I n principio fu il protosincrotone. In un suo reportage, Robert Jungk, futurologo e storico della scienza, lo chiamò “la grande macchina”. Entrò in funzione al CERN di Ginevra nel 1959. Una grande collaborazione europea con obiettivi nella ricerca nucleare “pura”, priva cioè di scopi di natura industriale, al contrario, per esempio, dell’EURATOM o CEEA, la Comunità europea dell’energia atomica costituita sempre in quegli anni.
Con un diametro di 200 metri, il protosincrotone era il più grande acceleratore di particelle al mondo. Un gigantesco microscopio e al tempo stesso un grosso martello, costruito per scoprire cosa si nasconde dentro le particelle che compongono gli atomi. Per farlo, un acceleratore accelera attraverso campi elettromagnetici una particella fino a velocità prossime a quelle della luce. Come prevede la relatività ristretta (esemplificata nella famosa equazione di Einstein E=mc2), all’aumentare dell’energia aumenterà anche la massa della particella: un ottimo modo per renderle più visibili ai rilevatori. L’energia raggiungibile dal protosincrotone era di 25 GeV (gigaelettronvolt), ossia 25 miliardi di elettronvolt: livelli prossimi a quelli esistenti pochi istanti dopo il Big Bang (per contro, la massa-energia di un atomo in atmosfera è di appena 0,03 elettronvolt). A queste energie, la collisione tra fasci di protoni – i costituenti di base dei nuclei atomici insieme ai neutroni – è in grado di generare particelle sconosciute, che a energie più basse come quelle presenti normalmente in natura non potrebbero esistere, perché destinate a decadere immediatamente in particelle più stabili di massa inferiore, oppure che non possono esistere da sole, come i quark, i costituenti ultimi dei protoni e dei neutroni. Come nella miglior tradizione del metodo scientifico, insomma, l’idea è quella di rompere le cose per capire di cosa sono fatte. E ha funzionato.
I fisici erano all’epoca impegnati a mettere ordine nell’enorme “zoo delle particelle” emerse dai precedenti esperimenti e che, si dice, aveva fatto disperare Enrico Fermi al punto da fargli ammettere che, se avesse saputo di dover ricordare a memoria tutti i loro nomi, avrebbe scelto di studiare botanica. Con molta pazienza e molti esperimenti, fisici teorici e sperimentali riuscirono a poco a poco a mettere ordine in quel grande marasma. Si era scoperto che era possibile dividere le particelle in due grandi famiglie: i fermioni, che compongono la materia (e sono tutti dotati di massa), e i bosoni, a cui spetta il compito di mediatori delle forze fondamentali, ossia di tenere unito l’universo (alcuni di loro sono privi di massa).
Sono fermioni i quark, costituenti ultimi dei protoni e dei neutroni; gli elettroni, che circondano il nucleo degli atomi; e i neutrini, prodotti dalle reazioni nucleari che si svolgono nelle stelle, la cui massa è prossima allo zero. Sono bosoni, invece, i fotoni che mediano la forza elettromagnetica; i gluoni, che come una colla tengono uniti i quark tra loro (responsabili quindi della cosiddetta forza nucleare forte, che tiene unite, per l’appunto, le particelle elementari che costituiscono il nucleo dell’atomo); i bosoni W e Z, mediatori della forza nucleare cosiddetta debole che regola invece il decadimento dei nuclei atomici e il rilascio della radioattività (a queste particelle vanno aggiunti, forse, anche i gravitoni che, secondo alcune ipotesi, potrebbero essere le particelle mediatrici della forza fondamentale più nota ma anche più debole di tutte, la gravità). L’insieme di queste particelle compone quello che viene chiamato Modello Standard della Fisica.
Fu al protosincrotone che, nel 1974, si scoprirono le tracce delle correnti neutre, un tipo di interazione nucleare predetta da Abdus Salam, Sheldon Glashow e Steven Weinberg (vincitori, nel 1979, del premio Nobel), in grado di confermare la teoria elettrodebole, una teoria di grande unificazione secondo cui, alle alte energie, la forza elettromagnetica e la forza nucleare debole sono in realtà un’unica forza. La teoria prevedeva l’esistenza dei bosoni W e Z, ma le energie del protosincrotone non erano sufficienti a produrli durante le collisioni. Fu per questo che, nel 1976, lo si sostituì con il superprotosincrotone, SPS (Super Proton Synchroton), dal diametro di 2,2 chilometri e in grado di raggiungere l’energia di 400 GeV. Nel 1983 i due bosoni saltarono fuori dalle collisioni dei fasci di protoni, portando l’anno successivo al premio Nobel Carlo Rubbia e Simon van der Meer, che avevano condotto gli esperimenti.
