“S e esiste qualcosa di eterno, è evidente che vada cercato in mare”, afferma lo scrittore svedese Patrik Svensson nel suo nuovo L’uomo con lo scandaglio. Storie di mare, abissi e meraviglie (Iperborea, 2023). Sarà per questo che ogni estate della nostra vita siamo tornati a perderci inebetiti fissando le onde? Questa è la ragione per cui gli esploratori del passato sono salpati senza sapere davvero dove andassero e gli scienziati hanno studiato l’oceano e i suoi abissi, senza mai peraltro risolvere del tutto i suoi misteri? In realtà, l’oceano è un mondo in costante movimento: appare immobile e sacro, ma così come tutte le creature marine che lo popolano ha un proprio ritmo vitale, in qualche modo simile al nostro e a quello delle piante. “Magari non dorme e non si sveglia”, scrive Svensson, “ma si muove, alternando stati di attività a stati paragonabili al sonno, e producendo i moti più potenti e maestosi che la Terra possa mostrare. Si muove attraverso le grandi correnti che percorrono il pianeta, sia in superficie che nelle profondità, simili a una circolazione sanguigna molto ritmata che segue il tempo della rotazione terrestre. E si muove anche attraverso il flusso e il riflusso delle maree, l’innalzamento e l’abbassamento regolari e periodici dell’acqua del mare causati dalle forze gravitazionali di Luna e Sole”.
Se pensiamo che i fenici probabilmente avevano circumnavigato l’Africa prima di Vasco da Gama e i Greci chiamavano Okeanòs il dio-fiume che collegava tutte le acque del pianeta allora conosciuto, è chiaro che l’idea di un mare unico, connesso e vivente esiste dalla notte dei tempi. Che ci possa essere qualcosa oltre l’orizzonte è una suggestione che pare essere insita negli esseri umani, se cinquemila anni fa i polinesiani attraversarono il Pacifico a bordo delle loro piroghe imparando a decifrare le stelle, le correnti, i venti, e forse anche il volo di alcuni uccelli migratori. Si capisce allora che anche Svensson, già autore di Nel segno dell’anguilla (2019), tradotto in più di trenta paesi, è irresistibilmente attratto dalla promessa di scoperta e avventura dell’oceano, proprio come i polinesiani o gli esploratori delle ere passate:
Non sono mai andato per mare. Non ho mai lavorato su una nave, mai affrontato una burrasca in mezzo all’Atlantico, mai guardato le stelle per stabilire dove mi trovassi o provato la sensazione di avere un abisso sotto i piedi. Conosco il mare aperto e le sue profondità più o meno quanto conosco la superficie della Luna o lo spazio. L’idea che me ne sono fatto è prima di tutto un prodotto della fantasia. Eppure ne sono sempre stato attratto. Sognavo il mare, ciò che ‘non ammette ricordi’. […] Non è facile spiegare perché, ma credo che dipenda dal fatto che il mare rappresenta l’origine e la continuità, che è misterioso e almeno apparentemente impenetrabile ma anche sempre presente, qualcosa che può sembrare immutabile nonostante sia in perenne mutamento, un posto in cui si vorrebbe poter andare quando la vita si fa troppo pressante e impegnativa. Comunque sia, quell’attrazione è sempre stata qui, in fondo al cuore, come un’atavica nostalgia di casa, un’ancora ancestrale tatuata sottopelle.
La parola chiave per seguire le avventure disseminate nel libro è “meraviglia”: quel che interessa a Svensson è raccontare le storie di grandi donne e grandi uomini, persone spesso dimenticate dalla storia o gente comune, tutte però accomunate dall’aver risposto all’antico richiamo dell’oceano e alla sua promessa di conoscenza. L’uomo con lo scandaglio è un susseguirsi di storie inattese su alcune delle scoperte più famose di sempre, raccontate tuttavia da un punto di vista marginale o inedito: dalla storia di Enrique, lo schiavo malese scomparso nel nulla che probabilmente fu il primo uomo a fare il giro del mondo in mare, al frate veneziano che inventò il mappamondo, passando per scoperte casuali o realizzate da scienziati al di fuori dal loro ambito di studio, e avanti così fino ad arrivare alla scrittrice che più di ogni altra ha influenzato lo stesso Svensson, vale a dire Rachel Carson. Nessuna come lei, sembra dire Svensson, ha saputo connettere letteratura e biologia marina, scrittura e scienza.
