“P
apà che insetto è un verme?”. “Ahahah non è un insetto… il verme è un essere inutile”. “La mamma dice che TU sei un verme”.
Sukegawa è un verme. Vive nel Giappone del 1987 o giù di lì. Vende pietre in una capanna di canne sul fiume Tama. Pietre per la meditazione – in Giappone alcuni appassionati si dedicavano a questa attività – ma le pietre di Sukegawa sono talmente brutte che non riesce a venderne nemmeno una. Calcoli, cifre, somme di denaro, investimenti potenziali sono le cose che gli passano per la testa. In una nazione che non tollera i fannulloni, Sukegawa deve trovare un modo per alleviare l’agonia della sua vita e di quella della sua famiglia con il cataplasma del denaro, ma non gli riesce altro che osservare la realtà con occhi distanti e sognanti senza rendersi veramente conto delle sue condizioni.
Attorno a Sukegawa una ridicola totentanz di personaggi naufragati come lui, tutti danzatori del confine, ad un passo dall’essere cacciati a pedate dal mondo civile: antiquari sconquassati, rigattieri, esperti di volatili senza più nemmeno un cliente, cupi librai, esperti di pietre che sono in realtà spregevoli alcolizzati, senza contare la moglie beffarda e il suo brutto figliolo forse già conscio della mediocrità del genitore. Se sei circondato da miserabili, forse anche tu sei un miserabile, ma il risultato di questa facile equazione non interessa a Sukegawa. È veramente un uomo senza talento? Chi lo sa, forse è solo un uomo che ha sprecato il suo talento. Sukegawa infatti ha un piccolo altarino che il lettore andrà quasi subito a svelare: era un promettente fumettista, anzi un promettente mangaka, prima di andarsene in giro con le toppe sulla giacca a vendere lerci ciottoli tirati fuori dal letto di un fiume schifoso.
Aveva avuto già parecchi riconoscimenti quando decise di avventurarsi nelle sue sciocche epopee: divenne riparatore di macchine fotografiche (senza una bottega), antiquario (senza sapere nulla di antichità), estimatore di pietre da meditazione (dopo aver letto qualche articolo su di una rivista) tutto tranne che fare il mangaka, un’attività in cui il disprezzo è la moneta con cui vieni costantemente ripagato, un’attività che non offre la possibilità di esprimersi tramite il raggio luminoso dell’arte. D’altra parte stiamo parlando di futili fumetti d’evasione, paccottiglia da leggere per perdere un po’ di tempo, aberranti barzellette da barbiere o sala d’aspetto.
Se Sukegawa è l’uomo senza talento, dietro di lui c’è l’uomo con il talento – e pure parecchio. Il suo nome è Yoshiharu Tsuge, classe 1937: in Giappone è pura leggenda distillata. La sua presenza è fumosa e inafferrabile, la sua carriera indecifrabile tra cambi di stile, ritiri ed incredibili capolavori. L’ultimo fumetto lungo della carriera di Tsuge è proprio L’Uomo Senza talento a cui seguì solo un’altra storia breve e poi il nulla, giacché decise di ritirarsi sul fiume Tama – lo stesso del suo personaggio Sukegawa – e di vivere senza più fare fumetti.
Tsuge è uno autore di fumetti geki-ga, cioè un autore di fumetti non man-ga, come sono propriamente chiamati i fumetti d’intrattenimento. Il fumetto gekiga si ispira con crudo realismo alla vita reale. Il manga fa il solletico, il gekiga dà i pugni nello stomaco. Nel 1957, quando i fumettisti gekiga sollevarono la testa con un manifesto programmatico, tra di essi e gli autori di manga si sviluppò un forte attrito che fece vibrare tutto il mondo del fumetto giapponese dalle fondamenta. Ci si chiedeva se fosse più giusto trattare il lettore come un bambino, illudendolo con ironiche visioni, o come un uomo maturo, sbattendogli in faccia la realtà, questione che avrebbe infiammato più di una platea mondiale. Era la seconda metà degli anni cinquanta e il Giappone era un dolente gigante ferito che si avviava ad un’accelerazione cupa e ipertrofica e aprire gli occhi ai lettori di fumetti aveva un significato anche politico. Immaginare un personaggio schivo come Yoshiharu Tsuge impegnarsi in una battaglia del genere a fianco di maestri destinati al successo mondiale quali Tatsumi Yoshihiro ci fa già riflettere sulla coscienza di questo autore che, per quanto si presenti come la personificazione dell’assenza, rimane al tempo stesso una voce capitale nel dibattito legato all’identità del fumetto giapponese e non.
Alcuni esseri umani nascono per beffa, subendo ogni giorno la chimera e la tentazione del nulla. Di nullificarsi, insomma. Di sparire nel nulla più che morire. Forse Tsuge appartiene a questa strana setta, e chissà quanti altri come lui vivono travolti dalla vita stessa. In questa maniera possiamo interpretare l’enigmatico episodio finale del libro, dove tutti i nodi vengono al pettine con una soffocante quanto nebbiosa parabola assai poco consolatoria. Questo volume non parla di un uomo che cerca di sopravvivere senza avere talento, ma parla di come il talento possa sfuggire ineluttabilmente di mano e perdersi per terra come preziosa acqua nelle trame del deserto. Ed è questa la più disperata tra le condizioni umane.