“G li occhi dello squalo non rivelano alcuna espressione o emozione, così come non esprimono né paura o minaccia”, scrive Dean Crowford in Shark. “Quando morde, lo squalo rotea gli occhi all’indietro o li chiude con una membrana nittitante che li protegge dai graffi disperati della preda”.
Il mito della voracità degli squali non ha eguali nel mondo animale: nell’immaginario umano sono macchine assassine, il cui unico obiettivo è soddisfare la propria frenesia alimentare divorando una preda dopo l’altra. Spesso lo squalo – e il grande squalo bianco (Carcharodon carcharias) in particolare – è rappresentato nelle opere di fiction come un essere dotato di perfidia, astuto e malvagio, a tratti addirittura sleale. Un degno rappresentante di quell’aspetto misterioso e oscuro che l’ignoto e imperscrutabile mondo marino possiede agli occhi dell’uomo dall’alba dei tempi, un essere i cui stessi occhi sono abissi insondabili.
Il mito moderno dello squalo mangiatore di uomini ha inizio nel 1916, quando uno o più squali attaccarono alcuni bagnanti nelle acque del New Jersey, fra Beach Haven e Matawan. Sono i primi di luglio, le spiagge sono piene; il bilancio è drammatico: muoiono quattro persone e una resta ferita. Nonostante in quei giorni New York fosse vessata dalla poliomelite e in Francia decine di migliaia di fanti inglesi venissero falcidiati dalle mitragliatrici tedesche durante la battaglia della Somme, in America le prime pagine dei quotidiani vennero tutte dedicate ai fatti del New Jersey. L’isteria generata dagli attacchi fu tale che l’opinione pubblica chiese una cosa soltanto: vendetta. Michael Schleisser, tassidermista e pescatore, uccise un piccolo squalo bianco nelle acque della zona qualche giorno più tardi. Nello stomaco dell’animale furono trovati resti umani, a quel predatore furono imputate le morti delle settimane precedenti.
Lo squalo è un degno rappresentante di quell’aspetto misterioso e oscuro che l’ignoto e imperscrutabile mondo marino possiede agli occhi dell’uomo dall’alba dei tempi.
La vicenda, insieme ad altre – come quella, famosa, dell’incrociatore USS Indianapolis colato a picco nel Mar delle Filippine, il cui equipaggio fu decimato da ripetuti attacchi di squali – ispirò lo scrittore Peter Benchley. Il suo romanzo, Jaws, divenne un bestseller prima che nel 1975, un anno più tardi, un giovane e promettente regista di nome Steven Spielberg ne ricavò un adattamento destinato a entrare nella storia del cinema.
Se letteratura, arte e scienza ottocentesca hanno contribuito in modo determinante a costruire il mito dello squalo sanguinario, il cinema ha elevato i predatori degli abissi a veri e propri mostri. Ne Lo squalo è Quint – novello Achab sopravvissuto all’affondamento dell’Indianapolis – ad alimentare il mito: “Sai che cosa hanno di strano gli squali?”, chiede durante il monologo più noto del film. “Hanno degli occhi senza vita, palle nere senza luce dentro”. Nonostante le pellicole successive non ebbero altrettanto successo, Lo squalo è rimasto nell’immaginario comune, così come la colonna sonora di John Williams, premiata l’Oscar. Sembra che a Hollywood dagli anni Settanta poco sia cambiato: in un film dello scorso anno, Paradise Beach, con Blake Lively nel ruolo di protagonista, il grande squalo bianco è la stessa macchina assassina di sempre, testarda e infida, il cui comportamento non differisce da quello mostrato nei b-movie o in alcuni documentari sensazionalistici.
Mentre il mito dello squalo assassino diventava un fenomeno di massa e prendeva piede la caccia sportiva allo squalo – con alcuni rappresentanti d’eccezione, come Vic Hislop (fu lui a fornire le carcasse di squali tigre a Damien Hirst) e Frank Mundus –, nasceva lentamente un’altra sensibilità a partire dal lavoro di alcuni esperti, ricercatori e fotografi, fra cui Jacques Cousteau, Rodney Fox, Ron e Valerie Taylor. Gli occhi dello squalo iniziarono a farsi meno bui: si diffuse l’idea che questi predatori marini, ora aggraziati e affascinanti, non fossero più vittime che assassini.
Se letteratura, arte e scienza ottocentesca hanno contribuito in modo determinante a costruire il mito dello squalo sanguinario, il cinema ha elevato i predatori degli abissi a veri e propri mostri.
