N el verbale dell’interrogatorio del calciatore della Juventus Nicolò Fagioli, squalificato per dodici mesi dai campi di gioco – di cui cinque commutati in prescrizioni alternative – per la violazione dell’articolo 24 del Codice di Giustizia Sportiva che vieta ai tesserati di effettuare scommesse su eventi calcistici organizzati da FIGC, UEFA e FIFA, si può leggere: “all’inizio un calciatore, avendo molto tempo libero […] finisce con il provare l’ebbrezza della scommessa per vincere la noia. Con il passare del tempo divenne un’ossessione. Lo facevano pure gli altri e non mi ponevo il problema che fosse illegale”. Si è aggiunto così, con queste semplici parole, un nuovo capitolo a una saga giudiziaria che ha tracciato un’ininterrotta linea di continuità dal 23 marzo 1980, giorno della denuncia del primo scandalo calcioscommesse in Italia, fino alla legalizzazione delle scommesse sportive e alla susseguente legge numero 96 del 2018, che ha introdotto il divieto – abbondantemente ignorato – di pubblicizzare il gioco d’azzardo tout court.
Un nuovo capitolo non certo inatteso, considerato che la quasi totalità dei club della massima divisione opera in partnership commerciale con aziende attive nel variegato e sfavillante mondo delle scommesse: quelli che un tempo erano betting partner, oggi sono infotainment partner o digital partner. Tra i loro incarichi spicca il compito di allestire dei contenitori informativi, popolati da giornalisti sportivi e vecchie glorie del calcio, che alimentano i dibattiti sul pallone a suon di statistiche, calciomercato, discussioni varie, premi, podcast, e molto altro. Certo, questi contenuti non riportano le quote o i link ai siti per le puntate, ma evidentemente rimandano alla pratica e alle informazioni utili alle scommesse nello sport. Non sono testate giornalistiche regolarmente registrate, eppure a loro dire si occupano di informazione sportiva, pur essendo in molti casi finanziate direttamente dalle agenzie di betting. Si tratta, in buona sostanza, dell’utilizzo di un registro informativo come espediente per promuovere occultamente il settore delle puntate in denaro.
Se per codice deontologico i giornalisti professionisti non potrebbero prendere parte a campagne pubblicitarie – tranne quelle a fini sociali, umanitari, culturali, religiosi, artistici, sindacali e dietro autorizzazione dell’Ordine di appartenenza, per evitare “ogni forma di commistione tra pubblicità e informazione” – così i calciatori professionisti sono chiamati a non scommettere sul calcio, in quanto “l’ordinamento federale fa espresso divieto ai tesserati in genere di effettuare qualsiasi tipo di scommessa al fine di trarne profitto. Questo anche in una prospettiva di garanzia del regolare svolgimento delle gare e dei campionati”. Resta la possibilità di farlo solo per sport diversi dal calcio e, ovviamente, attraverso canali legali.
Come per l’abuso di sostanze, all’origine del gioco d’azzardo patologico vi sarebbe una sfrenata ricerca del piacere.
Codici di condotta a parte, il diritto alla pubblicità, ventilato da tanti club della massima divisione (e non solo), è diffusamente praticato, sia pur con qualche piccola operazione di aggiramento. Non è inusuale, infatti, vedere contenuti promozionali delle scommesse sportive tra i cartelloni a bordo campo, o nelle zone miste degli stadi e nei portali riconducibili alle stesse società sportive. È imbarazzante, dunque, che dopo lo scandalo Fagioli & Co quei medesimi club manifestino ora manierato sbigottimento alla scoperta del disturbo da gioco d’azzardo di alcuni dei loro tesserati.
Chiamato in gergo corrente “ludopatia”, termine meno tecnico ma di fatto con lo stesso significato pratico, il gioco d’azzardo patologico è stato inizialmente annoverato dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) tra le malattie della psiche. Negli ultimi anni è stato però riclassificato tra i disturbi legati alle dipendenze, nella sottocategoria disturbo non correlato all’uso di sostanze, per via dell’evidente similarità sintomatologica: come per l’abuso di sostanze, all’origine del gioco d’azzardo patologico vi sarebbe infatti una sfrenata ricerca del piacere.
