S econdo la Fao, ogni anno poco meno di duecento milioni di tonnellate di pesce assicurano a ciascuno di noi i 20,7 chilogrammi consumati a testa: 9,3 chili provengono dalla pesca, 11,4 da un’acquacoltura. Queste ultime rilasciano nell’atmosfera quarantatré milioni di tonnellate di gas serra, dando una mano non piccola alla febbre del clima. I pesci allevati, infatti, consumano acqua, ossigeno, energia elettrica e moltissimi farmaci, traducendo poi i consumi in emissioni, e producono tonnellate di rifiuti vari e liquami di solito scaricati in mare o nei fiumi, dove causano l’eutrofizzazione delle acque e la morte di tutto ciò che vive nei paraggi.
Oltre a ciò, un’acquacoltura ha bisogno di mangimi, tra i quali, dal 2013, sono rientrate anche le farine animali. E questo perché un terzo dei pesci nati in allevamento non finisce sulle nostre tavole, ma diventa forage fish, cioè pesce allevato per fornire carni per l’alimentazione di altri pesci di acquacoltura considerati più pregiati, e poi di bovini e suini, per i quali le farine a base di pesce hanno spesso sostituito quelle derivanti dai consimili: un cortocircuito da inferno dantesco.
Un’acquacoltura, poi, come un campo, ha bisogno di fosforo, tantissimo fosforo, che viene in parte scaricato in mare: un paese come la Norvegia, da solo, ne sversa novemila tonnellate all’anno, con grande felicità delle alghe eutrofizzanti, che crescono rigogliosissime, a scapito di qualunque altra forma di vita.
A parte il cibo, un impianto di acquacoltura ha bisogno di tonnellate di farmaci quali antibiotici, alghicidi, erbicidi, disinfettanti e insetticidi, perché i pesci vivono in condizioni di tale sovraffollamento che sono quasi sempre ricoperti di pidocchi, alghe e parassiti di vario genere, al punto che le malattie e il soffocamento sono la principale causa di morte.
Un impianto di acquacoltura ha bisogno di tonnellate di farmaci quali antibiotici, alghicidi, erbicidi, disinfettanti e insetticidi, perché i pesci vivono in condizioni di tale sovraffollamento che sono quasi sempre ricoperti di pidocchi, alghe e parassiti.
E poi scappano, come è successo negli ultimi anni a settecentomila salmoni di allevamenti cileni e a trecentomila salmoni britannici, che hanno riconquistato il mare aperto con incidenti a impianti industriali costieri ed enormi danni alla fauna marina selvatica.
Se poi si considera quest’ultima, laddove si riesce ancora a trovarne, il quadro non è più consolante: molte zone sono oggi considerate esaurite o a rischio esaurimento, e molte specie, tra le quali, per esempio, diverse varietà di tonno – la cui pesca, negli ultimi sessant’anni, è aumentata del 1000% –, sono a rischio estinzione.
Naturalmente, poi, ci sono anche le contaminazioni: solo per quanto riguarda il mercurio, gli abitanti di sessantasei paesi mangiano pesce nel quale la concentrazione del metallo è superiore (a volte di molto) a quella ritenuta pericolosa per un feto in crescita, e le previsioni, per il futuro, non sono buone. Uno studio recentissimo ha dimostrato che la quantità di mercurio in mare è in aumento in tutto il mondo, per motivi poco chiari, visto che quello proveniente dalle coste e dalle attività umane (per esempio industriali) è in calo a causa dei numerosi divieti vigenti.
Inoltre ci sono le microplastiche, che i pesci assorbono e che noi assorbiamo, tra l’altro, attraverso di loro, e i cui effetti sulla salute non sono ancora stati compresi se non in minima parte.
La tappa finale sono gli sprechi, perché ogni anno dieci milioni di tonnellate di pesci, ritenuti non adeguati alle richieste di un mercato sempre più uniforme e monotono, vengono semplicemente ributtati a mare.
Il tutto per avere nel piatto pesce a volte contaminato da parassiti quali l’anisakis, il vermetto ben noto agli amanti del sushi, da microrganismi quali il norovirus, che flagella i molluschi insieme a molti altri virus e batteri, da istamina, che provoca reazioni allergiche quali la cosiddetta sindrome sgombroide, da acqua ossigenata e coloranti usati per sbiancare o per rendere rossa o arancione la carne, quando non pesce contraffatto (specie meno pregiate vendute per altre più nobili o ritenute tali), surgelato senza avvisare, bombardato con radiazioni (dal 2014 negli Stati Uniti la pratica è legale, per abbattere la carica batterica dei crostacei), e chi più ne ha più ne metta.
