H o affrontato parallelamente e per puro caso la lettura de Gli uomini mi spiegano le cose, la raccolta di articoli scritti dalla giornalista americana Rebecca Solnit dal 2008 al 2014, con la visione della recente serie televisiva prodotta e co-diretta da David Fincher, Mindhunter: la vera storia dell’unità investigativa dell’FBI che alla fine degli anni Settanta, grazie a innovazioni metodologiche mutuate dagli studi psicologici, è riuscita a costruire un profilo generale di quella figura omicida che verrà ribattezzata da allora in avanti come “serial killer”.
Le due opere hanno formalmente ben pochi aspetti in comune: il saggio di Solnit è una “riflessione sulla sopraffazione maschile”, come recita il sottotitolo in copertina, a partire da un episodio occorso all’autrice, a suo modo anche divertente, di mansplaining (termine che proprio l’articolo di Solnit ha contribuito a diffondere, nonostante l’autrice non ne sia del tutto entusiasta: accentua troppo “l’idea che sia un difetto insito in tutti gli uomini”). La serie di Fincher si inoltra invece in un territorio caro al regista americano, quello della crime story investigativa, già esplorato con Seven (1995), Zodiac (2007) e in parte anche Gone Girl (2014).
Quello che però in nuce nasconde Mindhunter, e naturalmente in maniera meno superficiale la penna di Rebecca Solnit sotto la sua facciata dolceamara, è una spietata analisi, attraverso la cornice della Storia recente americana, di un’escalation che dalle intimidazioni verbali arriva fino alla ferocia dell’omicidio, una “pandemia di violenza” in cui il genere risulta un fattore determinante. Scrive Solnit nel secondo capitolo del libro:
Di casi di violenza e stupro sulle donne ne avvengono in quantità in questo Paese e su questo pianeta, eppure quasi mai li si considera un problema di diritti civili o di diritti umani, o un’emergenza, o addirittura uno schema ricorrente. La violenza non ha razza, non ha classe, non ha religione, né una nazionalità, però ha un genere.
Lo schema ricorrente, il pattern, sembra essere l’obiettivo delle analisi di Solnit, ed è quello di cui sono alla ricerca anche gli agenti di Fincher che individuano nell’omicidio seriale l’atto finale di un percorso di devianza che ha le sue radici in un disturbo di natura sessuale a cui sono soggetti quasi esclusivamente gli uomini.
“Sorry guys!” dice scherzosamente l’agente Holden alla platea maschile di una classe elementare durante una delle sue lezioni. Il serial killer tipo è uomo, quasi sempre bianco, e il profilo della sua vittima coincide spesso (in realtà in Mindhunter sempre) con quello di una donna colpevole di non aver risposto adeguatamente alle attenzioni sessuali del suo assassino. Nonostante i due detective protagonisti della serie tv siano spesso in disaccordo sulle modalità d’investigazione l’obiettivo del loro lavoro è chiaro ed esplicitato: “stiamo cercando di impedire che delle donne siano messe a forza su un van e poi fatte a pezzi”. Donne, non essere umani o persone.
Dal canto suo Rebecca Solnit fa costantemente le dovute precisazioni, ricorrendo puntualmente a episodi e statistiche: non sono solo le donne, “naturalmente anche gli uomini sono vittime di violenza”, ma nella stragrande maggioranza di casi “per mano di altri uomini”. È questo il punto essenziale.
Qualcuno ha scritto un articolo sul fatto che, a quanto pare, negli Stati Uniti sono i maschi bianchi a commettere gli omicidi di massa e i commentatori (quasi tutti ostili) sembrano aver notato solo l’aggettivo “bianchi”. […] È evidente che l’immediata disponibilità di armi costituisce un enorme problema nel caso degli Stati Uniti: eppure, malgrado tale disponibilità riguardi chiunque, nel novanta per cento dei casi sono comunque gli uomini a commettere omicidi. Lo schema è chiaro come il sole.
Focalizzare l’attenzione con atteggiamento paternalistico sulla vittima designata delle violenze non aiuta a comprendere il problema, anzi. È una polemica che anima il dibattito da tempo. Solo pochi mesi fa in Italia abbiamo avuto il nostro polverone mediatico in seguito a un climax di stupri guidato dal famigerato caso dei due carabinieri di Firenze. Sulla stampa di tutto il paese, per giorni, sono comparsi accorati vademecum per la salvaguardia delle giovani donne indifese: non andate lì, non fate questo, non uscite troppo tardi, e che nei peggiori dei casi sono sfociati in indagini minuziose sulle abitudini sessuali delle vittime per intaccarne la credibilità. Fate attenzione, care, a seguire questi consigli, pena la complicità con il vostro aguzzino. La riproposizione dell’antico e noto adagio del “ve la siete andata a cercare”.
La stessa cosa succede nei campus americani di cui ci parla Solnit a quelle ragazze che tentano di rivendicare dei diritti sul proprio corpo e che l’autrice ribattezza Cassandre. Come l’eroina del mito, condannata a non essere creduta e costretta alla condizione di schiava sessuale per essersi rifiutata di concedere le proprie grazie al dio Apollo, le nuove Cassandre sono vittime di un preciso schema denigratorio che si fonda su consolidati preconcetti di mendacità e incoerenza femminile (tanto per cominciare la parola “isteria” deriva dal greco “utero”, ci ricorda Solnit) e che concentra il peso della violenza in maniera troppo blanda sugli aggressori.
