. Di certo lo può diventare.