Com’è noto, per Sigmund Freud sarebbe proprio il principio di piacere a fondare il comportamento umano, tanto che lo si concepisca in termini di soddisfacimento dei bisogni fisiologici quanto lo si consideri come un generico meccanismo di evitamento del dolore. Lo si può vedere in azione nella sensazione di benessere registrato dell’individuo che asseconda i propri impulsi: un benessere traducibile in frammenti di felicità brevi, ma particolarmente intensi.
La dipendenza è piacere perso, inseguito compulsivamente, rincorso con slanci incontrollabili.
Apparentemente distanti e differenti, i concetti di piacere e dipendenza viaggiano in realtà su binari paralleli, non senza la frequente e rovinosa opportunità di un passaggio di staffetta. La dipendenza, infatti, è il piacere perso, inseguito compulsivamente, rincorso con slanci incontrollabili. È la gratificazione stessa che si fa ossessione lì dove il corpo e la psiche chiedono insaziabilmente riscatto, fuga, automedicazione.
Da spazio per la conferma del proprio esistere a ricerca della propria personale epopea, raramente il piacere è accompagnato dal senso del limite: più di frequente finisce per offrirsi inconsapevolmente a una sorta di hybris. Non basta mai e non può essere mai veramente bastante ciò che dà piacere oltre ogni possibile immaginazione. Il piacere perde la propria essenza nella continua reiterazione, essendo esso stesso merce deteriorabile, non durevole, effimera. Nel ricorrere continuamente, la sostanza psicoattiva o il comportamento eccitante che danno godimento esauriscono rapidamente la capacità di generarne.
Negli anni Cinquanta, i neurologi James Olds e Peter Milner condussero degli esperimenti sui ratti per analizzare le strutture neurologiche coinvolte nel sistema della gratificazione, il cosiddetto “centro del piacere”. Studi successivi dimostrarono che, nell’essere umano, quel centro corrisponde a una struttura profonda situata nel diencefalo, capace di produrre sensazioni gratificanti, regolate dalla dopamina. Molto si è detto e si è scritto su questo famigerato neurotrasmettitore, un semplice segnale biochimico che consente ai neuroni di comunicare tra loro e che oggi conoscono tutti come “molecola del piacere”.
Nel ricorrere continuamente, la sostanza psicoattiva o il comportamento eccitante danno godimento esauriscono rapidamente la capacità di generarne.
Sensazioni di appagamento e piacere comportano un aumento della concentrazione di dopamina in diverse aree della corteccia prefrontale, essendo la molecola del piacere alla base dei meccanismi di regolazione della ricompensa e dell’omeostasi edonica. Ciò può avvenire con l’assunzione di sostanze psicotrope o il ricorso a comportamenti stimolanti che, bloccando i sistemi di regolazione e ricaptazione della dopamina, possono aumentare la concentrazione in modo esponenziale fino ad alterare, con il tempo, il normale funzionamento del sistema della gratificazione.
Impedito il naturale riassorbimento della dopamina, che rimane in circolo nel sistema nervoso centrale, la dipendenza trova terreno fertile: il centro del piacere si abitua a una concentrazione di dopamina sempre più consistente, alla quale corrisponde un attaccamento allo stimolo gratificante sempre più pressante. A questo punto, però, il piacere non è più – e non potrebbe più nemmeno essere – paragonabile alla sensazione provata agli esordi dell’assunzione di sostanze psicotrope, o dell’iniziale messa in atto di un comportamento altamente stimolante come il gioco d’azzardo.
Il grado di attivazione del cosiddetto medial forebrain pleasure circuit decresce nel tempo, pur tenendo traccia viva della percezione soggettiva del piacere. In estrema sintesi, il dipendente patologico ricorda quella sensazione originaria di piacere, la cerca, ma non la trova più, senza per questo smettere di cercarla. Il sistema della gratificazione è come una detonazione anticipata dall’accensione di una miccia: si accende velocemente, altrettanto subitaneamente brucia e porta all’esplosione di piacere, ma non riesce a darsi una sorta di gradualità e di persistenza. Non si manifesta lentamente, né può dirsi durevole a lungo.
