S e non fosse spirato il Meltemi forse i boschi attorno ad Atene non sarebbero bruciati e tante persone non sarebbero morte. Ipotesi ormai fastidiosamente inutile e poco realistica, poiché il vento è stato solo una delle cause di questa recente tragedia – tuttavia rende bene l’idea del vento inteso come forza inarrestabile, talvolta perfino mortale. Un mostro invisibile che non si ferma davanti a niente e a nessuno. Chissà come la pensa Nick Hunt, l’autore di Dove soffiano i venti selvaggi (Neri Pozza, 2018, traduzione di Laura Prandino). Una volta letto il suo libro, viene da pensare al vento come un personaggio letterario, a mostri di ghiaccio, giganti dalle guance gonfie, ma anche semplicemente personalità a sé stanti con caratteristiche precise. Alla fine delle quattro storie che compongono il volume (“Un viaggio all’inseguimento di Helm, Bora, Föhn e Mistral” è il sottotitolo del libro), non si hanno più dubbi su quanto queste forze invisibili siano maestose, potenti, quasi magiche. Forze che da sempre e in ogni cultura influenzano lo stato d’animo delle persone, per non parlare degli effetti che hanno sul territorio e la natura selvaggia.
I venti hanno sempre un nome (a volte anche soprannomi) che cambia da luogo a luogo, e sono legati in qualsiasi posto della Terra da storie incredibili. Gli antichi greci dicevano che i venti e gli dèi del vento, gli Anemoi, erano inseparabili, così come lo erano i punti cardinali da cui provenivano. Proprio ad Atene c’è un edificio a forma ottagonale, la Torre dei Venti, che rappresenta nei suoi otto lati gli otto dèi del vento: sono raffigurazioni di uomini alati, alcuni scalzi altri in sandali, in volo e con in mano oggetti simbolici. Da questa antica torre comincia il viaggio di Nick Hunt e da qui proviene l’idea della rosa dei venti, la base di tutta la cartografia medievale.
In greco antico e in molte altre lingue, tra cui l’ebraico e l’arabo, la parola per indicare lo “spirare” del vento, il “respiro” e l’“anima” sono uguali: la parola greca anemos (vento) dà origine al latino anima. Hunt, inglese di Bristol, collaboratore del Guardian e fondatore del Dark Mountain Project, nonostante abbia una visione del mondo molto laica, durante questo viaggio ai confini della natura si ritroverà spesso esaltato, ma anche travolto da umori neri e perfino terrorizzato. Arriverà a scrivere che questi quattro viaggi “sono quello che posso solo definire come animismo – la radice della parola dovrebbe esservi chiara, a questo punto” ovvero “una comprensione del mondo come entità che vive e respira”.
Nick Hunt racconta di aver sempre voluto viaggiare alla ricerca di qualcosa. Un giorno vede una mappa dell’Europa trasfigurata da linee colorate, “frecce predatorie simili all’avanzata di eserciti che attraversano confini, passavano sulla terra e sul mare, collegavano regioni e culture che nella mia mente sembravano separate: latini e slavi, continentali e costieri, nordafricani ed europei meridionali”. Hunt non ha esitazioni e capisce subito cosa si sarebbe messo a inseguire, anche a costo di passare per un pellegrino che insegue qualcosa che non esiste. Il suo viaggio per l’Europa trasforma il suo libro in quello che gli anglosassoni chiamano un travelogue, un viaggio alla ricerca di miti, leggende, storie e superstizioni, ma anche di esseri umani e luoghi sperduti:
Era evidente che seguire i venti significava seguire l’incertezza, lasciarmi guidare dall’ignoto e dalle illazioni, dall’indovinato e dall’immaginato.
Ma non è certo un viaggio improvvisato quello di Hunt: si procura un equipaggiamento da trekking, tenda, una tela cerata, una bussola, un pezzo di lana come manica a vento, un anemometro (per misurare la velocità del vento) e infine uno smartphone per le previsioni meteo, anche se nel corso del racconto si capisce che le previsioni sull’arrivo del vento gliele forniranno sempre gli abitanti del posto, e saranno inequivocabilmente giuste. Il suo primo viaggio è in terra natia, alla ricerca dello Helm, un vento furioso che si forma sui monti Penini, a Nord dell’Inghilterra, e che quando arriva ridiscende “come un liquido improvvisamente liberato”. Grazie infatti al dislivello che incontra durante la discesa verso il basso, lo Helm acquista una forza brutale, tanto da sradicare alberi, scoperchiare case e sollevare pecore. Hunt tuttavia non riesce a trovare le giuste condizioni meteorologiche e dopo lungo girovagare, dopo incontri, massacranti camminate, con sua estrema delusione e frustrazione, non troverà questo mitico vento. Del resto le condizioni climatiche di questo territorio sono talmente dure, e il freddo polare, che a un certo punto per l’autore “il vento non sembrò più qualcosa da ricercare ma da cui trovare riparo”.