L’oceano è un mondo in costante movimento: appare immobile e sacro, ma è mosso da un proprio ritmo vitale.
L’incredibile vicenda biografica e professionale di Carson è raccontata nell’ultima storia del libro di Svensson: colei che oggi è considerata una delle più importanti biologhe marine di sempre e pioniera del pensiero ambientalista, fino a 22 anni non l’aveva neppure mai visto, l’oceano. Cresciuta in Pennsylvania in una famiglia poco abbiente, Carson era una studentessa iscritta a letteratura inglese ma indecisa se dedicarsi ai libri o alla natura, che a lungo rimasero per lei universi inconciliabili, quando infine decise di cambiare corso di studi con una laurea zoologia, per proseguire poi con un dottorato in biologia marina. Saranno gli studi di Carson sulle anguille a ispirare il primo libro di Svensson, nato e cresciuto in una piccola contea nel sud della Svezia, la Scania, lungo quella che viene chiamata “la costa delle anguille”. L’alone di mistero che avvolge la complessa biologia dell’anguilla e ancora interroga schiere di ricercatori è, tanto per Carson quanto per Svensson, la prova che è anzitutto la meraviglia a spingere in avanti la comprensione della natura:
Così lo stupore davanti alla natura che Rachel Carson conosceva fin da piccola divenne un atteggiamento intellettuale, di cui avrebbe continuato a sottolineare la necessità anche nell’ambito scientifico. Per nostra sfortuna, pensava, molto spesso la meraviglia che proviamo da bambini nell’incontro con la natura si offusca e si perde quando diventiamo grandi. Se le nozioni sono i semi che produrranno conoscenza e saggezza, la meraviglia è il terreno fertile di cui hanno bisogno per svilupparsi. Per il bambino, scrisse nel saggio Brevi lezioni di meraviglia, ‘conoscere non è neanche lontanamente importante quanto sentire’. Per un adulto, per una persona dall’approccio razionale e scientifico, sentire è altrettanto importante. Sentire, sosteneva, non significa prendere le distanze dalla scienza. Al contrario, è una premessa necessaria sia per migliorarci sia per sopravvivere. In una conferenza che tenne in Ohio nel 1954 affermò: ‘Sono convinta che più riusciremo a concentrarci sulle meraviglie dell’universo, meno ci piacerà distruggerlo’”.
Allo stesso modo lo scandaglio che dà il titolo al libro di Svensson diventa con la sua antica storia un simbolo potente della curiosità umana e un antidoto alla “brama di distruzione”. Prima che negli anni Trenta del Novecento fosse inventato l’ecoscandaglio, per misurare le profondità marina si utilizzava uno strumento chiamato scandaglio a sagola che nei secoli venne sempre migliorato e modificato ma che nella sostanza rimase un arnese incompleto e poco sistematico. Già nel Vecchio Testamento, racconta Svensson, sono riportati alcuni tentativi di scandagliare il mare con un peso legato a una corda che affondava nell’acqua. Anche Ferdinando Magellano calò il suo piombino nell’Oceano Pacifico, al largo delle isole Tuamotu nella Polinesia Francese: il suo fu il primo tentativo conosciuto di sondare la profondità degli abissi oceanici, e anche se la corda era lunga settecentocinquanta metri lo scandaglio non toccò il fondo. Perché gli umani continuano a sondare i fondali? Perché questa ossessione per gli abissi? In parte per ragioni legate alla navigazione, ma dice Svensson anche e soprattutto “perché l’idea dell’ignoto è insopportabile”. In un’intervista lo stesso Svensson ha dichiarato che “lo stupore ha una funzione cognitiva. Il senso di meraviglia è spesso la forza trainante che si nasconde dietro la ricerca scientifica, forse possiamo dire che la scienza è persino dipendente dal mistero e dall’ignoto. La curiosità e il senso di meraviglia sono più di semplici passioni, credo. Fanno parte di ciò che significa esistenzialmente essere umani”.