Insomma, purtroppo chi pensa che per mangiare meno carne si possa semplicemente mangiare più pesce deve fare i conti anche con questa realtà, che non è meno inquietante di quella degli allevamenti intensivi. Ma per capire come siamo arrivati a tanto è forse opportuno fare un passo indietro, di qualche anno, e tornare sulla terraferma, in Gran Bretagna, alla fine degli anni ottanta.
L’animale zero era infatti nato nell’Hampshire, e si era ammalato probabilmente a causa dei solventi tossici utilizzati nella fattoria per sgrassare le carni. Nulla di preoccupante, all’inizio, poiché gli allevatori ogni tanto ne vedevano, di casi come quello, cioè di bovini che sembravano impazzire e poi, nel giro di pochi mesi, morivano. Ma quando nel 1986 il laboratorio centrale del servizio veterinario di Weybridge analizzò nel dettaglio il cervello di quella mucca, si capì che la sua follia aveva caratteristiche biologiche molto ben definite, riduceva il cervello a una specie di spugna bucherellata e amorfa, che lentamente collassava fino a causare la morte. E si iniziò a parlare di una malattia già nota in diverse specie quali le pecore e alcuni cervidi, ma del tutto sporadica: l’encefalopatia spongiforme. Si fecero ulteriori verifiche, e si iniziò a capire che la situazione era molto più seria del previsto, perché i casi, tra i bovini, stavano aumentando in modo allarmante, e non erano più così sporadici. Già due anni dopo, nel 1988, si ipotizzò un legame con il fatto che i manzi erano alimentati con le frattaglie e gli scarti ossei della lavorazione dei loro consimili, pratica sempre più diffusa nonostante i ruminanti, in natura, non si nutrano affatto di altri animali, consimili o meno, ma di erba.
La realtà degli allevamenti di pesce non è meno inquietante di quella degli allevamenti intensivi di animali su terra.
Nel giro di pochi anni i casi erano migliaia (entro il 2001 saranno 180.000 nella sola Gran Bretagna, con un picco di 37.000 nel 1992, e qualche centinaio in altri paesi), e quando la malattia, nel 1996, si trasmise all’uomo come variante umana, fece cioè il temutissimo salto di specie (lo spillover) causando la morte di un ragazzo di soli diciannove anni, Stephen Churchill, il panico esplose in tutto il mondo.
Nello stesso anno l’Unione Europea bandì l’esportazione di carne inglese, seguita da divieti più o meno estesi di altri paesi nei confronti di paesi considerati a rischio, e il consumo di carni bovine crollò quasi ovunque, nonostante i casi della variante umana fossero comunque pochissimi: tra il 1996 e il 2014 in tutto il mondo ce ne sono stati solo 231, sparsi in dodici nazioni.
Fu quello, probabilmente, il momento della perdita della verginità di un’opinione pubblica – quella occidentale – che non si era mai interrogata più di tanto sulla spettacolare evoluzione della carne bovina, che in una sola generazione era passata dallo stato di alimento quasi di lusso a quello di cibo alla portata di chiunque, tutti i giorni.
Fu allora, infatti, che i consumatori dei paesi più ricchi seppero per la prima volta in modo dettagliato e non più ignorabile, grazie a innumerevoli servizi giornalistici, che cosa erano davvero gli allevamenti intensivi di bestiame da carne con tutte le loro distorsioni, a cominciare proprio dal fatto che si era giunti alle mucche pazze perché, per soddisfare la domanda crescente di carne a bassissimo prezzo e avere quindi più animali cresciuti più in fretta, si alimentavano gli erbivori con farine animali, iperproteiche e assai poco controllate, anziché con l’erba che mangiavano fino dalla loro comparsa sulla Terra.
Molti consumatori, spinti da motivazioni etiche e soprattutto dalla paura di contrarre morbi devastanti, abbandonarono i propri macellai, iniziarono a informarsi meglio su ciò che mangiavano e, parallelamente, iniziarono a interessarsi al pesce, a sua volta fino a quel momento alimento con un ruolo tutto sommato marginale, salvo eccezioni locali nelle comunità costiere. Quest’ultimo era infatti percepito, a differenza della carne, come un alimento sano, naturale, privo di contaminanti e pieno zeppo di cose che fanno bene, a cominciare da una famiglia di acidi grassi diventati le vere superstar della dieta e dei supplementi, e per questo, come vedremo tra un attimo, i primi killer del mare: gli omega 3. E iniziarono a chiederne sempre di più, anche se il pesce selvatico disponibile era sempre di meno, e sempre più difficile da trovare.
