A i tempi della società-più-che-liquida, della crisi ambientale e della post-verità, la dottoranda in Sociologia Cleopatra Mancini non si accontenta di niente di meno che di un vero onnicomprensivo, che una volta trovato sia totale, abbracci un orizzonte ampio come quello di una vera e propria visione. In questo romanzo ibrido di formazione, le filosofie a cui si rifà Cleo in sanscrito sono definite darśana, ovvero processi di osservazione che puntano – e dovrebbero portare – al raggiungimento della corrispondenza tra ciò che viene detto della cosa e la cosa in sé. La verità, in questo contesto, si manifesta con il sapere (in greco oīda), che appare come coronamento dell’azione del vedere (in greco, dalla stessa radice, eídō), dello scrutare, ed è quindi per forza di cose su tutto, calando sul mondo percepito come un velo e sostituendo māyā, l’illusione. Eppure Cleo, come nella migliore tradizione zen, non ci rivela mai quale sia questa verità che raggiunge, resta sempre vaga, reticente, anche se, una volta illuminata, racconta a una misteriosa intervistatrice la sua storia in risposta a una domanda che non ci è dato sapere.
L’inversione di rotta che dà inizio alla sua parabola esistenziale inizia da un’improvvisa presa di coscienza del male fatto – al pari di Agostino nelle Confessioni. Per superare questo suo malessere Cleo inizia un percorso di ricerca volto al cambiamento. Partendo dall’intramontabile domanda sul male, Santoni di conseguenza finisce per cercare una risposta anche a quella sull’agire o il non agire, e sull’agire in che modo; sul perché vivere, sul perché accettare il gioco (o giogo); su come usare questo tempo che, senza averlo chiesto, ci è stato dato. Sono queste le domande enormi che all’improvviso infestano e angosciano la mente di Cleo, che fino ad allora ha avuto una vita come tante, mediamente riuscita, mediamente buona e, si direbbe – nonostante i rave e i teknival –, borghese. La consapevolezza del male fatto, volontariamente o involontariamente, blocca Cleo, che non vuole rischiare di compierne altro: essendo un’accademica le viene spontaneo iniziare la sua ricerca per imparare a comportarsi diversamente a partire dallo studio dei testi. Cleo dice:
Sapere qualcosa non significa niente: se c’è distinzione tra il pensante e il pensato, tra il conoscente e il conosciuto, vuol dire che c’è stato un allontanamento dalla verità, che non è dentro di te, ma non è neanche fuori.
Il sapere, oggi, sembra aver smesso di essere qualcosa direttamente collegato alla Bildung, alla formazione esistenziale, aver tanto letto non conta quasi nulla, le informazioni diventano un flusso, simile a quello delle merci o del denaro; la cultura non ha più il valore che aveva prima. Spesso si confonde l’educazione con il sapere, ma l’essere plasmati da questo non significa raggiungere né una né la verità. Se vogliamo intendere “verità” come corrispondenza tra ciò che è e ciò che percepiamo (e quindi pensiamo, diciamo, facciamo) è necessario tornare a Patañjali, al Sadhana pada degli Yogasūtra: il modello (generico) che diventa corpo (unico) e il corpo che si fa modello – “Non c’è liberazione, del resto, se non vi è assoluta coscienza dell’unicità del sé”, dice Cleo, che sembra aver capito bene la necessità di imparare a guarirsi dalla forma plagiata che ci è stata data dalla cosiddetta “scuola dell’obbligo”, per plasmare a nostra volta quelle informazioni e, se lo si vuole, il mondo.
Il punto iniziale del cerchio percorso da Cleo è l’emergere di un sintomo, il dolore originato dal senso di colpa, da cui scaturisce la necessità di capire perché è stato fatto e come risolverlo. Queste sono esattamente prime tre fasi della quaterna del Buddha; ma anche – come ha fatto notare Federico Squarcini – del Caraka Saṃhitā (il più antico testo che ci è pervenuto di medicina tradizionale indiana), di Patañjali (per quanto riguarda lo yoga), nonché di Vyāsa (il primo commentatore degli sutra di Patañjali): le quattro nobili verità, o meglio “realtà”. Nel male, infatti, c’è di mezzo il potere, o meglio, la dominazione, esterna o interna (così come le cattive abitudini portano alla malattia del corpo), ed è proprio la presa di coscienza del privilegio – ovvero la disparità prodotta dal potere e del male che ne deriva – che Siddharta Gautama e in parallelo nientemeno che Cleo capiscono che devono cambiare la loro vita, per dirla con Peter Sloterdijk. Buddha osserva seduto sotto un albero i contadini lavorare per suo padre sotto il sole cocente; poi i buoi, aggiogati e frustati dai contadini; poi gli insetti calpestati dai buoi, e così capisce che il dolore è ovunque, e soggioga tutti.
