

D ove stanno gli alberi? In giardino, sul viale, in montagna, tra i campi, eccetera. C’è un dipinto di Paolo Uccello, che si chiama La caccia notturna, dove è raffigurata una foresta. Gli alberi segnano lo spazio: fitti, costruiscono la prospettiva, dal primo piano fino in fondo. Sotto la selva si agitano i cacciatori, alcuni a cavallo altri appiedati, i cani, i cervi; alcuni si inoltrano nel bosco. A terra ci sono erbe diverse e tronchi, tronchi che sono tutti orientati e sembrano segnare un percorso verso il centro del quadro e della foresta. Anche per questo, è un dipinto unico. “Mi sembra che il più delle volte, nell’arte e nei racconti, il bosco faccia più che altro da sfondo a qualcos’altro”, mi dice Giorgio Vacchiano quando gli mostro il quadro. “Qui invece no”.
Vacchiano insegna Gestione e pianificazione forestale alla Statale di Milano e si occupa di modelli di gestione forestale, di relazioni tra foreste e crisi climatica. Nel 2018 la rivista scientifica Nature l’ha inserito tra gli 11 scienziati emergenti da seguire. “Sto rileggendo Il Signore degli Anelli”, mi racconta, “e guardando questo quadro mi viene ovviamente da pensare ai capitoli degli Ent, la foresta che cammina”. Nel libro di Tolkien, gli Ent sono dei giganti alberi parlanti caratterizzati da una pacata lentezza di pensiero e di decisione. “In effetti i tempi con cui gli alberi vivono e percepiscono sono lunghissimi e di questo ce ne accorgiamo sempre: quando guardiamo un albero o una foresta li percepiamo come qualcosa di immutabile, da sempre lì, senza passato né futuro, se non quello che vediamo”. E invece ci sono dei cambiamenti enormi: le foreste possono avanzare, espandersi, contrarsi, anche a causa della nostra azione. Una realtà di cui non abbiamo ancora piena coscienza, e che invece Tolkien aveva raccontato bene, nella sua epica di fantasia: alberi senzienti, che camminano, si spostano, discutono strategie di guerra.
Credo che in Italia abbia aumentato l’attenzione nell’opinione pubblica la tempesta Vaia [che nell’ottobre 2018, nel nordest Italia, ha soffiato un violentissimo vento di scirocco, tra i 100 e i 200 km all’ora, portando a schiantare al suolo milioni di alberi]. Quelle immagini di boschi abbattuti hanno mostrato a tanti che esiste un patrimonio forestale italiano, che è un peccato perderlo, e che va gestito e messo al riparo dagli estremi del clima.
Parallelamente, le manifestazioni di Fridays for future continuano a sottolineare il contributo delle foreste nella lotta al cambiamento climatico. Infine, penso che la pandemia abbia ulteriormente aumentato l’attenzione sugli alberi. Da un lato si è data grande risonanza alla deforestazione nella diffusione delle zoonosi, dall’altro molti di noi hanno sentito la mancanza di aree verdi nelle nostre città. Sicuramente ci sono altri fattori che mi sfuggono, ma questa nuova fortuna degli alberi mi sembra davvero un fenomeno nato solo due o tre anni fa.
D’altro canto, sulla capacità delle piante di prendere decisioni o di avere una specie di consapevolezza di sé, c’è molto più dibattito, poche certezze ma molte ricerche avviate. Se si parla degli alberi in questo modo, io non mi trovo d’accordo, perché non abbiamo tante evidenze di questa coscienza, perché non le abbiamo nemmeno sugli animali e su di noi: biologicamente non sappiamo ancora cos’è. Credo che così si corra il rischio di umanizzare le piante, di attribuire umori, caratteri, personalità, cosa che invece non rende loro giustizia: non possiamo descriverle in termini umani e dobbiamo aprire la nostra vista a qualcosa di radicalmente diverso da noi.
In questo senso la resilienza del bosco è una sfida, perché è anche la resilienza dei benefici che il bosco ci dà. Dunque è qualcosa che riguarda strettamente noi, ed è di grande attualità: con la pressione della crisi climatica la domanda è se le foreste riusciranno a continuare a darci i loro benefici, oppure no, e se dobbiamo preoccuparci. Questo è il filo conduttore del libro: nella prima parte si descrive la naturale capacità delle foreste di ritornare, nella seconda parte invece cosa succede quando questa capacità viene soverchiata e cosa possiamo fare noi per recuperarla. I grandi disturbi di oggi, come incendi e siccità, mettono in crisi le enormi capacità delle piante, perché questi cambiamenti avvengono troppo velocemente. Troppo per la capacità di una specie di trovare un nuovo adattamento evolutivo.
L’unica cosa che posso fare – una prospettiva antropocentrica, me ne rendo conto – è il bene comune della nostra specie. Penso non sia poco, perché intanto vuol dire il bene comune della maggior parte possibile di individui e anche di individui in futuro. Anche solo partendo da questo presupposto, potremmo arrivare molto lontano in un corretto rapporto con gli ecosistemi.
Ora, è chiaro che noi dipendiamo dagli ecosistemi, ed ecosistemi degradati non ci danno di che sopravvivere: non ci danno cibo, protezione, acqua, non fissano il carbonio nell’atmosfera. Però noi causiamo le grandi crisi del nostro tempo, quella climatica e quella della biodiversità, e queste si ripercuotono su di noi. Finora mi è bastata questa prospettiva per impostare un rapporto che passa anche dalla conservazione degli ecosistemi, dalla lotta al cambiamento, dalla lotta per la biodiversità, tutte cose che ci tornano utili.