Il secondo “cammino del vento” è quello dedicato alla Bora, il vento gelido che soffia tra montagne e mare, un vento che è già di per sé un racconto, denso di storia, aneddoti, persone; ma soprattutto un racconto di frontiera, tra Italia e Croazia e Slovenia. Leggendo queste pagine s’intende quasi subito quanto la gente vado fiera di questo vento, quanto lo aspetti, lo conosca e ne abbia bisogno per vivere.
Ce l’avevo nelle orecchie, ma non soffiava; e neppure gemeva, sibilava, ululava o nessuna delle altre parole di solito usate per descrivere la voce del vento. Più che un suono era una sensazione, una entità senza nome, pura energia, che cancellava ogni confine tra udire e sentire: per la prima volta in vita mia compresi il suono come forza fisica. Ce l’avevo nei polmoni, sotto la pelle. Come un fanatico religioso, urlai il mio apprezzamento. La Bora mi urlò contro di rimando e la montagna s’infiammò. Una raffica a centrotrenta chilometri l’ora sollevò veli di neve farinosa […]. La faccia della Bora era visibile in ogni formazione di neve, ogni circonvoluzione e ghirigoro, in ogni vortice, torsione e spirale. Vidi apparire l’invisibile, l’informe che prendeva forma.
Il Föhn è un vento caldo e secco che domina le valli alpine quando l’inverno diventa primavera. È un vento catabatico, cioè che soffia in discesa. Come il Föhn ci sono tanti altri venti del genere, che sono “cugini” di questo vento più famoso, lo Halny in Polonia, il Bergwind in Sudafrica o il Santa Ana in California. In Svizzera, dove Hunt va a cercare il Föhn, questo vento ha un soprannome meraviglioso: Schneefresser, “Mangianeve”. Il Föhn può anche provocare incendi. Nel 1838 la combinazione tra questo vento caldo e il fuoco rase completamente al suolo la cittadina di Heiden. Quando Hunt trova finalmente il Föhn, dopo un lungo viaggio, si sente incredibilmente depresso e si rende presto conto che è proprio così che deve sentirsi: questo vento dà ansia, irritabilità, letargia, stanchezza. E ancora mal di testa e insonnia. Gli animali si agitano e gli studenti non riescono a concentrarsi.
L’ultimo vento, il Mistral, “ il vento della follia”, è quello che si forma nella Valle del Rodano e soffia fino al Mediterraneo. Se i tedeschi hanno chiamato l’asciugacapelli con il nome del loro vento, Hunt capisce perché i francesi diedero a una nave da guerra il nome di “Mistral”.
Ne avevo già intuito il motivo: era come trovarsi sotto attacco. Attraversai la strada in posizione difensiva, schermandomi gli occhi con una mano gelata, diretto verso il parco più vicino […]. La gente camminava piegata a quarantacinque gradi, le capigliature che puntavano a sud. “C’est le Mistral?” chiesi per sicurezza a un passante. “Oui” rispose lui. “Questo è il posto più ventoso di Francia. Quando qui non c’è vento, sta per arrivare.
Nick Hunt si trova a Valence, dove si dice abbia origine il famoso vento. Hunt percorre a piedi tutta la Valle del Rodano fino al mare (il cammino ha anche un nome, Chemin de Saint-Jacques), accorgendosi che in questa parte di Francia perfino l’architettura è plasmata dal vento: i muri delle case rivolti a Nord sono praticamente senza finestre. Nessuno fu più irretito dal Mistral di Vincent Van Gogh che visse ad Arles dal 1888 al 1889, un anno prima del suicidio. Il pittore raccontò in una lettera di come dipingeva con il cavalletto bloccato da un perno di ferro e poi legato con delle corde, così da poter lavorare con il vento. Secondo Hunt e alcuni critici d’arte il suo pennello riusciva a “catturare l’irrequietezza dell’aria”. Un vento che penetra nei dipinti e dona alle tele del pittore olandese una qualità ancora una volta “animistica”.
Insomma, anche in un saggio sui venti si nasconde il soffio del presente: l’aspetto più interessante e attuale di Dove soffiano i venti selvaggi, un libro ricco di storie e livelli di lettura, è infatti l’idea di un’Europa unita dai venti, un’Europa in cui non ci sono confini, se non quelli dati dalle convenzioni.