Il dipendente patologico ricorda la sensazione di piacere originaria, la cerca, ma non la trova più, senza per questo smettere di cercarla.
Il contesto socio-culturale ed economico circostante non sembra aiutare con le sue semplificazioni narcisistiche: “voglio, voglio tutto, lo voglio adesso, lo voglio nonostante l’Altro”. Una sorta di variante simmetrica della catena schismogenetica di Gregory Bateson in cui, nel conflitto tra parti contrapposte come consumo e dipendenza versus società, il trionfo dell’una accresce la risolutezza dell’altra in un’escalation di eccesso versus eccesso, esagerazione versus esagerazione.
Nella società della performance e del narcisismo patologico, l’attesa sembra essere diventata l’elemento antitetico rispetto all’appagamento. La gratificazione non può che essere qui ed ora: mai differibile o colpevolmente ritardabile, non deve conoscere attese, impegno, rimandi, finendo così per non poter conoscere lo slancio del sogno, del desiderio, dell’aspirazione. Potenzialmente tutte le azioni che attivano il circuito del piacere sono in grado di indurre dipendenza e tutti, in misura diversa, possiamo svilupparne una.
Come l’Icaro di Matisse, che escluso il sole si consegna agli apparentemente più rassicuranti colori della notte, il giocatore patologico non brucia più di desiderio ma rischia di rimanere bruciato dallo strumento attraverso il quale vorrebbe raggiungerlo. O come l’Antoine Roquentin de La nausea (1938) di Jean Paul Sartre, ricerca non più l’appagamento del desiderio, ma un desiderio stesso da desiderare. Roquentin prova infatti noia e ripugnanza per il sentimento di esistere, rinuncia a completare il lavoro di ricerca storica che si è prefisso. Solo la musica metterà fine alla vertigine della sua nausea, suggerendogli la soluzione: creare, realizzare qualcosa che lasci una reale traccia di sé e del suo esistere, venendo a patti coi propri limiti di essere umano.
Il sistema della gratificazione è come una detonazione anticipata dall’accensione di una miccia.
O come Dino, il protagonista de La noia (1960) di Alberto Moravia, il gambler che, dopo anni di lavoro, distrugge con spregio la tela alla quale sta lavorando. Il gioco patologico è assimilabile alla figura di Cecilia, la donna di cui Dino si innamora e della quale si dice abbia portato alla disperazione prima e alla morte poi un pittore suo pari. Attratto dall’inafferrabilità della giovane – come l’alea che nell’azzardo rende incerta la vincita – Dino prova a sottrarsi a quel senso di noia per ciò che lo circonda intrecciando con lei una relazione, ma solo quando si accorgerà di non desiderare più di possederla potrà finalmente riappropriarsi di una vita in grado di andare oltre al vuoto e alla mancanza di senso.
Così il giocatore patologico cerca un luogo mentale in cui liberarsi dal peso dei principi di realtà ed essere finalmente colui che davvero percepisce di essere. Scommettere è allora darsi sempre una nuova possibilità: azzardare un futuro diverso è il medicamento rispetto ad un dolore che non necessariamente i soldi, il benessere, la fama possono lenire. La ricerca del piacere sa essere sollievo e conforto, rinforzo e nutrimento, alleggerimento e temporanea neutralizzazione di ciò che altrimenti finirebbe per schiacciare l’Io. L’azzardo, però, è una consolazione effimera che diviene presto dannazione.
Da occasionale ad abituale, da giocatore sociale a giocatore problematico, fino alla vera e propria dipendenza patologica da gioco d’azzardo, il desiderio che accompagna le scommesse è dunque molto spesso quello di una fuga psichica dalla realtà in uno spazio altro dai consueti ambiti di vita in cui continuano a convivere ansia e disforia, identità e dis-identità, fragilità, onnipotenza, aspettativa, frustrazione. Nell’accezione del filosofo tedesco Eugen Fink, che in Oasi della gioia (1957) ne scrive come dell’allucinazione che si può avere nel deserto, il gioco ci rapisce: “giocando siamo per un po’ liberati dall’ingranaggio della vita, come trasferiti su un altro mondo dove la vita appare più leggera, più aerea, più felice”. In tutto ciò appare indiscusso il ruolo del pensiero magico che infantilmente allontana la persona dalla realtà, distorcendone il rapporto con tutto ciò che la costituisce.
