G li abissi più profondi della Terra non sono mai stati così vicini. Negli ultimi 70 anni siamo riusciti a calcolare la massima profondità della fossa delle Marianne, stimata in 10.994 metri (con un margine di errore di 40 metri) e oggi sappiamo che questi abissi sono abitati: in particolare le spedizioni statunitensi del ROV Deep Discover della NOAA hanno individuato e filmato specie nuove e bizzarre: il cosiddetto “pesce fantasma”, un liparide più simile a un’anguilla dal corpo affusolato e con pinne morbide ricoperte di sensori gustativi con cui assaggia l’acqua; o ancora piccoli pesci grigi, o colorati, decapodi (gamberi) dalle antenne lunghissime, meduse fosforescenti come la “medusa aliena” del genere Crossota e anfipodi come Hirondellea gigas, una sorta di piccolo gamberetto. Abbiamo anche scoperto che proprio nello stomaco degli abitanti di quello che pensiamo essere il punto più remoto della Terra c’è plastica, e non sappiamo ancora quali effetti potrebbe avere la sua ingestione da parte di questi organismi.
Eppure la fossa delle Marianne è stata a lungo simbolo stesso dell’irraggiungibile, avamposto sconosciuto e inesplorabile, un luogo misterioso e avvolto nel mito. Almeno fino al 23 gennaio 1960, quando lo svizzero Jacques Piccard e l’americano Donald Walsh non raggiunsero l’abisso Challenger, il punto più basso della fossa del Pacifico, a bordo del batiscafo Trieste, imbarcazione costruita in Italia e progettata dallo stesso Jacques Piccard insieme a suo padre Auguste.
Il 23 gennaio 1960, Jacques Piccard e Donald Walsh raggiunsero l’abisso Challenger, il punto più basso della fossa del Pacifico, a bordo del batiscafo Trieste, costruito in Italia.
Alto e magro, occhi vivaci nascosti dietro due lenti rotonde e piccole, Auguste Piccard non era nuovo a missioni straordinarie. Sin dall’inizio della sua carriera di fisico, si era dato un solo obiettivo, che all’epoca doveva sembrare impossibile: sollevarsi nella stratosfera e studiare gli stati ionizzati della materia, i raggi cosmici e la radioattività per fornire prove alle teorie di Albert Einstein. Il 27 maggio 1931, il quarantasettenne Auguste Piccard decolla da Augusta, in Germania, con Paul Kipfer: i due si infilano in un’innovativa cabina di alluminio, pressurizzata e di forma sferica, progettata dallo stesso Piccard e agganciata a una mongolfiera. Dotati solo di un casco esile, una sorta di cestino, ricoperto internamente con della tela, riescono nell’impresa raggiungendo i 15.781 metri di altezza. Il nome di Auguste Piccard è ormai impresso nella storia come quello dell’uomo “che sfidò la forza di gravità”. Nel 1932 Auguste arriva a oltre 16.200 metri d’altezza e due anni più tardi, il fratello gemello Jean, stavolta da solo, stabilisce un nuovo record salendo a quota 17.500 metri.
Conquistati i cieli, Auguste si accorge che una piccola modifica alla sua cabina di pilotaggio avrebbe potuto permettere la discesa negli abissi. E così, nel 1937, è al lavoro in Belgio, impegnato nella costruzione del primo prototipo di batiscafo vero e proprio, l’FNRS-2, un sottomarino in grado di raggiungere profondità superiori a quelle di qualunque modello militare fino ad allora costruito. Per la messa a punto però dovrà aspettare la fine della guerra, e nel 1948 compie la prima immersione: il suo batiscafo funziona, ma dopo poco viene venduto alla marina francese. È così che entra in scena suo figlio Jacques.
