I l nome di David Quammen è legato al successo di Spillover (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri), che nel 2012 raccontava la nascita delle zoonosi e la storia scientifica dei virus. In moltissimi, in questi mesi di pandemia, hanno riscoperto il libro e apprezzato le doti di divulgatore di Quammen, ammirando la sua capacità di capire, prima di tanti altri, che cosa la ricerca fondamentale stava suggerendo a proposito dei rischi legati ai virus emergenti, e quali sarebbero potute essere, e sono state, le conseguenze per tutta l’umanità.
Nel frattempo, è uscito in Italia anche il suo libro successivo, L’albero intricato (sempre Adelphi, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra), che da noi non ha ricevuto la stessa attenzione, forse proprio a causa della polarizzazione sui temi legati alla pandemia che sta colpendo da mesi molta saggistica “COVID-free”. Ed è un peccato, perché anche in questo caso Quammen è riuscito, come pochi altri, a rendere comprensibile una materia complessa, prendendola dal verso delle storie degli uomini e delle donne che l’hanno plasmata e la stanno plasmando tuttora.
Quammen racconta un punto di svolta epocale nella storia della scienza: il lungo percorso attraverso il quale i ricercatori sono arrivati a riscrivere il modello classico dell’evoluzione e, insieme, quello del funzionamento del codice genetico ridisegnando “il corso degli eventi evolutivi profondi, la forma dell’albero della vita”. L’albero intricato parte infatti da una delle rappresentazioni più note dell’evoluzione, quella dell’albero da cui si dipartono molte ramificazioni. È un’immagine suggerita già da Darwin (ma presente anche prima) e mantenuta poi, sia pure con varianti, da tutti i suoi successori. Alla base c’è un unico grande tronco, l’antenato primordiale da cui partono i rami dei vari domini, regni, ordini della vita, fino ad arrivare a classi e specie. “I rami verdi e germoglianti possono rappresentare le specie esistenti”, scrisse Darwin. Ma, come racconta Quammen, oggi sappiamo che quell’albero in realtà non è affatto un albero con i suoi rami ben divaricati, come invece si insegna ancora in tutte le scuole (non creazioniste) del mondo. Piuttosto, assomiglia a un micelio sotterraneo, a una rete che si intreccia e si sviluppa, invisibile, in tutte le direzioni, che non prevede frondose posizioni apicali, ma rami che si uniscono e si annodano.
In pochi avevano finora provato a spiegare al grande pubblico un tema così complesso, che però è destinato a influenzare profondamente la biologia dei prossimi decenni, in quasi tutte le sue possibili applicazioni. Quammen, ancora una volta, sembra essere arrivato prima di tanti altri. Il Tascabile è tornato a parlarne con lui, per ripercorrere le tappe fondamentali di quanto accaduto negli ultimi quarant’anni in questo campo di ricerca, e per comprenderne le implicazioni.
“L’essenza dell’idea dell’evoluzione raffigurata come un albero”, ci racconta Quammen, “si può riassumere in due concetti: 1. L’eredità genetica è trasmessa verticalmente, dai genitori alla prole (o, nelle creature prive di una riproduzione sessuata come i batteri, dalla prima generazione a quelle che sono il frutto delle divisioni). 2. Le linee evolutive divergono come i rami di un albero, sempre dividendosi, per creare tanti ramoscelli singoli che trattengono le foglie nella chioma, che rappresentano la diversità biologica così come possiamo apprezzarla sulla Terra”.
Quella dell’albero è una raffigurazione che complica e arricchisce l’erronea visione lineare dell’evoluzione come una marcia del progresso. Eppure neanche l’immagine dell’albero è sufficientemente corretta. La nuova, radicale visione, che emerge a partire dalla fine degli anni Sessanta, sfida infatti entrambi i presupposti alla base dell’albero.