Nel frattempo era entrato in funzione il Tevatron al Fermilab di Chicago, in grado di raggiungere i 500 GeV, e si capì che occorrevano energie superiori per riuscire a produrre bosoni W e Z in quantità sufficiente per misurarne le proprietà e proseguire la ricerca sul Modello Standard. La scoperta dei bosoni aveva sistemato molti tasselli del Modello Standard, ma ne occorrevano altri per riuscire a quadrare i conti. Bisognava, soprattutto, capire a cosa fossero dovute le masse così diverse delle particelle. Alcuni fisici, negli anni Sessanta, avevano ipotizzato un meccanismo attraverso cui l’acquisizione della massa dei fermioni e dei bosoni W e Z avviene attraverso la loro interazione con un campo che permea tutto l’universo: un campo scalare che, cioè, a differenza di un campo vettoriale come il campo elettromagnetico o quello gravitazionale, non presenta una direzione (vettore) associata a ogni punto del campo, ma solo un particolare valore, determinato in questo caso dall’energia potenziale del vuoto. Il grado di “accoppiamento” delle particelle con i valori di questo campo ne determinerebbe la massa. Al campo, la teoria associava un nuovo bosone, noto come “bosone di Higgs” da colui che per primo l’aveva previsto, Peter Higgs.
Per trovare il bosone di Higgs le energie di SPS non erano più sufficienti. Dapprima si provò con il Large Electron-Positron Collider, LEP, dalla circonferenza di 27 chilometri, che entrò in funzione nel 1989. Poiché operava attraverso collisioni non solo di protoni, ma anche di elettroni, che molto più facilmente possono essere accelerati a velocità relativistiche (data la loro massa 1839 volte inferiore a quella del protone), l’energia richiesta si limitava ad “appena” 200 GeV, sufficiente comunque non solo per studiare comodamente i bosoni W e Z (che hanno masse rispettivamente di 80 e 91 GeV), ma anche avvicinarsi alla scoperta del bosone di Higgs: furono raccolte evidenze di una particella di massa intorno ai 115 GeV che aveva le caratteristiche del famigerato bosone, ma le prove non erano definitive.
Poi, alla fine degli anni Novanta, si cominciò a costruire il suo successore LHC, acronimo di Large Hadron Collider. LHC è stato definito in molti modi. La macchina delle meraviglie, l’ottava meraviglia del mondo, la cattedrale della scienza, la più grande macchina dell’universo. Ha riempito l’immaginario contemporaneo in modi inaspettati, ancor prima di entrare in funzione: Dan Brown ne parlò nel suo romanzo Angeli e demoni nel 2000, otto anni prima dell’inaugurazione, e sui giornali apparvero deliranti allarmi sulla possibilità che distruggesse il mondo creando al suo interno un buco nero. Qualcuno suggerì addirittura che il piccione che lo mise fuori uso subito dopo l’attivazione fosse stato inviato dal futuro per evitare l’apocalisse. Ma, fantascienza a parte, la sua fama si deve ai suoi successi: con una circonferenza di 27 chilometri e un’energia partita da 3,5 TeV (teraelettronvolt), pari a 3500 GeV, poi cresciuta fino a 13 TeV, LHC è riuscito nell’impresa di scovare il bosone di Higgs a partire dal 2011, annunciandone ufficialmente la scoperta nel 2013.
Dal protosincrotone all’LHC e il bosone di Higgs, quella degli acceleratori di particelle è una storia di grandi scoperte scientifiche.
Eppure, oggi LHC sembra troppo piccolo agli occhi dei fisici. Nel suo libro La grande macchina, cinquantacinque anni fa, un giovanissimo Antonino Zichichi spiegava a Robert Jungk il problema della fisica delle particelle: “Rutherford è stato anche fotografato accanto al suo apparecchio, una volta. Ma se uno di noi, qui, volesse farsi riprendere con tutti gli strumenti che oggi vengono usati per una sola ricerca, neppure un servizio con dozzine di foto sarebbe sufficiente… Perché abbiamo bisogno di strumenti cento volte più numerosi, cento volte più grandi, per spingerci dove c’è realmente del nuovo da scoprire. In fondo, facciamo sempre le stesse cose. Solo che – e fece un ampio movimento con entrambe le braccia, che sembrava abbracciare non solo tutto il CERN, ma arrivare almeno fino a Trapani – ci siamo allargati un poco”.
Citius! Altius! Fortius!