Negli anni Cinquanta, Jacques lavora a Trieste come economista e riceve un’offerta da parte di un’industria locale per costruire un sottomarino analogo a quello del padre. Proprio in Italia, padre e figlio si mettono al lavoro insieme per produrre il nuovo batiscafo, battezzato “Trieste”, più avanzato e performante del primo. Il progetto è allo stesso tempo semplice e quanto mai rivoluzionario, e finirà per cambiare per sempre la storia delle immersioni. Fino a quel momento, infatti, per esplorare il fondale si mettevano in acqua delle sfere metalliche sottili, calandole dalle navi, a cui queste rimanevano sempre agganciate tramite cavi. Il Trieste, invece, sarebbe stato un vero batiscafo indipendente, in grado di muoversi da solo, senza bisogno di cavi né appoggi. E soprattutto avrebbe ospitato al suo interno degli esseri umani.
Auguste e Jacques Piccard progettano la camera sferica in modo che questa sia completamente indipendente dallo scafo e che possa ospitare solo due persone.
Alla fine del 1952 il cantiere navale di San Marco dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste, conclude la costruzione dello scafo, lungo 15 metri e diviso in camere. Le più esterne si sarebbero riempite di acqua marina per consentire l’immersione, mentre le camere più interne sarebbero rimaste piene di benzina: più leggera dell’acqua e, a differenza dell’aria, incomprimibile. Il fluido ideale per non rischiare di far implodere lo scafo in fase di discesa, per l’alta pressione. Infine, in altri due comparti, nove tonnellate di pellet in ferro avrebbero costituito la zavorra, che sarebbe stata poi liberata con un sistema di elettromagneti in fase di risalita. Lo scafo era attraversato da un tunnel che permetteva di raggiungere la camera, di forma sferica, situata sotto lo scafo, dove avrebbe alloggiato l’equipaggio.
La costruzione della camera sferica viene affidata alla Società delle Fucine delle Acciaierie di Terni. Pesante 13 tonnellate, con un diametro di due metri e le pareti spesse 12,7 centimetri per resistere alla pressione di 110 MPa, la sfera viene realizzata assemblando due emisfere, forgiate e temprate in olio. Auguste e Jacques Piccard progettano la camera sferica in modo che questa sia completamente indipendente dallo scafo e che possa ospitare solo due persone. L’unico contatto visivo con l’esterno sarebbe stato assicurato da un singolo blocco di forma conica realizzato in plexiglass, nuovissimo materiale plastico immesso sul mercato appena una ventina di anni prima. Allo scafo vengono aggiunte telecamere e sonar, e delle speciali lampade al quarzo, in grado di resistere a pressioni superiori alle 1000 atmosfere.
Agli inizi del 1953 è finalmente tutto pronto, non manca che assemblare il Trieste, operazione che viene svolta al cantiere navale di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli. È così che il batiscafo viene varato nel golfo partenopeo e il 16 agosto 1953 effettua la sua prima immersione di prova nelle acque di Capri, per poi farne una seconda in acque più profonde nei pressi dell’isola di Ponza. Il Trieste arriva quindi al porto dell’isola scortato dalla corvetta Fenice della Marina Militare Italiana, il dragamine Giuggiolo e il rimorchiatore Audace e la mattina del 30 settembre 1953, alle ore 8.18 inizia la discesa nel punto più profondo del Tirreno, una ventina di miglia a sud-est di Punta della Guardia. Due ore dopo, il Trieste riemerge. I due Piccard confermano di aver toccato il fondo nelle acque di Ponza: sono arrivati a 3.150 metri (oggi sappiamo che il punto più profondo del Tirreno si trova a 3.785 metri di profondità). E aggiungono che dopo i 100 metri sono stati sempre immersi nel buio, e che, spenti i fari del Trieste, sono rimasti molto tempo ad ammirare organismi fosforescenti di cui non sospettavano l’esistenza. La notizia dell’impresa fa presto il giro del mondo, viene riportata sulla stampa e passa nelle radio italiane, francesi, tedesche e inglesi. Un inviato de La Stampa di Torino, presente all’evento, scrive: “Auguste e Jacques Piccard sono scesi con il batiscafo Trieste, da essi ideato, a 3150 metri di profondità, facendo conquistare alla Svizzera, paese di monti e senza un litro di acqua salata, il primato mondiale di immersione”. Il batiscafo diventa famosissimo e poco tempo dopo, nel 1958, la U.S. Navy lo acquista per 250.000 dollari.
