L’ anno scorso, durante la sessione primaverile, ha fatto una cosa che desiderava da tempo, ha avuto una storia con una studentessa. Ci pensava da quando era arrivato a Oxford per terminare il dottorato.” Uno dei racconti più belli di Tutto quello che è un uomo (Adelphi), la splendida raccolta dello scrittore canadese David Szalay, inizia così: con un professore che si sveglia presto per raggiungere una città lontana e ripensa agli ultimi mesi della sua vita, alla storia che avuto con una studentessa e che è durata solo due settimane:
Eppure il ricordo di quel periodo, di lei così giovane… Per un paio di giorni si era sentito triste in un modo strano, quando la ragazza aveva chiuso con quella lettera scritta in una calligrafia da scolaretta, quella lettera che sopravvalutava pateticamente il suo coinvolgimento emotivo nella relazione. Ma si era reso conto di aver sopravvalutato anche lui il coinvolgimento emotivo della ragazza: così come lui si era concentrato tutto nel realizzare la sua antica fantasia, lei si era concentrata tutta nel realizzare la propria, non certo meno egoistica.
Poi Szalay aggiunge: “tranne che, coi suoi diciannove o vent’anni, lei aveva ancora diritto all’egoismo, non avendo forse imparato con quanta facilità e durevolezza si possano ferire le persone, mentre lui ne aveva almeno dieci di più e alla sua età avrebbe dovuto saperlo”. Questo è solo uno dei nove uomini raccontati dalla raccolta dello scrittore che Adelphi ha pubblicato di recente, nella traduzione di Anna Rusconi. Il primo si apre con una epigrafe: Seventeen, I fell in love e racconta le miserie e le speranze di un ragazzo innamorato a Berlino. Nel corso della storia qualcuno che lo esorta a pensare a divertirsi: come se fosse facile. Quelli di Szalay sono nove uomini, colti in nove momenti diversi della vita: o forse l’uomo è uno solo e questo libro ne racconta tutto quello che è, l’intera esistenza di gioie, insicurezze e grandiosità. Ne viene fuori un accurato ritratto dell’educazione sentimentale maschile o, forse, della sua assenza, della sua natura ambigua ed elusiva.
Che dire infatti di quel professore che si lascia la studentessa alla spalle – non era che una fantasia soddisfatta in fondo, no? – per finire, qualche giorno dopo, chiuso in una stanza di hotel da qualche parte in Germania, con una donna che gli confessa di aspettare un figlio? A poco servono i titoli – gli strumenti culturali, per così dire – e i riconoscimenti: messo di nuovo di fronte alle proprie responsabilità, si rivela incapace di gestire le proprie paure e inadeguatezze relazionali, tentando di convincerla che l’aborto sia la loro unica opzione. Non la sua, ma la loro, e sordo di fronte ai pianti di lei, alla rabbia, alla distinta percezione che non sia quella la reazione che la donna si aspetta, quello di cui ha bisogno. Queste sono solo seccature, ostacoli.
Nella camera crudamente illuminata lei aveva detto: “Tanto lo so che ottieni sempre quello che vuoi”. “Non è vero” aveva mormorato lui. Ma intanto aveva pensato Forse. Forse sì.
Tutto quello che è un uomo è arrivato in libreria poche settimane prima che apparisse sulle pagine del New Yorker “Cat Person”, il racconto di Kristen Roupenian finito poi un po’ dappertutto. Il racconto descriveva, da una prospettiva femminile, le aspettative deluse di un breve flirt, di come il desiderio di soddisfare una propria fantasia o di essere amati (e non già di amare) finisca in cenere di fronte a qualcuno concentrato a ottenere lo stesso da noi. Visto da qui, quello che quel professore pensa riguardo alla sua storia con la studentessa sembra un brillante commento alla storia di Margot e Robert.
I due infatti, paiono appartenere alla costellazione dei personaggi di Szalay: “lui si era concentrato tutto nel realizzare la sua antica fantasia, lei si era concentrata tutta nel realizzare la propria”, insomma – tranne che, appunto, così come lo era quella studentessa, Margot è ancora una ragazza e ha tutto il tempo per imparare a bilanciare il desiderio di sentirsi desiderata con quello di compiacere.