Insieme a Cleo, ai suoi fallimenti e ai vicoli ciechi che incontra, Santoni cerca quindi di districarsi tra varie correnti di pensiero, scuole e filosofie greche, latine, vediche, cinesi, tibetane, sudamericane, mettendo in crisi i propri stessi pregiudizi, testandoli, cambiando i propri contorni sotto la spinta del loro crollo e finendo così per abbracciarne altri. Non trovando nessuno nel suo ambiente che possa aiutarla e a cui affidarsi Cleo decide di fare da sé, inizia a studiare, si circonda di libri e fantasmi – Simone Weil, il Morelli, che sembra un mix tra il personaggio di Cortázar e uno dei più importanti insegnanti di yoga e divulgatori italiani, Maurizio –, andando a ritroso e sostituendo i suoi saperi con saperi nuovi, con un atteggiamento critico rigoroso, che non dà nulla per scontato e che la fa penetrare sempre più in profondità nei materiali che esamina, per cui nulla è sacro, nemmeno la divinità.
Il fatto che il divino esista oppure no è secondario. Ciò che conta all’inizio è la devozione: la devozione crea il dio, il mondo si infiamma perché tu sei infiammata. Ma poi va trascesa anche la devozione.
Dopo una meticolosa ricerca razionale, che inizialmente usa il linguaggio come strumento di indagine e bussola, oltre che prova del nove – come succedeva negli sastra –, Cleo lo trascende, o almeno ci prova, venendo guidata sempre più dalla passione e dall’intuito. Santoni sembra riprendere un certo canone letterario antico in cui la vicenda si sviluppa spinta da un eros platonico per un oggetto di ricerca, un orizzonte mobile che appare sempre irraggiungibile, con l’obiettivo di fondersi con questo e finalmente liberarsi, raggiungere il proprio stesso sguardo e farsi ombra, fantasmi a propria volta. Finisce così per tirare le fila, almeno apparentemente, di tutte quelle pratiche intellettuali e fisiche influenzate dal buddhismo e strumentalizzate malamente per secoli, fraintese dalla cultura europea Novecentesca prima, dalla psicanalisi poi (a cui Santoni non risparmia critiche) e in ultimo dalla dottrina New Age, nutrita dagli stessi guru che dall’India esportarono all’inizio del Novecento le loro tecniche negli Stati Uniti, mescolandole con il body building e il fitness, fino a dar vita a un bolo facilmente digeribile al grande pubblico contemporaneo, perfetto materiale per content creator.
Dopo aver messo da parte i libri, non prima di averne scelta un’accurata cernita, Cleo abbandona lo studio per passare alla pratica e dopo aver rinunciato a tutto ciò che definiva la sua vita – la compagna, la casa, il dottorato, la famiglia, i soldi – si ritira in una stamberga nel Valdarno e inizia a meditare giorno e notte, accompagnata dall’uso di psichedelici. Finché non appare suo padre, che la mette di fronte a un limite che la definisce talmente tanto non apparirle visibile nella sua estraneità. Il limite è quello che se non si riescono a definire chirurgicamente i confini delle cose che compongono la realtà – riconoscendo ciò che rende diverso l’unico – è impossibile arrivare a qualsiasi annullamento dei confini. E questa non è filosofia, ma esperienza pratica, tant’è che la strada le viene indicata dal padre, che è un uomo semplice, libero a suo modo, di un’altra epoca.
Fai come ti pare. Uh, guarda! C’hai pure il podalirio.
Che?
Iphiclides podalirius, dice il babbo, e indica qualcosa sul ramo dell’alberello cresciuto dentro all’edificio, davanti alla finestra piccola. Qualcosa di marrone, che avevo scambiato per una foglia secca, e che ora vedevo essere una crisalide. È della generazione svernante, sfarfallerà a primavera.
È una farfalla, quindi?
Non ti ho proprio insegnato niente eh?
O’ non c’avevi anche una ragazza che faceva le opere d’arte con gli insetti, una volta?
Bah.
È una farfalla, sì. Neanche troppo brutta. Questo, almeno, lo sai cos’è?
Un albero.