Perché gli umani continuano a sondare i fondali? Perché questa ossessione per gli abissi? Secondo Svensson, perché l’idea dell’ignoto è insopportabile.
C’è poi la questione della scrittura. Durante il discorso di accettazione per il National Book Award nel 1952 – la cui trascrizione è oggi pubblicata nella raccolta di inediti Una favola per il futuro (Aboca Edizioni, 2023) – Rachel Carson disse: “i venti, il mare e le maree in movimento sono quello che sono. Se in essi c’è meraviglia, bellezza e mistero, la scienza svelerà questi aspetti. Se non ci sono, la scienza non potrà crearli. Se nei miei libri sul mare vi è poesia, non è perché deliberatamente ve l’ho inserita, ma perché nessuno potrebbe scrivere in modo autentico sul mare e lasciar fuori la poesia”. La capacità di Carson di mescolare una scrittura alta e autoriale con una documentazione scientifica inossidabile, così evidente ne Il mare intorno a noi, si riflette oggi nello stile di autori emergenti come Rebecca Giggs, o già affermati come Philip Hoare e appunto Svensson:
Viviamo su un pianeta di mari, una biglia blu, e l’oceano è molto più grande, molto più selvaggio e possente di qualunque altro elemento. Allo stesso tempo, però, l’oceano è unico e fragile: ne esiste solo uno. Possiamo costruire confini immaginari e attribuire nomi diversi, ma l’oceano è lo stesso dappertutto. Significa anche che è vulnerabile, molto più vulnerabile di quanto credessimo.
È importante ribadire che i racconti di Svensson, le storie che compongono L’uomo con lo scandaglio, sono tutti profondamente ambientalisti senza che contengano denunce o proclami gridati. Si prenda ad esempio la vicenda di Robert Dick, il “fornaio di Thurso”: un uomo che visse alla fine Ottocento, un uomo povero, solo, fornaio per sopravvivere, ma che si dedicò per quasi tutta la vita a uno “studio matto e disperatissimo” della geologia, delle piante, dei fiori, delle conchiglie e dei fossili. Le sue scoperte non gli furono mai davvero riconosciute: la più importante, quella di un fossile chiamato Microbrachius dicki che pare sia stato il primo a riprodursi tramite penetrazione e fecondazione interna, gli fu riconosciuta vent’anni dopo la sua morte, quando fece scalpore nella storiografia evoluzionistica. “La curiosità innata”, scrive ancora Svensson, “nel corso della storia si è dimostrata a volte la caratteristica più distruttiva degli esseri umani e altre volte la migliore”.
Quella “curiosità insopprimibile” che spinge Robert Dick, Ferdinando Magellano, Rachel Carson e altri ancora ha di certo un risvolto oscuro. Anche l’esplorazione umana dell’oceano, nata proprio dalla curiosità, ha portato a un’alterazione dell’equilibrio di cui oggi nessuno può prevedere le conseguenze. “La specie umana, in un futuro in cui avrà definitivamente il controllo su tutta la Terra, compresi gli abissi oceanici, alla fine corre il rischio di rimanere sola”, constata Svensson desolato. Tuttavia, oggi che scienziati e scienziate lavorano in grandi apparati burocratici, spesso orientati al mercato, e il senso di meraviglia verso la scienza si combina a molte altre motivazioni, decisamente più prosaiche, forse varrebbe la pena ogni tanto di ripensare agli esploratori polinesiani, fenici, portoghesi o anche ai navigatori solitari dei giorni nostri e al loro stupore inestinguibile davanti a correnti, maree e movimenti delle onde. E ripensare soprattutto al fornaio di Thurso, piegato dai dolori, che si incammina per la brughiera per tornare molte ore dopo infangato e con i piedi fradici, con una borsa piena di pietre. “È l’uomo che osserva, descrive, esplora e studia”, osserva Svensson. “È l’uomo con lo scandaglio”.