Tutte le azioni che attivano il circuito del piacere sono in grado di indurre dipendenza e tutti, in misura diversa, possiamo svilupparne una.
La lettura comportamentista del gioco d’azzardo patologico ha puntato l’attenzione sul rinforzo della vincita – considerato di per sé sufficiente a sviluppare e mantenere il desiderio di puntare ancora – e su ciò che accade tra una puntata e il suo risultato. Sembrerebbe proprio che siano quei frangenti di febbrile attesa i momenti più gratificanti per il giocatore, che prova a massimizzarli con scommesse dell’ultimo minuto o contemporanee, e in alcuni casi contrapposte.
Per psicologi comportamentisti come Anderson e Brown, inoltre, esisterebbero nel gioco agonistico due momenti di “attivazione funzionale”, ossia di incremento dell’attività bioelettrica del sistema nervoso sia centrale che periferico: lo stato “telico” e quello “paratelico”. Nel primo caso il gioco è finalizzato alla vittoria, nel secondo all’eccitamento derivante. Pur presenti nelle stesse sedute di gioco o in alternanza tra loro, sarebbero i giocatori in stato paratelico quelli più a rischio di sviluppare dipendenza patologica. Lo stato telico sembra subentrare per loro solo in un secondo momento, a fronte della perdita di denaro.
Per i cognitivisti come John Steiner, sarebbe invece il ritardo dello sviluppo cognitivo, riconducibile alla fase di passaggio tra adolescenza ed età adulta, a rendere l’individuo più vulnerabile rispetto alla possibilità di giocare in maniera problematica fino alla dipendenza vera e propria. Giocare non significa necessariamente ammalarsi di gioco, così come avere la capacità di introdurre fantasia nella propria vita non vuol dire impazzire e perdere patologicamente i contatti con il reale. Riuscire a fissare il limite del possibile, dove non tutto è sempre raggiungibile, riconoscere quel limite e accettarlo, è la forma di protezione mentale che più tutela da quel “posso tutto” così centrale nella società dei consumi, ma che in psichiatria corrisponde di fatto alla psicosi.
La lettura comportamentista del gioco d’azzardo patologico ha puntato l’attenzione sul rinforzo della vincita e su ciò che accade tra una puntata e il suo risultato.
Negli ultimi vent’anni delle dipendenze patologiche si è parlato poco, della dipendenza da gioco ancora meno, e quando lo si è fatto il dibattito è stato spesso delegato a confronti salottieri al servizio delle macchine del consenso e della raccolta del favore elettorale. Pochi esperti, molti strepiti su base etico-morale, vesti stracciate e proclami. Tutto intorno incentivazione latente, più o meno subliminale, ma sempre attraente al gioco e al consumo, all’idolatria del possesso, alla regola da edulcorare, “softizzare”, non di rado ignorare completamente pur di spingere le persone a puntare i loro soldi.
Per la giustizia federale, scommettere su discipline sportive altre rispetto a quella d’elezione o su squadre diverse dalla propria rappresenta un attenuante per la posizione dei calciatori coinvolti nel calcioscommesse, come se la dipendenza da gioco fosse un fatto meno rilevante della regolarità degli incontri. Resta poi irrisolto il problema dell’elusione del cosiddetto “obbligo di denuncia”: nulla come il settore delle dipendenze patologiche è espressione del contesto sociale in cui la problematica è calata, del suo grado di cameratismo e connivenza, del rapporto che intrattiene con il rischio e con la ricchezza guadagnata in fretta.
Non ci si può accontentare di una lettura fenomenologica banale, lineare, standardizzata, media e mediocre della dipendenza da gioco e della sua genesi. Dov’è il piacere? Ovunque, e proprio per questo da nessuna parte. A chi è destinato? A tutti, e proprio per questo ai pochi in grado di governare la noia, e quel senso di nausea per la vita attorno che ogni tanto, tutti, ci prende.