È un albicocco…
Così si dispiega un cambiamento fondamentale nella storia, perfettamente a metà come vuole la teoria della narrazione. A livello di ritmica-compositiva in grado di convogliare un significato, questa parte del libro ricorda la Bagatella n. 4 dell’opera 126 di Beethoven (altro grande autore della variazione asintona, quella della Spira mirabilis, la spirale logaritmica), in cui si passa da un tema incalzante, quasi marziale, che ribadisce se stesso, a un passaggio rarefatto, siderale – e incredibilmente contemporaneo – e si mostrano in un istante le due espressioni che può assumere l’umano. Cleo raggiunge l’estasi, quella che potrebbe essere definita un’esperienza mistica, un mitya samādhi, uno pseudo-samādhi, una sorta di percezione di fusione del sé singolare con l’assoluto.
Ma quella larva, che quando era ancora bruco si era scelta per svernare l’albicocco interno, più salvo dal freddo, mi era di più cara compagnia: sapevo che non era morta, che non era ormai un involucro secco, magari vuoto – cosa c’è di più triste di una larva che senza saperlo muore? – perché captavo, nei giorni lunghi della meditazione e a volte nelle notti, dato che il sonno scemava, un po’ per il freddo, un po’ perché la mente, messa a bada, chiedeva minor riposo, un movimento infinitesimo che non pareva di vento; una singola, minuscola pulsazione, o singulto. E una volta, sfiorandola appena con un polpastrello – col polpastrello dell’anulare, piano, pianissimo – sentii qualcosa; definirlo un vibrare sarebbe troppo: una tensione, ecco, che dall’interiorità di quel bozzolo aspirava all’esterno, al compiersi di un atto lungamente atteso; una tensione che era anche – ne ero convinta, per quanto ogni convinzione, in quella solitudine, vestisse non dico i panni, ma almeno il minuscolo distintivo della follia –, che era anche gioia.
Cleo sembra essere una persona abbastanza decisa e sicura per arrivare in fondo alle cose, ma per farlo non si rende conto che ne sta compiendo altro, sta infatti facendo soffrire tutte le persone che la circondano per raggiungere ciò che vuole. A quel punto compie un salto cognitivo – disonesto? di comodo? oppure profondamente giustificato e integrato? – che annulla il valore ontologico del bene e del male. Nel tentativo di distruggere la propria identificazione cognitiva con il proprio ego, può capitare che buttando l’intenzione oltre l’ostacolo crolli l’identificazione su quel soggetto sul quale dovrebbe innestarsi la responsabilità del bene e del male. Se c’è un’azione libera, per quando guidata da un dharma, è “impossibile” infatti non ci sia un agente.
Cleo cambia forme, ma alla fine, almeno durante questo cerchio che compie, nonostante le tante estasi che sperimenta, sembra restare la solita Cleo, la stessa capetta un po’ sadica cresciuta nel Valdarno, che si accaniva contro i più deboli invece che prendere le loro difese. Cleo si sente in colpa, soffre per un po’, crede di espiare (come vorrebbe la cultura cristiana di cui volente o nolente è intrisa – basti pensare alle parole che spenderà in relazione al funerale del padre), eppure continua a reagire al mondo come ha sempre fatto quando si trova chiamata a farlo, scappando. Sorge il dubbio che la sua non sia una rinuncia, ma una fuga. Per tutto il libro alla tensione che porta al cambiamento e che vede come strumento il plagio e l’accomodamento di metodi antichi buddhisti, si mescola la visione iniziale di Cleo, inevitabilmente morale – o moralista – che tutti in più o meno larga misura condividiamo, e con cui siamo chiamati a confrontarci, e che non sembra mai essere superata a pieno.
Cleo non ama, non prova affetto, non si attacca a nulla, sembra non legarsi alle cose del mondo non tanto per scelta di vita esistenziale, quanto per predisposizione. Nel lettore si insinua allora il sospetto che sia così brava a meditare, a ritirare i propri sensi, proprio perché in quei sensi mai si è identificata a fondo. Patañjali sottolineava che i talenti sono spesso cattivi consiglieri, proprio perché determinano la nostra forma e non ci permettono di uscire da quello che Aristotele chiamava habitus. È fondamentale per questo tipo di pratiche, infatti, esercitarsi in particolar modo su ciò che non siamo portati a fare e ad essere, e Cleo, nonostante le apparenze e ciò che ci racconta e si racconta, non esce mai da una visione estremamente individualista, anche quando prova a plasmare una collettività. Non scavalca mai i confini della sua identità rispetto alle azioni che compie: nonostante le sessioni psichedeliche, nonostante le lunghe ore di meditazione, sembra trattenuta nel mondo, per un filo magari, ma trattenuta, non riesce a “scampare”, a superare definitivamente quel campo che la definisce.