Nel 1987 la Cina abrogò la legge che proibiva la preparazione della zuppa di pinna di squalo, rilanciando così un commercio in netto declino nel periodo maoista. Fu un’inversione di tendenza drammatica per numerose specie di squalo, che tornarono a essere cacciate senza posa in diverse aree del pianeta perché su alcuni mercati le loro pinne venivano pagate a peso d’oro. Lo shark finning – pratica che prevede la cattura dell’esemplare, l’asportazione delle pinne e il rilascio della carcassa, spesso ancora viva, in mare – è tuttora una minaccia per numerose specie di squalo, al punto che la stima annuale di esemplari uccisi nei primi anni duemila secondo la FAO sfiorava i quaranta milioni. Col passare dei decenni e con l’affermarsi dei movimenti ambientalisti e animalisti sulla scena mondiale, anche gli squali sono diventati, come altri esseri marini (cetacei in primis), una risorsa da proteggere e da conservare perché a rischio di estinzione in molti mari e oceani, Mediterraneo compreso.
Oggi pare che lo squalo viva una doppia vita mediatica: da una parte è il mangiatore di uomini bramoso di sangue che vediamo sul grande schermo, dall’altra è un animale da proteggere, minacciato sia dal più pericoloso predatore alfa del pianeta, l’uomo, sia dalla crisi chimico-fisica di molti ecosistemi marini. Si tratta di un paradosso, di una tensione che non vale soltanto per le quasi cinquecento specie di squali che nuotano negli oceani terrestri, ma per il mare nel suo complesso, ambiente che per la specie umana ricopre un ruolo ambivalente, minaccioso e incantevole.
Lo scrittore e saggista norvegese Morten A. Ströksnes ha tentato di risolvere questa impasse in un modo particolare: andando a caccia dello squalo della Groenlandia (Somniosus microcephalus) nel Vestfjorden e raccontando la sua avventura in quello che è diventato il nuovo capolavoro del nature writing scandinavo: Il libro del mare (pubblicato in Italia da Iperborea, traduzione di Francesco Felici). L’autore ha scelto una specie di squalo fra le più misteriose al mondo: recenti studi hanno confermato che può vivere per svariati secoli, rendendo di fatto questo animale uno dei vertebrati più longevi viventi oggi sulla Terra. Lo descrive come una delle più sinistre e ripugnanti creature del mare: “quasi tutti gli squali della Groenlandia hanno un parassita che attacca le cornee rendendoli mezzi ciechi. Alcuni sono raffigurati con delle specie di piccoli vermi che penzolano dai loro bulbi oculari”. Un vero e proprio mostro, che le comunità costiere delle isole Lofoten conoscono bene e che un tempo cacciavano per ragioni economiche che oggi non sussistono.
Oggi lo squalo vive una doppia vita mediatica: da una parte è il mangiatore di uomini che vediamo sul grande schermo, dall’altra è un animale da proteggere, minacciato dall’uomo e dalla crisi di molti ecosistemi marini.
Il libro di Ströksnes è un’enciclopedia del mare, il ritratto di un “Serengeti subacqueo” che ha ancora molto da raccontarci sulle creature che lo popolano. Ma è soprattutto la postura del libro a suggerire nuove soluzioni in merito all’aura ambivalente che circonda lo squalo. Come ha scritto Fredrik Sjöberg: Ströksnes racconta squali, capodogli e maree “senza piagnucolare su quanto è cattivo l’essere umano. Niente puerili costruzioni di sensi di colpa del tipo che nel nostro paese si accompagnano in genere a insinuanti immagini di teneri, indifesi cuccioli di orso polare”.
L’autore norvegese, gettatosi a capofitto nella caccia allo squalo groenlandese insieme al suo amico e artista Hugo Aasjord, ammette di non essere sentimentale nei confronti del mare e dei suoi abitanti. Lo squalo non è un essere abietto da sterminare senza pietà, ma al tempo stesso non potrà mai ricoprire il ruolo che nell’immaginario comune è del panda o di altri esseri dalle fattezze più docili. “Temiamo il fatto che non ci temano” scrive Ströksnes, per cui, sembra suggerirci il libro, dovremmo tentare di guardarli veramente negli occhi: accettando il timore che incutono, rispettando il ruolo che ricoprono nell’ecosistema marino e nella nostra psicologia ed evitando di puntare il dito contro i responsabili del suo sterminio perché, come dice Ströksnes, “questo non aiuta”.
Quando ho confessato a Morten A. Ströksnes di essere preda di una terribile selacofobia (che è, appunto, la fobia degli squali) lui ha sogghignato fra sé qualche istante, per poi rispondermi serafico: “È normale”. Il confronto con il predatore marino per eccellenza – in particolare se appartenente alle specie più pericolose: bianco, tigre, leuca e pinna bianca – è in realtà una sfida: un incontro che racconta alcuni aspetti della nostra storia biologica (siamo prede), che non ammette sentimentalismi o esagerazioni hollywoodiane e che, insieme a molti altri rapporti che ci legano al mondo naturale, se affrontato con la consapevolezza del caso, può risultare determinante per il futuro di questi animali, dell’uomo e del mare, pozzo vitale ancora da scoprire.