Jacques e Auguste capiscono presto che, con il Trieste, la Marina militare americana ha intenzione di esplorare le profondità oceaniche: al batiscafo serve un pilota e così Jacques viene assunto dalla Marina statunitense come consulente. Il progetto Nekton della U.S Navy ha inzio e il 5 ottobre 1959 il Trieste parte da San Diego alla volta dell’isola di Guam, la più grande delle isole della Micronesia, che si affaccia sullo strapiombo della fossa delle Marianne. Insieme a Jacques e al Trieste, c’è anche l’oceanografo e ufficiale dell’U.S. Navy, Don Walsh, classe 1931.
La strumentazione di bordo segna 11.521 metri. Intorno a loro c’è solo buio pesto, acqua densa e fredda e un suolo fangoso. Il fondo chiaro e luminoso, come un deserto con qualche diatomea.
Dopo 9 mesi e 64 immersioni di preparazione, il 23 gennaio 1960, il batiscafo Trieste è pronto per la missione. Alle ore 08:00 il portellone si chiude, Jacques e Don Walsh scendono le scalette che attraversano lo scafo, entrano nella capsula sferica e iniziano la discesa. Si inabissano a lungo, per qualche ora, poi toccano il fondo. La strumentazione di bordo segna 11.521 metri. Sono i primi esseri umani ad arrivare laggiù. Intorno a loro c’è solo, di nuovo, buio pesto, acqua densa e fredda e un suolo fangoso. La luce dei fari ogni tanto illumina qualcosa: “particolari specie di sogliole o platesse, lunghe circa 30 centimetri e anche dei gamberetti. Il fondo chiaro e luminoso, come un deserto con qualche diatomea”, racconteranno i due, quando da quelle profondità riusciranno persino a mettersi in contatto con la nave di supporto rimasta in superficie, grazie a un sistema sonar.
Jacques e Don Walsh restano venti minuti avvolti dagli abissi. Poi iniziano a risalire. Dopo cinque ore dall’immersione, alle 13.06, riemergono tra gli applausi e gli abbracci. Anche la Rolex può festeggiare la sua singolare campagna di marketing: l’orologio Deep Sea Special agganciato al Trieste e affidato a Jacques torna in superficie perfettamente funzionante.
Dopo il Trieste altri hanno tentato la discesa senza successo. Nel 1995 ci provò il batiscafo Kaiko, senza equipaggio, perdendosi poi in mare. Nel 2009 ci riprovò il Nereus, sempre senza equipaggio. Solo nel marzo del 2012, cinquantadue anni dopo il Trieste, nella fossa delle Marianne è tornata una spedizione umana: il regista James Cameron è sceso in solitaria a bordo del Deepsea Challanger, mini-sottomarino, simile a un siluro, capace di immergersi a una velocità di 150 metri al minuto e di resistere a pressioni superiori a 1,2 tonnellate per centimetro quadrato – costruito da un’équipe australiana con la collaborazione di vari istituti (lo Scripps Institution of Oceanography, il Jet Propulsion Laboratory e l’Università delle Hawaii) e grazie anche alla sponsorizzazione della National Geographic Society e, di nuovo, della Rolex.
“Sono appena arrivato nel punto più profondo dell’Oceano Pacifico. Toccare il fondo non è mai stato così bello. Non vedo l’ora di condividere con voi ciò che vedo”, ha twittato Cameron dopo due ore e trentasei minuti di discesa nel buio, raggiungendo con successo il fondo della fossa a quasi 10.900 metri. L’ultimo a sfidare gli abissi nel maggio del 2019 è stato il ricercatore ed esploratore americano Victor Vescovo, che ha infranto il record mondiale di immersione in profondità e in solitaria con batiscafo ed equipaggio, scendendo a 10.928 metri con il suo sottomarino DSV Limiting Factor. Nel frattempo, la famiglia Piccard non ha abbandonato le esplorazioni al limite dell’impossibile. Nel 1999, Bertrand, figlio di Jacques, è stato il primo uomo a completare un giro del mondo ininterrotto in mongolfiera. E poi, nel 2016, con André Borschberg, ha effettuato la stessa impresa su un aereo alimentato solo a energia solare, il Solar Impulse.