Attraverso l’esercizio cambia, eppure, nonostante tutto, non arriva a una contronarrazione del nucleo primigenio della sua identità, né tantomeno a un superamento della dimensione percettiva mediata dal logos – se non in quattro casi (che segnano i vari quarti del libro) in cui l’autore ci concede di immergerci nella mente della narratrice, e di percepire il reale in maniera inedita, non mediata dal verbo, tra gli spazi delle lettere e delle parole. Come durante l’ultima sessione sciamanico-psichedelica che ci viene raccontata.
Le tenebre coprivano tutto. C’erano cose misteriose, nel buio. Ero nata da me? Forse ero nata a partire da quelle cose? In ogni caso bisognava pensare al mondo futuro. Si poteva creare qualcosa nella casa trasparente, che ero io, nel buio: si poteva fare un suono, che sarebbe diventato una parola. Una seconda parola la si poteva mettere in una casa più in basso. Si poteva fare lo stesso e mettere una parola in una casa a destra, anzi a est, una casa con la luce. Un’altra magari la si poteva mettere a ovest, un’altra a nord… Da quelle parole il mondo cominciava a differenziarsi…
Eppure, anche questa breve parentesi, viene bruscamente interrotta e Cleo viene rimandata raminga nel mondo, nel sociale, nell’indifferenziato, composito, sovrapposto, mescolato, infinito reale. Con questo libro Santoni ci mostra come quello su sé stessi sia uno sporco lavoro, che non garantisce risultati, ma che se si vuole migliorare, se ci si vuole liberare da ciò che si è (e non ritrovare un fantomatico “vero sé”) è necessario iniziare a intraprendere, per imparare – al contrario – a vivere senza di sé.
Cleo, pur nutrendo la tensione verso un’esistenza liberata, si incarna in un ambiente e in una mentalità che potremmo definire tardo-cristiana, ma anche islamica. L’esercizio, e il sacrificio che comporta, così come la rinuncia, infatti, se da un lato oggi ci appaiono assurdi dall’altro sono motivo di vanto, hanno un valore morale, e paradossalmente vengono mescolati con il potere. In larga parte del mondo definito islamico questa regola vige ancora oggi tra i governanti (“fakru fakhrī”, la povertà è il mio onore, si legge nel Corano) e non a caso dal 1550 d.C. a seguire il potere, dalla Turchia fino all’India del Nord dell’Impero Mughal, acquisisce sempre di più al suo interno i gruppi di asceti (siano yogin, sufi, o fachiri), fino al punto in cui il sovrano diventa un povero, un mendico, un sannyasin, colui che si esercita e che rinuncia, spesso in un’ottica militare, annullandone l’iniziale valore esistenziale sovversivo. Così rischia di succedere a Cleo, durante la parentesi finale con Kumari Devi e Dattadeva. Alla fine del libro, poi, Cleo sembra subire una vera e propria via crucis – reale o immaginata che sia – come una sorta di novella redentrice, e forse anche questa è una di quelle memorie, di quelle forme, di quei fantasmi di cui Cleo cerca di purificarsi andando raminga per il mondo e per le lande della sua psiche. Il “camminai, camminai” ci riporta alla fine a una dimensione favolistica, è il cammina cammina delle favole che porta e riporta i protagonisti lontanissimi e al tempo stesso a casa. Cleo, come una sorta di peripatetica, cammina per “espellere [scorie] dalla coscienza”, quasi a espiare, purificare citta vṛtti, le malattie cognitive che ci assediano e da cui nascono tutti i nostri mali, e tra cui rientrano senz’altro anche i ricordi e la cultura che ci ha formati.
Nonostante le sue professate intenzioni, così come l’accumulo e il perfezionamento di varie tecniche, Cleo però non riesce a cambiare il motore primo che ha sempre spinto le sue azioni, il desiderio di dominare, il potere. Al tempo stesso, pur essendo una materialista marxista, una volta assaggiato il misticismo non riesce più a despiritualizzare il suo lessico e la sua esperienza, così come quello dei testi e delle tradizioni che l’hanno formata, cade così nel tranello della sua stessa cultura, non riuscendo a raggiungere un ambiente ontologico fisiologico. Cleo non riesce mai davvero a passare da una “filosofia dello spirito” – con cui pure lotta di continuo – a quella “scienza del respiro” – deontologizzata, meccanicista e materialista – sui cui si basano le tradizioni antiche, ciò che viene chiamato prāṇāyāma in sanscrito ed elme nafas in persiano.