Al CERN tutto è enorme. I protoni di LHC viaggiano a una velocità pari a 0,999999991 quella della luce, compiendo undicimila giri completi dell’anello ogni secondo. Nei tubi in cui devono muoversi i fasci si raggiunge uno stato di vuoto superiore a qualsiasi punto dell’universo conosciuto e le temperature toccano i 2 K (-271°C), appena due gradi sopra lo zero assoluto, ma nei brevissimi istanti delle collisioni è possibile superare di centomila volte la temperatura del Sole. Il rilevatore dell’esperimento ATLAS, che insieme all’esperimento CMS fu quello che “vide” per la prima volta il bosone di Higgs, è stato descritto, nel romanzo di Bruno Arpaia L’energia del vuoto (2011), come “un mostro da dodicimilacinquecento tonnellate sepolto a cento metri sotto terra”, “un’astronave aliena alta come un palazzo di sei piani”.
Eppure non basta. Esattamente come, dopo la prima scoperta dei bosoni W e Z al SPS, fu necessario costruire il LEP per produrne di più e rilevarne le specifiche, analogamente occorre un acceleratore più potente per produrre bosoni di Higgs in abbondanza per scoprirne i segreti. E così come il LEP non riuscì per un pelo a rilevare il bosone di Higgs, così LHC forse si è lasciato sfuggire per un pelo la possibilità di verificare l’esistenza delle particelle previste dalla teoria della supersimmetria, il nuovo “santo Graal” della fisica delle particelle, la cui scoperta confermerebbe una teoria in grado di unire le due grandi famiglie del Modello Standard (bosoni e fermioni). La supersimmetria si basa sull’idea che ciascun fermione abbia un partner bosonico di massa superiore, e a ciascuno bosone corrisponda un gemello fermionico più massivo (da qui l’aggettivo super, che descrive le masse-energie di queste ipotetiche particelle e il perché ancora non sono state scoperte: si troverebbero a livelli energetici superiori).
Le particelle previste dalla supersimmetria sono le principali candidate a spiegare la materia oscura (invisibile, ma significativa in termini di massa) e la loro scoperta potrebbe rappresentare anche una prima conferma dell’ambitissima teoria delle stringhe, il tentativo più avanzato di unificare le tre forze quantistiche con la quarta forza, quella gravitazionale.
Il progetto del Future Circular Collider (FCC) – un nuovo acceleratore circolare da 100 km di circonferenza, quattro volte LHC – è stato approvato, ma le tempistiche non sono ancora chiare.
I tempi sembrano insomma maturi per andare oltre LHC: un obiettivo a cui diversi team del CERN hanno lavorato per anni, dapprima interrogandosi sull’opportunità di puntare su un più semplice acceleratore lineare e non circolare, ma infine convergendo su un progetto di inaudita ambiziosità, il Future Circular Collider (FCC). Un nuovo acceleratore circolare protoni-protoni da 100 chilometri di circonferenza – quattro volte LHC – in grado di raggiungere energie dell’ordine di 100 TeV, sette volte superiori a quelle odierne. Il costo stimato è di 21 miliardi di euro.
Il 19 giugno 2020 il Consiglio del CERN ha approvato il progetto preliminare: una tempistica non proprio azzeccatissima, caduta in mezzo alle prime due ondate del COVID, che si è messo prepotentemente di mezzo agli ambiziosi obiettivi della comunità internazionale dei fisici delle particelle. “Nessuno può sapere cosa succederà a causa della pandemia: da quando, un anno fa, abbiamo terminato gli studi, a oggi, è come se fosse passata un’era geologica”, ammette al Tascabile Guido Tonelli, l’ex portavoce dell’esperimento CMS che individuò il bosone di Higgs, membro del gruppo che sta progettando il FCC.
Ma il virus non è affatto l’unico ostacolo alla realizzazione del progetto. Un altro è la Cina: nel settembre 2018 il governo cinese ha svelato i progetti di un acceleratore molto simile a FCC, il CEPC (acronimo di Circular Electron Positron Collider), con una circonferenza analoga, progettato per ospitare dapprima un collisore elettroni-positroni per produrre i bosoni di Higgs, e poi un collisore protoni-protoni da 100 TeV. Il sito prescelto è la città costiera di Qinhuangdao, trecento chilometri a est di Pechino, a una delle estremità della Muraglia Cinese. I cinesi sembrano fare sul serio e, prima della pandemia, promettevano di renderlo operativo nel 2028, ben prima del concorrente europeo. Se così fosse, l’Europa non potrebbe far altro che abbandonare il progetto FCC: il mondo non ha bisogno di due superacceleratori di particelle. “Ogni tentativo di portare avanti allo stesso tempo sia il CEPC che l’FCC si scontrerebbe contro la realtà dei fatti, e cioè che la comunità internazionale dei fisici delle alte energie non è sufficientemente ampia da poter supportare entrambi i progetti”, confessa al Tascabile Marco Maggiora, direttore dell’IHEP-INFN Joint Laboratory, la collaborazione sino-italiana di fisica delle particelle, che vede fisici cinesi e italiani lavorare congiuntamente a Pechino nello studio dei neutrini, della materia oscura e di altri ambiti di frontiera.