Certo, i termini “utile”, o “gestione del bosco” sembrano voler comunicare che il bosco abbia bisogno che io faccia qualcosa per lui. Il bosco non ha bisogno di niente da parte mia, perché esisteva molto prima che la specie umana camminasse sulla terra. Sarebbe bello trovare un nuovo termine che trasmettesse l’idea che siamo invece noi che dipendiamo da lui e che tutto quello che facciamo è o per rimediare dei danni che noi stessi abbiamo fatto, oppure per esercitare il nostro impatto nel modo più moderato possibile, cercando di mantenere equilibrio tra la velocità del nostro impatto e la velocità di rigenerazione e resilienza degli ecosistemi. Ma non posso ridurlo a zero, perché esisto, l’umanità esiste.
Una parte importante di questo discorso è quella rappresentata dai cosiddetti ecotoni, ambienti di confine tra due ecosistemi diversi che possono ospitare gli abitanti dell’uno e dell’altro, che lì interagiscono. Più i bordi tra un ecosistema e l’altro sono irregolari, estesi, sfrangiati ed eterogenei e più sono dei luoghi speciali. Per esempio, i cervi e i caprioli stanno nel folto del bosco per difendersi da predatori e cacciatori e ogni tanto hanno bisogno di uscire per brucare l’erba di un prato. Quindi si trovano bene nelle zone di transizione tra l’elemento del bosco e del prato. Tra le savane e le foreste africane esiste tutta una comunità di ecotoni, fatta di alberi che non ci sono né nella savana né nella foresta e che stanno solo in queste condizioni di margine, dove il fuoco della savana non arriva intensamente e l’ombra della foresta non limita tanto la crescita. Esistono poi ecotoni nei mari, fra terraferma e oceano, dove un fiume sfocia e acqua dolce si mischia ad acqua salata, negli stagni che asciugano: lì si possono creare situazioni intermedie, anche stagionali. Sono ambienti che offrono più possibilità, rispetto a un ambiente sempre uguale. Quindi una visione sbagliata di gestione forestale è quella di imprimere la nostra idea sulla forma e sul funzionamento di un ecosistema, visione che deriva da una scarsità di conoscenza oppure da una visione utilitaristica.
Ma il fuoco poteva essere qualcosa da volgere perfino a proprio vantaggio – nel mondo vegetale e animale ci sono sempre gli opportunisti che utilizzano le occasioni in cui i concorrenti vengono sbaragliati per propagare i propri geni. Così ci sono piante che si riproducono proprio grazie al fuoco. Addirittura solo quando passa il fuoco, aprendo i propri frutti con il calore, con semi che possono resistere e che a volte richiedono di assorbire i fumi e le sostanze chimiche liberate dalla combustione. In Italia ci sono due specie di pini mediterranei che conservano questa strategia: hanno pigne sigillate con resine che normalmente non si aprono, e i semi non possono spargersi. Ma quando passa il calore di una fiamma, scioglie questa resina, apre il frutto: solo così i semi si spargono. Non è casuale che questa strategia si sia mantenuta, perché un seme in un ambiente percorso dal fuoco ha vita facilissima: c’è molta luce, perché le grandi piante sono distrutte, c’è cenere che fertilizza il terreno e non ci sono concorrenti.
Tra l’altro, se il clima continua a riscaldarsi alla velocità attuale, tra qualche decennio le montagne potrebbero essere dei veri e propri rifugi climatici per chi vive in città. Perciò bisogna arrivare a quel momento preparati, senza lasciare spazio a modelli di sviluppo che non hanno più alcun senso – come l’espansione sciistica sugli Appennini che tra qualche anno non vedranno più un filo di neve – o speculazioni selvagge. Eppure, a proposito di governare, prendi il Piano nazionale di resilienza, il piano di investimenti per rispondere alla pandemia: nella versione finale l’investimento per la conservazione delle foreste e la tutela del dissesto idrogeologico, previsto per un miliardo, è stato annullato. Le foreste rappresentano quasi il 40% del territorio italiano, non sono solo territori marginali: dimenticarsene così è drammatico.
Un’altra cosa che mi affascina è studiare la storia del rapporto tra uomo e ambiente. Per esempio, la storia delle antiche popolazioni che abitavano la foresta amazzonica. Secondo alcuni studi, hanno diffuso una grande quantità di piante da frutto che oggi a noi sembrano parte della giungla. Oppure hanno aumentato la fertilità dei suoli perché certe coltivazioni crescessero meglio e oggi vediamo la traccia archeologica di questi residui organici, nel cuore della foresta amazzonica che per noi rappresenta l’assenza dell’uomo, ma che probabilmente reca la traccia di un’antica azione umana. Insomma, la storia mi aiuta a vedere che l’uomo può avere una buona relazione con l’ecosistema o, al contrario, può essere la storia di quando non ci siamo ricordati che quel ecosistema era importante per la nostra sopravvivenza e siamo finiti gambe all’aria. Viceversa, le vicende umane sono dipese e sono state regolate anche dagli ecosistemi e dai climi. Questo ci insegna tantissimo sul ruolo dei cambiamenti climatici e su quanto sia poco saggio pensarli “solo” come un problema ambientale. No: sono un problema sociale, economico, che avrà conseguenze antropologiche e sul nostro rapporto coi nostri simili.