Santoni ritrae la società contemporanea (la maggior parte della vicenda si svolge tra il 2014 e il 2021, più una breve parte nel futuro), senza punti di riferimento, più che liquida, ormai eterea (in senso puramente materiale). Sono caduti – e risorti, si direbbe – gli idoli, così come le ideologie, e non è per forza un male, ma ciò genera nuovi problemi sociali a cui rispondere. Eppure, la forza del libro è proprio che la domanda e la ricerca di Cleo resti la stessa che gli esseri umani si ponevano e perseguivano duemila anni fa. Allo stesso modo rimane la stessa tensione tra individuo e collettività, e soprattutto il quesito sul cosa fare una volta raggiunto il samādhi. Il Buddhismo, impropriamente definito Mahāyāna – per il semplice fatto che i suoi stessi componenti, in conflitto con le altre correnti, lo definirono tale, ovvero “grande” – propone una visione collettivista e non più individualizzata della pratica verso il bene, ma arriva a farlo per questioni politiche, ovvero riportare all’ovile sociale i dissidenti, i rinunciatari, gli eremiti, e possibilmente sfruttarli come mercenari quando serviva, in cambio di sostentamento. Coesistono il tentativo di dissoluzione dell’ego e al tempo stesso di azione sociale, ci sono quindi grandi pragmatismi e parzialità in questo percorso. Il dualismo appare come una convenzione linguistica per aiutarci a comprendere il reale, attraverso parzialità oppositive, quando in realtà non c’è alcun confine, solo tensori, così Cleo attraverso la sua ricerca, che si muove a zig zag, tra libri, farmaci (phàrmakon) e maestri (reali e immaginati) passa dal platonismo al neoplatonismo, salta da una tradizione all’altra, da una pratica all’altra.
Eppure, se per gli “eretici” del buddhismo, Vasubandhu e Asaṅga, l’obiettivo della pratica (yogācāra) era imparare a vivere senza di sé, Cleo in questa reincarnazione fallisce. Ciononostante i suoi sforzi ci commuovono, ovvero ci spingono a provare a nostra volta a intraprendere quella stessa via, copiandola e adattandola alla nostra unicità.
Se l’inizio di un cerchio è sempre il frutto di una scelta, di un’azione deliberata, lo è anche la sua fine: nient’altro che il punto di uscita, anche quando finisce per coincidere con l’inizio. Così, immaginami vagare, vagare, finché un giorno, molti anni dopo, svalicata una cima e passati pascoli e mulattiere e villaggi spopolati e campi di bietole pieni d’ortiche, ruscelli tornati chiari che formavano polle gelide dove correvano banchi di pesci minuscoli e frutteti e fili spinati rotti e strade bianche dei colli via via più pianeggianti e depositi di resti metallici e sedie sfondate abbandonate in aie divenute impero dei gatti, e fossi e berignoli e archetti ferroviari e sbuffi di denti di leone e ortiche, superai tutta una serie di edifici e padiglioni bruciati, di steccati divelti, e arrivai in una specie di cascina all’incrocio di due piccoli fiumi, con le porte e le finestre sfondate, e di primo acchito pensai che là dentro avrei trovato, magari, un materasso dove riposare, e solo al mattino capii che quel posto non era altro che il Mulino, e con ciò che ero, in qualche modo, trasfigurata; che non ero più in me, o me. Ma c’era tempo per fermarsi, adesso. C’era tutto il tempo. Caddi a sedere sotto il fico, nel cortile fattosi prato incolto. Vidi passare una farfalla, una cavolaia bianca e nera, e fui liberata.
Santoni – con Deleuze, James, Kierkegaard e Tarde che gli coprono le spalle – si è confrontato con la sfida di raccontare in forma di romanzo il punto in cui la ripetizione a un certo punto cede, interrotta dall’arrivo della tanto desiderata differenza, soddisfacendo così la nostra libido (saṃskāra kleśa) e rispondendo alla domanda spontanea che sorge a tutti gli esseri umani sul senso della vita. Eppure, ci lascia col dubbio, ed è questa la qualità più forte del libro. D’altronde, secondo Cleo “la verità è un’esperienza, non un pensiero”, e noi non possiamo far altro che chiederci a nostra volta se sia davvero così, iniziando la nostra personale rivoluzione, cercando i migliori strumenti per operare su noi stessi.