Dall’altra parte ci sono questi uomini che provano a farcela, “gente che nella vita si tiene a galla riuscendo ad ottenere sempre quello che vuole”; uomini che a primo sguardo sono solo egoisti, e che, a veder meglio, si rivelano anche insicuri, goffi, inadeguati. Non vorrebbero far del male. E invece. Tra questi nove racconti e nove uomini, ce n’è uno in cui un agente immobiliare in trasferta decide di non andare a letto con una donna incontrata per lavoro, ma non c’entra la cautela o la premura: “mentre si leva le calze, lo pervade un senso di malinconia per l’occasione persa. Non gli andava di sforzarsi. A rendergli poco piacevole l’idea, mentre erano nell’atrio, è stata soprattutto la prospettiva dello sforzo, per quanto minimo”.
Tutto quello che è un uomo è un libro sulle imperfezioni, le vulnerabilità e le incertezze della vita: i suoi sono uomini che potrebbero o vorrebbero essere uomini migliori o, magari, che attendono solo l’occasione di dimostrarlo. E invece si assiste a una sfilata di uomini in crisi, incapaci di prendersi le proprie responsabilità e di mettersi in contatto con l’altro – o anche solo con se stessi. Tutto sommato, per loro si prova dispiacere e compassione – Szalay è uno scrittore di grande classe e eleganza, pungente ed empatico – e la terribile sensazione che ci sono cose che i nostri nove non impareranno mai, passata la loro giovinezza.
Uno dei migliore dei racconti resta (ma si fa fatica a scegliere), quello del giovane Bernard in vacanza a Cipro: finito sull’isola da solo a scontare la bruciante infamia di essere abbandonato dal suo amico pochi giorni prima della partenza, passa le giornate tra il suo hotel scadente e la piscina. Qui,
In bermuda, nuota. La sua pelle ha il biancore latteo dell’inverno di Lilla. Per un po’ fa contegnosamente avanti e indietro nella vasca dei nuotatori seri, quindi si mette in coda coi bambini, per un giro sull’idroscivolo.
Bernard, da solo, si rivela poco più che un bambino, pronto a crollare a pezzi; poi conosce Charmain, una giovane “enorme in modo affascinante, […] il [suo] corpo non smette di affascinarlo: l’ingombro del girovita, con i rotoli di grasso alti quanto cuscini, i gomiti che nella massa vaporosa delle braccia appaiono come semplici fossette. E la testa che sembra piccolissima”.
C’è una puntata della quarta stagione di Louie (“So did the fat lady”), in cui il comico esce con una ragazza grassa, Vanessa, dopo averne rifiutato ripetutamente le avances. Durante l’appuntamento, la ragazza, offesa perché Louie si rifiuta di riconoscere che lei sia semplicemente grassa, si lancia in un lungo monologo: qui racconta come qualsiasi donna possa trovare qualcuno con cui andare a letto, e di come siano proprio gli uomini normali o poco belli, insomma i Louie, a non voler uscire con quelle come lei, né tantomeno flirtare, temendo che il loro status (quale status, viene da chiedersi) possa essere messo in crisi da una ragazza poco attraente. Sono gli uomini come Louie a rifiutarla, ad aver paura di lei – paura che da fuori gli altri possano notare come in realtà si somiglino, come stiano bene insieme. Bernard e Charmain finiranno a letto – c’è qualcosa nella docilità con cui lei gli si offre che spezza il cuore e spiega meglio di tanto altro cosa sia il bisogno di essere viste, toccate – ma mi chiedo se Bernard se ne vergognerà mai, se capirà qualcosa sul contatto umano. In questi racconti, così come in quella puntata, a ferire gli altri sono uomini normali, né mostri, né uomini malvagi – solo codardi, incapaci di venire a patti con la propria normalità, le proprie imperfezioni e mancanze.
In una poesia che avevo letto da qualche parte anni prima, una ragazza diceva al fratello “I want to say: we come from difference, Jonas, / you have been taught to grow out, /I have been taught to grow in”: quello che i racconti di Szalay riescono a fare, e non è certo cosa da poco, è concedere a questi nove uomini, colti in nove momenti diversi della loro vita, in nove città e in nove contesti, un’occasione per guardarsi un po’ dentro ed essere messi di fronte alla propria fragilità.