Dagl anni Novanta, dopo la “mucca pazza”, molti consumatori iniziarono a chiedere sempre più pesce, anche se il pesce selvatico disponibile era sempre di meno, e sempre più difficile da trovare.
Fu quello il momento dell’inizio del successo incontenibile di altre pratiche che sono all’origine del disastro attuale, avviate già verso la fine del Novecento: le acquacolture, ovvero i corrispettivi acquatici delle mega stalle, che stanno dando il colpo di grazia al mare. Le zone considerate morte, cioè prive di qualunque forma di vita a parte qualche microrganismo, con meno di due grammi di ossigeno per litro d’acqua – alcune delle quali estese per migliaia di chilometri quadrati, come quella più tristemente nota, nel Golfo del Messico, che è giunta a misurare 70.000 chilometri quadrati – sono passate dalle 50 degli anni cinquanta alle 146 del 2004, alle 405 del 2008 e alle circa 500 attuali.
Oggi nel mondo si allevano 550 specie, dalle trote alle ostriche, dai gamberetti alle acciughe, dai salmoni alle cozze, in 190 paesi, con danni incalcolabili all’ambiente e più di un dubbio sulla qualità di ciò che arriva nei supermercati e nei ristoranti.
Nel frattempo, qualcuno cerca di mettere a punto nuovi tipi di allevamenti con una potenziale impronta ancora peggiore, sperando di trovare nuove nicchie di mercato. È il caso, per esempio, di creature finora sempre sfuggite alla cattività, ma non all’essere umano, che le mangia fin dall’antichità: i polpi, amati in molti paesi tra i quali la Cina, il Giappone e la Corea del Sud in Asia e, nel Mediterraneo, l’Italia, la Spagna, la Grecia e il Portogallo: ogni anno globalmente se ne pescano 350.000 tonnellate. La pesca non soddisfa la richiesta, e si è quindi iniziato a cercare di allevarli in molti paesi e in vario modo, senza tenere conto di almeno due elementi cruciali: data la loro intelligenza, non si adattano alla vita di allevamento, assumono comportamenti anomali, aggressivi, si ammalano e muoiono in massa, e sono quindi un pessimo affare. E, soprattutto, sono carnivori. Il che significa che, anche in questo caso, per allevarli bisogna trovare altro pesce meno pregiato da ridurre in mangime, e continuare così a far aumentare il numero di acquacolture.
Questo quadro, già agghiacciante, negli ultimi anni è stato ulteriormente aggravato da un fattore prettamente commerciale: la richiesta esponenziale di acidi grassi omega 3, uno dei casi più clamorosi della storia recente di azione terapeutica costruita a tavolino dagli uffici marketing.
Negli ultimi vent’anni sono stati condotti studi di ogni genere, molto spesso finanziati dalle aziende, che hanno attribuito agli omega 3 quasi ogni possibile effetto sia preventivo che benefico sulla salute umana, dall’Alzheimer al cancro, dalla vista alla gravidanza, dalla salute di cuore e vasi a quella del cervello, dalla depressione alla crescita dei bambini e così via, con l’apoteosi rappresentata dal consiglio, prima esteso a tutti, poi solo alle persone a rischio di infarto, e oggi in via di estinzione, di assumerne dosi massicce ogni giorno. Ma come ha dimostrato anche una recentissima, imponente e seria revisione dei dati oggi disponibili, giunta dopo altre dello stesso tenore, gli omega 3 non fanno praticamente nulla se non diminuire di qualche unità percentuale il rischio cardiovascolare in chi ha già avuto un infarto. E alimentare una pazzia ittica, non spongiforme. Purtroppo, però, occorreranno anni prima che il messaggio degli studi più attendibili arrivi a tutti i medici e soprattutto a tutti i consumatori. I quali – basta andare in un supermercato per rendersene conto – sono quotidianamente bombardati da inviti ad acquistare alimenti e supplementi arricchiti con omega 3.
Al contrario di quanto si crede comunemente, gli omega 3 non fanno praticamente nulla se non diminuire di qualche unità percentuale il rischio cardiovascolare in chi ha già avuto un infarto.