O meglio, come racconta Quammen: “non li elimina, ma aggiunge ulteriori elementi, per comprendere fenomeni e processi prima inspiegati. Nello specifico, l’eredità non passa solo verticalmente, ma può passare anche lateralmente, tra specie, tra ordini, tra classi, e perfino tra diversi regni della vita, in un processo chiamato trasferimento genico orizzontale, un meccanismo che comprende l’endosimbiosi, un fenomeno cruciale per capire di cosa stiamo parlando”. Quammen fa riferimento qui, in particolare, alle scoperte di Lynn Margulis, biologa statunitense che per prima propose e difese, contro l’establishment scientifico dell’epoca, l’ipotesi che prevede la presenza di materiale genetico teoricamente estraneo nel genoma delle creature viventi. Così ne parla Quammen nel libro:
Margulis sosteneva che le cellule da cui è formato ogni organismo vivente, che appartiene alle più complesse divisioni della vita – ogni essere umano, ogni animale, ogni pianta e ogni fungo – sono creature chimeriche, composte da batteri catturati dentro ricettacoli non batterici. Quei particolari batteri si sono trasformati, nel corso di estesi periodi di tempo, in organi cellulari. Immaginate un’ostrica, trapiantata in una mucca, che diventa un rene bovino funzionante. Sembrava un’idea folle quando Margulis la propose, nel 1967. Ma in gran parte aveva ragione.
Nell’essere umano, per esempio, si ipotizzava da tempo che i mitocondri, responsabili della respirazione cellulare, dotati di caratteristiche del tutto peculiari, strane, provenissero da altri regni, ma nessuno aveva mai osato estendere il meticciato cellulare e genetico a tutte le cellule di tutti gli esseri viventi. E non è tutto. Prosegue Quammen: “A causa del trasferimento orizzontale e dell’endosimbiosi, le linee evolutive non solo non divergono, ma convergono. A volte i rami si uniscono. Ecco perché l’albero, anche se ricorda ancora un albero, è aggrovigliato, ed ecco perché ho chiamato così il libro. Nella realtà gli alberi, con rare eccezioni, non hanno rami che si fondono, che convergono. Ma l’albero della vita è diverso: è profondamente intricato, e pieno di rami convergenti”.
Le prime intuizioni in questo campo, e molte delle ricerche cruciali successive, sono del biologo Carl Woese. La sua scoperta di un terzo regno, quello degli Archea, o archeobatteri, datata 1977, ha sovvertito la concezione stessa di evoluzione. “Prima di Woese gli scienziati credevano che esistessero solo due principali regni della vita: i batteri, e tutto il resto. Il regno di tutto il resto, quello degli eucarioti, conteneva tutte le creature composte da cellule complesse come animali, piante e funghi”. Woese scoprì invece che alcune creature che al microscopio sembravano batteri, ed erano sempre state scambiate per batteri, non lo erano affatto. “Se ne accorse usando non la microscopia, ma il sequenziamento genico e il confronto di un tipo di molecola cruciale chiamata RNA ribosomiale. Alcune delle cose che sembrano batteri non lo sono. Le loro sequenze genetiche sono più strettamente correlate a quelle degli animali, comprese le nostre, che a quelle batteriche. Eppure, pensò, potrebbero essere la forma di vita più antica. Per questo li chiamò Archaea”.
Woese, si legge nel libro, affermò quindi che “quella dei procarioti è una categoria priva di senso. I procarioti non esistono. Esistono solo i batteri, gli Archea e gli eucarioti”, realizzando così “almeno una o due scoperte che fecero tremare i pilastri del pensiero biologico”.
Già, ma come interpretare somiglianze e differenze di questi esseri così atipici? Con lo scambio orizzontale, con le convergenze dei rami: gli Archea “assomigliano all’uomo” perché, essendo così antichi, alcuni di loro ne fanno parte. O, per meglio dire, alcuni dei loro geni si sono stabilmente integrati con quelli umani, dove ne riconosciamo le sequenze, fino a pochi anni fa classificate con termini quali “DNA spazzatura”, o “materia oscura genetica”, perché nessuno ne comprendeva la presenza, e la funzione.