Un fantasma chiamato SSC
A turbare i sonni di molti è però un precedente. Una storia che i fisici delle alte energie non amano raccontare, soprattutto negli Stati Uniti, perché dimostra con quanta facilità i progetti ambiziosi della scienza possono essere affossati dalla politica. Nell’ottobre 1993 il Congresso interruppe la costruzione del Superconducting Super Collider (SSC), progettato per essere la risposta americana a LHC e garantire agli Stati Uniti la leadership del settore ottenuta nei primi anni Ottanta, quando il Tevatron del Fermilab di Chicago superò le energie di SPS diventando l’acceleratore più potente del mondo. SCC aveva ambizioni che facevano impallidire quelle degli europei: un anello di 87 chilometri di circonferenza ed energie dell’ordine di 20 TeV, ancora oggi non raggiunte. Si iniziò a costruire alla fine degli anni Ottanta in Texas, e quando alla fine le macchine furono fermate erano stati scavati circa ventiquattro chilometri di tunnel e spesi oltre due miliardi di dollari.
SSC era, per i tempi, un progetto troppo ambizioso. Ogni volta che si deve costruire un acceleratore, per la verità, non tutte le tecnologie necessarie esistono già sul mercato: per esempio, è quasi sempre necessario progettare e costruire magneti completamente nuovi, in grado di piegare e guidare i fasci di particelle nel tunnel, oppure trovare metodi innovativi per mantenere le temperature bassissime – le più basse dell’universo conosciuto – all’interno dell’anello. Ma con SSC il passo fu decisamente più lungo della gamba e il risultato fu che il progetto finì a gambe all’aria. Come conseguenza, la comunità dei fisici delle particelle americani dovette in gran parte trasferirsi armi e bagagli a Ginevra per collaborare con LHC, soprattutto all’indomani della chiusura del Tevatron nel 2011.
Lo spettro del SSC turba le coscienze dei progettisti dei nuovi acceleratori. Chen Ning Yang, premio Nobel per la fisica nel 1957, noto per la teoria di Yang-Mills alla base del Modello Standard, ha apertamente criticato il progetto CEPC. A suo dire il progetto è troppo oneroso per un paese come la Cina che, a dispetto del suo gigantismo, deve ancora risolvere molti problemi di sviluppo socio-economico e ambientale: finirà per costare quasi 20 miliardi di dollari e fare la fine del SCC. Ma cosa accadrebbe se la Cina battesse gli europei nella corsa alla nuova generazione di acceleratori? Il CERN perderebbe rilevanza al punto da costringere i fisici occidentali a trasferirsi in massa a Qinhuangdao, come accadde agli americani dopo la chiusura del progetto SSC?
Secondo Marco Maggiora, è un problema relativo: “Anche durante la Guerra Fredda, se si parla ovviamente di ricerca di base e quindi civile e non militare, una folta comunità di fisici occidentali, in cui la componente italiana era significativa, ha continuato ad interagire con i colleghi oltre cortina, condividendo con fisici da paesi parte del Patto di Varsavia progetti e collaborazioni ospitati in laboratori europei e al CERN, e allo stesso tempo partecipando a collaborazioni scientifiche e progetti ospitati al JINR di Dubna e nei laboratori di Protvino e Novosibirsk, solo per citarne alcuni”, spiega. “Dopo la morte in culla del progetto SSC, più che di leadership occidentale è più corretto parlare di leadership europea”. E tale leadership si conserverà per alcuni decenni, poiché “non sarà possibile puntare tutto sul CEPC a scapito del CERN”, dal momento che la comunità scientifica, “il vero capitale dell’operazione, resterà costituita in maggioranza da fisici europei, e questo per alcuni decenni, nonostante le scale dei processi economici e scientifici in Cina. Quindi anche se fisicamente situato in Cina, il progetto CEPC potrà eventualmente esistere solo nell’ambito di una efficace e reale collaborazione con la comunità scientifica europea, e quindi con il CERN che ne è il punto di riferimento”.