Nel 2018 il giornalista e attivista Paul Greenberg, insieme con gli esperti della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston, ha dedicato alla questione un documentatissimo libro, The Omega Three Principle: Seafood and the Quest for a Long Life and a Healthier Planet (Penguin Press), in cui spiega, tra l’altro, oltre alle strategie commerciali, dove sta l’inciampo logico: gli omega 3 appartengono alla categoria degli acidi grassi polinsaturi o Pufa (per intenderci, quella in cui rientrano anche molti degli acidi grassi dell’olio extravergine di oliva); questi acidi, i cui precursori non sono sintetizzabili dall’organismo e devono quindi essere assunti con la dieta, sono componenti essenziali delle membrane delle cellule del corpo umano, e sono particolarmente rappresentati nelle cellule nervose e in quelle di cuore e vasi, dove esercitano anche un blando effetto antinfiammatorio. Si è dunque pensato – anche in seguito a certi studi sbagliati degli anni settanta sugli Inuit, sulla loro dieta e la loro salute – che assumerne in quantità potesse moltiplicare questo effetto. E si è montato un business miliardario: secondo una stima di Hexa Research, entro il 2025 il mercato dei supplementi con omega 3 varrà, solo negli Stati Uniti, oltre cinquantasette miliardi di dollari, mentre in Italia, nel solo 2016, ne sono state acquistate quattro milioni di confezioni.
Negli ultimi anni si è però anche capito che con gli omega 3 succede quello che si verifica con le vitamine, e con i probiotici intestinali (altro business del momento), per restare a due prodotti che hanno avuto destini in parte simili: identificare specie attive e dimostrarne le funzioni in vitro non significa affatto avere la certezza che tale effetto si riproponga in vivo, in un organismo complesso. Quando poi si tratta di miscele di decine di componenti attivi diversi, la situazione diventa estremamente complessa, e di solito in vivo l’effetto non si vede più, oppure diventa paradossalmente contrario (alcuni eccessi di vitamine fanno molto male alla salute), probabilmente perché l’azione benefica è data da interazioni non riproducibili, ancora in gran parte sconosciute, tra decine di elementi diversi. Ecco perché gli omega 3, assunti per bocca o anche nel pesce, non assicurano un vantaggio simile a quello teorico e comunque, di certo, tale da giustificare l’ossessione di cui sono oggetto. Né, tantomeno, gli elevatissimi costi ambientali che comportano attraverso l’esplosione delle acquacolture di pesci da dedicare al business delle pillolone dorate.
Ma la grancassa del marketing è tuttora in servizio permanente effettivo: anche in questi ultimi mesi sono usciti studi che, per esempio, affermano che gli omega 3 prevengono l’asma e l’iperattività nei bambini.
Per fortuna, se di fortuna si può parlare, con ogni probabilità questo assurdo sistema si avvia al tramonto, se non altro perché non è più sostenibile dal punto di vista economico: mentre un tempo i salmoni da omega 3 erano allevati con mangimi che contenevano circa l’80% di pesce, oggi la percentuale di farine estratte da altri pesci è scesa al 20%, proprio perché l’efficienza va scemando, i conti non tornano più e quei mangimi a base di pesce sono diventati troppo cari. Il risultato è che se nel 2010 una porzione di salmone da 130 grammi forniva 3,5 grammi di omega 3, ovvero una quantità molto vicina alla dose giornaliera raccomandata, tale concentrazione, nel 2016, era diventata la metà.
In tutto il mondo, non a caso, si studiano alternative, e la stessa Fao ne indica alcune: per alimentare i pesci nelle vasche e nelle acquacolture si dovrebbe puntare molto di più sulle farine derivate da insetti, così come su quelle composte da microalghe o, ancora, su batteri e lieviti geneticamente modificati, anche se questo porrebbe questioni complesse in tutti i paesi dove gli Ogm non sono accettati o legali.
Con ogni probabilità questo assurdo sistema si avvia al tramonto, se non altro perché non è più sostenibile dal punto di vista economico.
Ma secondo molti ricercatori tutto ciò non ha molto senso, e la situazione è analoga a quella delle mucche Belgian Blue: si potrà arrivare indubbiamente ad acquacolture più produttive, magari anche di polpi, e al tempo stesso più sostenibili, magari biologiche (oggi sono pochissime, per le difficoltà associate all’allevamento in acqua senza farmaci). Ci si arriverà, e le vasche continueranno probabilmente a esistere per molto tempo. Ma è il modello che è sbagliato, perché un’alimentazione basata su non più di venticinque specie larghissimamente predominanti (secondo la Fao), di cui quattro star assolute, ovvero tonni, salmoni, spigole e merluzzi, sostenuto in proporzione maggioritaria da allevamenti intensivi e finalizzato, per una quota molto significativa, all’estrazione di omega 3, è semplicemente un’assurdità che nessuno si può più permettere.
Tutto questo spiega perché qualcuno abbia iniziato a pensare in un modo diverso, cercando una soluzione in mare, più che in laboratorio.
Estratto da Il destino del cibo di Agnese Codignola (Feltrinelli, 2020).