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uesta signora indiana minuta, elegante, sorridente mi aspetta nella hall di un hotel a Testaccio. Veena Das, una delle più grandi antropologhe viventi è stata invitata al Festival delle Periferie diretto da Giorgio De Finis a parlare dei temi che sono al centro del suo lavoro: la violenza e il modo con cui la gente sopravvive a essa. Il suo libro, Vita e parole. La violenza e la discesa nell’ordinario è appena uscito per Castelvecchi, con una prefazione del filosofo Piergiorgio Donatelli che lo inquadra in maniera magistrale nel dibattito che fa dialogare antropologia e scienze umane.
La sua prefazione precede quella fittissima di Stanley Cavell, il filosofo americano di cui Veena Das è stata allieva e amica. La “discesa nell’ordinario” del titolo si riferisce all’elaborazione che Cavell ha fatto del pensiero di Wittgenstein. Veena Das ha le carte in regola per occuparsi della materia perché ha sempre affiancato la sua ricerca alla pratica diretta di luoghi e persone coinvolte in drammi e violenze. A Delhi, che è la sua città, ha vissuto tra le vittime della violenza post-partition (quando l’India è stata separata dal Pakistan), tra quelle dei massacri di sikh seguiti all’assassinio di Indira Gandhi e quelle dei conflitti hindu-musulmani aizzati dalla politica nazionalista di Modi.
Nel suo libro Veena parla del suo mestiere di antropologa come di una forma di “devozione al mondo”, nello spirito con cui Wittgenstein diceva “Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega”. Veena commenta infatti: “Per me l’amore per l’antropologia si è trasformato in una faccenda per cui quando raggiungo il sostrato di roccia non mi rompo a causa della resistenza dell’altro, ma in questo gesto dell’attesa lascio che la conoscenza dell’altro mi segni.” L’idea è che la realtà dell’altro non sia deducibile astrattamente ma solo sperimentabile nella quotidianità, in quel “passo a passo” di cui è fatta. L’ordinario è il modo con cui la gente fa la vita e la rifà quando essa è stata distrutta, massacrata. La chiave è quella “domesticità” che è fatta dei gesti quotidiani, ma anche della prossimità dei vicini ‒ che spesso nei drammi sono più capaci di dare una mano degli amici.
Mentre ne parlo a Veena Das lei mi racconta come la gente “si aiuta” servendosi delle mitologie hindu, delle storie che sono presenti nelle Ramayana come nel Mabharata. C’è un modo di elaborare la violenza subita che è comportarsi come le vedove delle storie che anche coloro che non sanno leggere e scrivere sanno. Il discorso di Das è un continuo trapuntare l’esperienza diretta con la profonda conoscenza della costellazione mitologica dentro cui la gente vive.
L’ordinario è il modo con cui la gente fa la vita e la rifà quando essa è stata distrutta, massacrata.
Veena dice che il modo con cui le “agenzie di sviluppo” trattano i traumi non afferra il fatto che il dolore non è mai “fermo”, ma si elabora continuamente. La cura di esso passa attraverso la domesticità, quel prendersi cura ‒ anche nel più devastato
slum ‒ del luogo e delle persone, un carico soprattutto femminile, ma anche assegnato agli amici hindu e musulmani che nonostante i massacri interetnici riannodano i propri legami.
Oggi Veena Das è un riferimento obbligato per coloro che lavorano sulla violenza e sui modi con cui si può resistere e sopravvivere a essa. I suoi testi sono una lezione su come addomesticare la filosofia, su come farla scendere nell’ordinario per farle toccare quello zoccolo duro che è la materia prima della vita. Ce n’è uno recente che si intitola “Texture of the ordinary: Anthropology after Wittegenstein”: fedele alla definizione di “forme di vita” del filosofo viennese, per Veena Das si tratta proprio della minuzia, del dettaglio, del modo con cui la vita si esprime nell’unico modo percepibile, nella quotidianità.
Domanda infatti: “Che cosa significa abitare un mondo? Come si fa a renderlo il “proprio” mondo? Come si spiega l’apparire del soggetto? Che cosa significa perdere il proprio mondo? Qual è la relazione fra possibilità e realtà o fra realtà ed eventualità, quando si cerca di trovare un mezzo per descrivere la relazione fra gli eventi critici che hanno dato forma alle ampie domande storiche e la vita quotidiana?”.
Mentre le parlo mi rendo conto che Veena mi regala il tessuto dei suoi rimandi, tra poemi e racconti indiani, l’assiduità di una condivisione nei quartieri popolosi di Delhi e la capacità di abbracciare il pensiero attuale che fa sì che oggi insegni alla Hopkins University a Baltimora. Il suo lavoro e il suo pensiero stanno influendo in maniera radicale sul modo in cui le scienze umane devono imparare a guardare il mondo con i suoi strazi e le sue violenze, ma anche con la coscienza della dignità che la gente nella propria vita quotidiana riesce sempre a ricostruire.
Come addomesticare la filosofia, come farla scendere nell’ordinario per farle toccare quello zoccolo duro che è la materia prima della vita?
Veena dice che sono queste persone a fare filosofia: “Penso che le persone comuni, nel semplice processo della loro vita, arrivino a formulare riflessioni molto profonde su come vivono le loro vite. Forse non hanno il linguaggio filosofico, ma in un certo senso mi sembra che non ci debba essere distanza tra una vera filosofia e la comprensione del modo in cui le persone vivono la loro vita, come cercano di imparare ad abitare mondi che ci sono stati dati con tutti i segni della distruzione che hanno subito”.