Guido Tonelli è un po’ più preoccupato, invece, della “concorrenza” cinese: “È inutile girarci intorno, la Cina è il nuovo protagonista mondiale sul piano economico, politico, militare, e ora anche sul piano scientifico e dell’innovazione tecnologica. È un paese che ha capito che nel Ventunesimo secolo chi primeggia in questi campi primeggia nel mondo, e la fisica delle alte energie rientra in questo programma”. Dopo Stati Uniti ed Europa, dunque, la Cina ha tutte le carte in regola per diventare il nuovo baricentro della ricerca mondiale alle frontiere della fisica. “La Cina ha lanciato una sfida e l’Europa dovrebbe accettare questa sfida, che è di collaborazione, certo, ma anche di competizione: la proposta di FCC è competitiva rispetto al progetto cinese, ma chi per primo riuscirà a realizzarlo avrà ovviamente aiuto dall’altra parte. Gli scienziati vogliono innanzitutto far avanzare la conoscenza e per noi le questioni strategiche sono secondarie”.
Dopo Stati Uniti ed Europa, la Cina ha tutte le carte in regola per diventare il nuovo baricentro della ricerca mondiale alle frontiere della fisica.
Con il crescere della competizione bipolare tra Cina e Stati Uniti, tuttavia, è lecito chiedersi se i progetti europei riceveranno un’accelerazione in ragione di considerazioni strategiche. In un’intervista a Foreign Policy, un alto funzionario dell’Accademia cinese delle Scienze ha ammesso che se il CEPC si realizzerà sarà impossibile replicare il clima di collaborazione del CERN, a partire per esempio dall’utilizzo di Internet, che in Cina è sottoposto alle restrizioni del Great Firewall. Ma ad allarmare sono anche le questioni relative al trasferimento tecnologico e al peso che il Partito comunista cinese – presente in ogni istituzione e aziende di stato – avrà nella collaborazione internazionale. Il clima non è ottimo. Di recente è diventato più difficile per gli studenti cinesi ottenere visti per studio o ricerca negli USA, a causa degli allarmi di diverse agenzie governative sull’infiltrazione di spie del governo cinese nelle infrastrutture di ricerca strategica americane, considerando che diverse università in Cina sono parte integrante del complesso militare-industriale del paese.
Big Science, big problems
Nel 2013 un gruppo di giovani fisici americani chiese ai colleghi di rispondere a un questionario sulle prospettive delle loro carriere nel settore della fisica delle particelle. L’argomento era emerso al Fermilab come diretta conseguenza della chiusura, due anni prima, del Tevatron: un evento che aveva dimostrato la stretta dipendenza delle prospettive di carriera della comunità dei fisici delle particelle dai grandi esperimenti, la cosiddetta big science. La chiusura di un grande progetto (come fu, all’epoca, SSC) può comportare, sul medio termine, l’uscita dal mondo della ricerca di migliaia di scienziati, costretti a trovare lavoro nel settore privato. Circa il 60% dei rispondenti si disse convinta di un futuro declino dei finanziamenti pubblici nella ricerca in fisica delle particelle, soprattutto di quelli per i grandi esperimenti.
Da molti anni il settore è scosso da venti di preoccupazione sui destini professionali di chi ci lavora. Nel mondo ci sono circa 13.000 fisici delle particelle (di cui solo 2.400 donne) e circa la metà lavora con il CERN. Cosa accadrebbe se, dopo la chiusura di LHC, non dovessero esserci nuovi acceleratori? Per Marco Maggiora il problema esiste: “Circa 15 anni separano in media un neo-laureato dalla maturità scientifica e professionale nel mondo accademico. Nessuna comunità scientifica sarebbe in grado di gestire un ‘buco’ di 10 anni in questo processo; il prezzo da pagare sarebbe un gap generazionale difficilmente poi colmabile, anche in presenza di fondi e progetti irresistibili”.
Negli ultimi anni le carriere si sono fatte sempre più competitive. È frequente che per un post-doc applichino anche cento persone, mentre solo una su dieci proseguirà il suo percorso nel mondo universitario. Il documentario Almost Nothing (2019) diretto da Anna de Manincor del gruppo di artisti ZimmerFrei, che approfondisce la quotidianità della comunità del CERN, riporta il “clima di incertezza e competizione” che caratterizza oggi l’ambiente del centro di ricerca. Un tempo bastavano tre anni di precariato per conquistare un contratto a tempo indeterminato, mentre oggi solo a una persona su tre viene offerta l’assunzione.
Negli ultimi anni le carriere si sono fatte sempre più competitive. È frequente che per un post-doc applichino anche cento persone, mentre solo una su dieci proseguirà il suo percorso nel mondo universitario.