Tutto ciò è possibile perché il meccanismo di funzionamento del DNA non è esattamente come lo avevamo inizialmente immaginato. Nel tempo lo schema classico ha iniziato a mostrare qualche crepa, essenzialmente perché sono stati scoperti tratti enormi di materiale genetico apparentemente inutile, non trascritto. Ma poi si è capito, grazie al lavoro di Woese di altri (di cui il libro segue le tracce), che oltre alla mutazione – cioè al cambiamento lento e molto piccolo di singoli geni –, e alla ricombinazione – cioè al rimescolamento organizzativo di un DNA che però resta stabile –, esiste appunto il trasferimento orizzontale, che causa cambiamenti di grande portata nelle linee evolutive e nelle popolazioni: fenomeni che sono la base stessa delle grandi transizioni dell’evoluzione. Ecco perché queste idee sono così importanti, ed ecco perché questi concetti non sono ancora arrivati al grande pubblico: sono difficili da comprendere e, finora, come sottolinea Quammen, sono stati spiegati solo da articoli scientifici densi e complicati.
Le tracce di questa nuova visione emergono ovunque, anche negli studi che riguardano l’attuale pandemia. Qualche settimana fa, sul New York Times, proprio Quammen ha raccontato un aspetto meno noto delle ricerche scientifiche che in questi mesi indagano la vera natura di Sars-CoV 2.
In Cina, nei pipistrelli, esiste un cugino stretto di Sars-CoV 2, un coronavirus, chiamato RaTG13, che ha il 96% di geni uguali al responsabile della pandemia. Ma in quel 4% (che in genetica è un’enormità) si celano decenni di evoluzione divergente, forse iniziata in altre specie di pipistrelli. Il nostro nemico Sars-CoV 2e RaTG13 non sono la stessa cosa. Ma allora cosa è accaduto? (…) Non si sa ancora, il quadro è molto intricato, anche perché i coronavirus sono capaci di compiere un ingegnoso trucco evolutivo: il riassortimento genico. Ciò significa che quando due ceppi diversi di coronavirus infettano lo stesso singolo animale, si possono scambiare reciprocamente sezioni di geni orizzontalmente fino a quando emerge un nuovo essere composito, che può comprendere (anche se spesso per puro caso) le sezioni più aggressive e adattive dei due.
Eccolo, il trasferimento orizzontale, in tutto il suo minaccioso splendore, e nella sua agghiacciante efficienza evolutiva. “Una vera sfortuna per l’uomo. Ma l’evoluzione non è fatta per piacere a Homo Sapiens”.
Le implicazioni delle ricerche raccontate nel libro sono innumerevoli, dal punto di vista della genetica applicata, ma, come ci tiene a sottolineare Quammen “questa è scienza profonda, scienza pura. Cioè, la scienza per il bene della comprensione, non per il bene dell’applicazione. Lo stesso Woese era irremovibile su questo”. Alla fine del Ventesimo secolo, quando i metodi della biologia molecolare (distinti dalle scoperte della biologia molecolare) hanno portato a nuovi sistemi fantasiosi di manipolazione genetica – che per esempio consentono oggi di inserire geni specifici in certi batteri in modo che diventino fabbriche di insulina –, Woese si lamentò del fatto che questa scienza fosse diventata semplicemente “una disciplina ingegneristica”. “Certo, l’ingegneria genetica, le sue applicazioni per la salute umana e la lotta ai danni ambientali sono molto importanti. Ma il punto delle scoperte di Woese, per Woese, era qualcosa di ancora più importante: capire meglio la storia della vita sulla Terra”.
E raccontare le storie e le vite degli scienziati, di ricercatori puri, visionari ed eterodossi come Carl Woese, possono contribuire, secondo Quammen, a migliorare il nostro rapporto con la scienza. “La COVID-19 dovrebbe ricordarci che l’impronta umana sulla Terra è troppo distruttiva: siamo troppi, e stiamo consumando e sprecando troppo”. La causa profonda della pandemia è il turbamento dell’equilibrio ecologico, che costringe i virus animali ad avvicinarsi agli esseri umani. In un senso più ampio, dovrebbe aiutarci a ricordare che la scienza è importante, in tutte le sue forme: “medicina, virologia, ecologia, biologia evolutiva, biologia della conservazione. E anche scienza profonda e pura, che ci aiuta a capire che non siamo dominatori e le dominatrici del creato. Non siamo nemmeno l’apice dell’albero della vita. Nella storia della vita, che è lunga 3,8 miliardi di anni, e della crescita di quell’albero, siamo solo un piccolo ramoscello”.