La situazione non è migliore per i fisici teorici, che sono indubbiamente una minoranza. Lo dimostra il lungo sfogo su Facebook di una giovane teorica, Angnis Schmidt-May, rilanciato dall’influente blog Not Even Wrong di Peter Woit, autore dell’omonimo libro il cui titolo rimanda al modo in cui Wolfgang Pauli liquidava le teorie scientificamente infondate (“Non è neanche sbagliata”, affermazione che Woit usa per criticare la teoria delle stringhe). Come diversi suoi colleghi, Schmidt-May è stata costretta a lasciare la ricerca accademica a causa dell’eccessiva competizione, dell’assenza di posizioni permanenti, dell’esigenza di passare continuamente da un’università all’altra e del rischio di doversi costruire una nuova carriera alle soglie dei quarant’anni. Schmidt-May lamenta soprattutto la logica del publish or perish che, se da un lato caratterizza l’intera realtà accademica mondiale (costretta a pubblicare a ritmi forsennati per mantenere alto il proprio score), nel campo della fisica delle particelle implica l’ipertrofia di teorie, ipotesi e congetture in grado di rivoluzionarie il settore per poter gettare luce sulla fisica “oltre il Modello Standard”.
Questo è un tasto dolente su cui ha battuto molto la fisica teorica tedesca Sabine Hossenfelder, diventata da qualche anno una vera e propria ‘bestia nera’ per i colleghi del settore. Hossenfelder, che nel 2018 ha pubblicato il libro Lost in Math (in Italia tradotto nel 2019 con il titolo Sedotti dalla matematica), lamenta la fantasiosità con cui oggi vengono ipotizzate continuamente nuove famiglie di particelle: “Abbiamo preoni, sfermioni, dioni, monopoli magnetici, simps, wimps, wimpzillas, assioni, flassioni, ereboni, cornuciponi, magnoni giganti, massimoni, macros, branoni, skyrmioni, cuscutoni, planckoni, neutrili sterili, solo per citare i più popolari. Nessuno di questi è mai stato visto, ma le loro proprietà sono state attentamente studiate in migliaia di pubblicazioni scientifiche”.
È diventata prassi, nel settore, vedere i server di arXiv – il popolare database dove i ricercatori caricano in anteprima e in formato aperto i loro articoli scientifici prima di sottoporli alle riviste – presi d’assalto con centinaia di paper ogni qualvolta dal CERN o da altri grandi centri di ricerca vengono annunciati segnali di “nuova fisica”, spesso destinati a essere derubricati a fluttuazione statistica una volta ampliata la presa dati. Ciò può sembrare un indizio dell’ottimo stato di salute della fisica teorica, in grado di produrre continuamente nuove idee per far avanzare il settore. Ma in molti credono che sia vero l’inverso: se da decenni si continuano a proporre nuove particelle per spiegare l’origine della materia oscura o le peculiari caratteristiche del Modello Standard senza che indizi sperimentali emergano nei rilevatori, forse ci troviamo di fronte a una mancanza di creatività, non a un suo eccesso.
Questa è la tesi, per esempio, di tre sociologi americani – Lingfei Wu, Dashun Wang e James A. Evans – che nel febbraio 2019 hanno pubblicato su Nature uno studio che ha preso in considerazione ben 65 milioni di articoli scientifici apparsi tra il 1954 e il 2014, oltre che migliaia di brevetti e software, concludendo che le grandi collaborazioni, pur producendo lavori molto citati, fanno pochissima innovazione. Nella fisica delle particelle le pubblicazioni sono spesso firmate da centinaia di nomi, per tenere dentro tutti i membri della collaborazione, dal principal investigator all’ultimo dottorando di ricerca. Ma più il gruppo di lavoro è grande, minore è il tasso di produzione di idee innovative e di capacità di produrre un mutamento di paradigma nel senso proposto dal celebre filosofo della scienza Thomas Kuhn. Questo ha un impatto diretto sul dibattito sui futuri acceleratori, come ha sintetizzato Pietro Greco: se all’epoca della costruzione di LHC esisteva già una solida teoria su cui basare la ricerca – quella del campo di Higgs e dell’omonimo bosone – oggi la situazione è molto diversa perché “non sappiamo esattamente cosa cercare e di conseguenza la probabilità di trovare qualcosa a grandissime energie non è scontata”. E se è vero che i fisici affermano che anche non trovare niente sia pur sempre una scoperta, non siamo nelle condizioni di “spendere un miliardo di euro per mandare una sonda su una luna di Saturno e non avere la certezza di trovarla”.
Il mondo ha bisogno di un nuovo acceleratore?
Negli ultimi mesi proprio Sabine Hossenfelder è diventata una voce critica molto ascoltata sul tema dei nuovi acceleratori. Ospitata su Nature, sul New York Times, sul Guardian, su Scientific American e altre testate di prestigio mondiale, afferma che “il mondo non ha bisogno di un nuovo acceleratore”. Hossenfelder ha lasciato il campo della fisica teorica, accusato di essere finito del tutto fuori strada inseguendo chimere legate ad astratti concetti di bellezza matematica e coerenza interna delle teorie, senza più alcun legame con l’evidenza empirica. Le principali teorie sulla nuova fisica, in particolare la supersimmetria, sono “sbagliate”, secondo Hossenfelder, e costruire un acceleratore da venti miliardi per scoprirlo è uno spreco di soldi. “È tempo per i fisici delle particelle di fermarsi e riflettere sullo stato della disciplina. È tempo per loro di chiedersi perché nessuna delle eccitanti predizioni che hanno promesso è risultata in una scoperta. I soldi non risolveranno il problema. E nemmeno un acceleratore più grosso”, ha affermato al New York Times.
Guido Tonelli, che ha un ruolo da protagonista nella progettazione del FCC, è ovviamente di ben diverso avviso. “La scienza su cui si basa FCC è solida”, garantisce. “Sia per quanto riguarda gli scopi di fisica che per le possibilità di realizzarli: si tratta in fondo di replicare quanto già fatto con l’iter che portò prima al LEP – la macchina elettroni-positroni – e poi LHC, il collisore protoni-protoni. Sarebbe la cosa giusta da fare”. Per Tonelli, è sbagliato pensare che si costruisca un acceleratore con il preciso obiettivo di trovare qualcosa che si sa già essere lì. “La ricerca è esplorazione. Poi, in alcuni momenti particolari abbiamo a disposizione una teoria che ci dice dove cercare per trovare qualcosa. Questo è avvenuto con i bosoni W e Z. Già con LHC è stato diverso, perché non conoscevamo la massa del bosone di Higgs e a quelle energie poteva esserci qualche altra cosa, avremmo potuto scoprire che la rottura di simmetria della teoria elettrodebole avesse un altro meccanismo. Il Tevatron, per esempio, era stato inventato per scoprire W e Z, ha fallito in quest’operazione perché Rubbia li aveva scoperti prima, ma è riuscito a scoprire il quark top, che non ci si aspettava a quelle energie” (il quark top fu l’ultimo dei sei quark a essere scoperti, a causa della sua grande massa – di fatto è la particella elementare più massiva).
Cosa potrebbero scoprire i nuovi acceleratori di particelle che sostituiranno LHC? Perché i fisici sono convinti dell’esistenza di una “fisica oltre il Modello Standard”?
Ma cosa potrebbero scoprire, allora, i nuovi acceleratori di particelle che sostituiranno LHC? Perché i fisici sono convinti dell’esistenza di una “fisica oltre il Modello Standard” che merita di essere indagata a fondo, quale che sia il costo? Il bosone di Higgs non doveva essere l’architrave del tempio della realtà? La situazione è invece oggi molto più complessa di quanto potrebbe sembrare. Il fatto che non sia possibile trovare una spiegazione al 96% di ciò che c’è nell’universo – la famigerata “materia oscura” ed “energia oscura” – è motivo di sconcerto e di eccitazione nella comunità scientifica. I neutrini, le elusive particelle che il Modello Standard vorrebbe prive di masse, non solo possiedono massa, per quanto minima, ma oscillano spontaneamente e senza alcuna ragione apparente nelle tre diverse versioni possibili (neutrini elettronici, muonici e tauonici). E poi, se le forze fondamentali sono quattro, perché solo tre di queste possono essere descritte dal Modello Standard mentre la forza di gravitazione sembra avere tutt’altra spiegazione (un effetto della geometria dello spazio-tempo, anziché un campo quantistico)?
C’è inoltre ancora da capire il motivo dell’asimmetria tra materia e antimateria, per cui quest’ultima esiste solo in tracce nel nostro universo: buona parte della ricerca a LHC si concentra oggi sulla ricerca di evidenze di una violazione della parità CPT, secondo cui tutte le particelle fondamentali rispettano una simmetria di carica (se si inverte la carica elettromagnetica, nulla cambia), di parità (se si invertono le coordinate spaziali, nulla cambia) e di tempo (se si inverte la freccia del tempo, nulla cambia). Singolarmente, queste tre simmetrie hanno delle eccezioni. Insieme, sono finora sempre state confermate. Una violazione di simmetria spiegherebbe perché c’è così poca antimateria e aprirebbe le porte alla nuova fisica. Ma finora non sono state raccolte prove definitive.
Costruire cattedrali
Insomma, a differenza della situazione della fisica alla fine del Diciannovesimo secolo, quando si affermava che ormai tutto fosse noto e che il compito dei fisici si sarebbe limitato ad aggiungere valori decimali ai parametri noti, per poi imbattersi nella duplice rivoluzione dei quanti e della relatività, oggi sappiamo che le cose che non conosciamo sono decisamente superiori a quelle che conosciamo. Il problema è che le rivoluzioni della prima metà del Ventesimo secolo sono state possibili grazie a semplici esperimenti di laboratorio, o addirittura (nel caso di Einstein) a carta e penna. Oggi servono invece acceleratori sempre più grandi e potenti e collaborazioni di migliaia di persone. E se questa strada fosse quella sbagliata? Se la fisica oltre il Modello Standard si trovasse a scale di energia ben superiori a quelle raggiungibili da qualsiasi acceleratore di particelle oggi progettabile?
E se la strada degli acceleratori fosse giunta a un vicolo cieco? La maggior parte dei fisici, come Guido Tonelli, si mantiene fiduciosa.
La maggior parte dei fisici si mantiene fiduciosa. “È un pregiudizio sbagliato in ogni genere di ricerca l’idea che un progetto si faccia solo se si sa già cosa si vuol trovare”, osserva Guido Tonelli. “Le ricerche più strabilianti sono avvenute quando si cercavano altre cose”. La storia, d’altronde, insegna. Già cinquantacinque anni fa, discutendo del successore del protosincrotone, i fisici atomici – come allora venivano chiamati – si trovarono ad affrontare questi stessi problemi. Allora lo sfidante del CERN era l’Unione sovietica. Nel 1967 fu inaugurato l’U-70, il più potente acceleratore di particelle del mondo, a Protvino, cento chilometri a sud di Mosca. Si discuteva del trattamento che avrebbero ricevuto gli scienziati occidentali chiamati a collaborare alla ricerca. La loro corrispondenza sarebbe stata controllata? Avrebbero avuto libertà di movimento? Avrebbero potuto leggere giornali occidentali che in URSS erano vietati? Ma la supremazia sovietica durò molto poco.
Gli europei e gli americani erano preoccupati, allora come oggi, delle resistenze politiche ai loro progetti. Come notava Robert Jungk ne La grande macchina, “quanto più i progetti diventano grandiosi e costosi tanto più vengono a dipendere da fattori estranei alla scienza stessa”. Ma questi fattori non sono solo di tipo politico ed economico. La costruzione di nuovi acceleratori mette in moto concezioni quasi metafisiche. “A me sembra che il creatore d’un acceleratore debba essere animato dallo stesso spirito del creatore d’una cattedrale”, confessò nel 1956 a Scientific American Robert Wilson, architetto e primo direttore del Fermilab. Il fisico tedesco Helmut Faissner espresse un’idea simile a Robert Jungk durante una visita al CERN, in un passo che vale la pena riportare per intero:
Immaginiamoci ad esempio che la nostra civiltà scompaia in una guerra atomica, e che solo dopo secoli sia riscoperta dai discendenti dei pochi sopravvissuti. Per che cosa potrebbero prendere allora questa gigantesca struttura circolare, precisa fino alla frazione di millimetro? Ebbene, probabilmente per un luogo di culto. Per favore, non rida di quest’idea. Perché, talvolta, mi chiedo in tutta serietà se quello che facciamo qui al CERN non rappresenti una specie di ‘culto’. – Un culto s’intende nella lingua della nostra epoca che noi chiamiamo ‘scientifica’ – una ricerca, un’aspirazione verso qualcosa di più grande, verso la verità se la vuol chiamare così. Forse questa ricerca non cesserà mai. Nel nucleo dell’atomo abbiamo scoperto delle particelle, e all’interno di questi frammenti troviamo ora parti ancora più piccole. Ricercatori forniti di apparecchi ancora più grandi e più forti, vogliono trovare strutture ancora più delicate, elementi ancora più minuscoli. Così noi uomini potremo guadagnare sempre maggiori conoscenze, in alcuni campi nascosti, senza mai giungere ad una ‘fine’. E così, non facciamo forse ciò che uomini di epoche precedenti tentarono di realizzare in altro mondo, elevando chiese alla loro più alta aspirazione?.
Al che Jungk, dopo qualche momento di silenzio, replicò: “Allora la ricerca sarebbe forse una forma odierna della preghiera?”