Non esiste una ragione valida (ma esistono molte cattive ragioni) perché nei college si passi più tempo a spiegare alle donne come salvarsi dai predatori invece di raccomandare all’altra metà degli studenti di non comportarsi da predatori. […] Credo che il futuro di quello che forse non si potrà più chiamare femminismo debba includere uno studio più profondo sugli uomini.
Ogni singolo sopruso fisico o mentale scaturito da un divario di genere può facilmente essere ricondotto a un fattore scatenante condiviso: la fantasia di controllo. Per Rebecca Solnit l’omicidio non è altro che una forma estrema di un più diffuso autoritarismo, perché “la violenza inizia sempre da questo presupposto: io ho il diritto di controllarti”.
C’è questa rapida e significativa sequenza in Mindhunter girata all’interno di un pub di una piccola cittadina, in cui un poliziotto locale, un po’ timorato di Dio un po’ hillbilly, cercando di ricostruire gli ultimi spostamenti di una ragazza barbaramente uccisa e mutilata, deduce il suo comportamento sessuale dal fatto che nel bar si trovasse da sola prima di scomparire: stava sicuramente cercando di “rimorchiare” qualcuno e questo faceva di lei una ragazza “facile”. Non sono solo i violenti e gli assassini, esiste un substrato culturale più ampio e diffuso che alimenta o addirittura legittima questi episodi, dalle tante storie raccontate da Solnit (come quella di Anita Hill, o la strage di Isla Vista e il conseguente dibattito pubblico, anticipatore del movimento #Metoo nominato quest’anno “person of the year” dal Time) fino alle efferatezze seriali dall’appeal cinematografico come quelle di Mindhunter. Quest’ultime sono una versione ancora più degenerata di questo sistema di controllo e spartizione iniqua di potere che Solnit chiama spesso patriarcato, altre volte eteronormatività (parlando dell’importanza dei matrimoni omosessuali come sovvertitori della gerarchia tra i sessi), altre ancora neocolonialismo (descrivendo l’FMI come una sorta di lenone da commedia plautina) o neoliberismo.
Gli uomini che comprendono il problema capiscono anche che il femminismo non è un complotto per defraudare i maschi, ma una campagna per la libertà di tutti. E di cose da cui essere liberati ce ne sono, come un intero sistema che premia la competitività, la ferocia, il ragionare sul breve periodo, il bieco individualismo, un sistema che è efficientissimo nel lavorare per la distruzione dell’ambiente e il consumo illimitato: quell’ordinamento che possiamo chiamare capitalismo e che incarna il peggio del maschilismo distruggendo le cose più belle di questo pianeta.
Quello della scrittrice americana è un pensiero semplice, quasi elementare, che dovrebbe essere scontato oggi, quanto meno in Occidente. La battaglia femminista, come quella ambientalista, la lotta al razzismo, alla povertà e alle diseguaglianze sociali, dovrebbe essere una prerogativa basilare di qualsiasi forza che si professi progressista, perché in ballo c’è un generale problema di egualitarismo umanitario. È una lotta di tutti, riguarda tutti. Per questo gli abusi commessi da personaggi come Dominique Strauss-Khan, a cui Solnit dedica un intero capitolo del libro e dietro cui aleggia il fantasma di Weinstein, risultano ancora più odiosi, proprio perché perpetrati da uomini di potere, per giunta di area liberal, che dovrebbero essere i primi promotori di istanze realmente democratiche.
Pur non brillando per una profonda intersezionalità (la prospettiva è quella di un’intellettuale bianca, eterosessuale e altoborghese che riflette soprattutto a partire dalle proprie esperienze individuali), che invece animava un altro recente saggio di successo come Dovremmo essere tutti femministi (2014) di Chimamanda Ngozi Adichie, le aspirazioni di Gli uomini mi spiegano le cose sono decisamente ecumeniche, grazie alla chiarezza e alla semplicità della sua prosa, che lo rendono un buon libro per i neofiti, ma soprattutto grazie alle soluzioni a cui giunge. Cosa possiamo prospettarci in questo quadro a tinte fosche?
In un periodo come il nostro, in preda a mistificazioni e post-verità, è importantissimo agire sulla lingua e sulla narrazione dei tempi. Le pagine del libro sono infestate da un’ossessione sistematica per il linguaggio (“le nostre armi sono le parole”, “la storia del femminismo è sempre stata una lotta per dare un nome e per definire”), questo è il primo passo per descrivere il mondo e per dargli una nuova forma, perché quando non ci sono le parole per un fenomeno non se ne può parlare e quindi cambiare.
Violenza domestica, mansplaning, cultura dello stupro e sexual entitlement sono alcuni degli strumenti linguistici che ridefiniscono il mondo con cui le donne si confrontano ogni giorno e che aprono la via al cambiamento.
Questa spinta centripeta è bilanciata da una forza di segno opposto, costituita da “equilibri punteggiati”, avvenimenti imprevisti che possono cambiare all’improvviso il nostro racconto. Il cuore del saggio di Solnit risiede forse proprio in questo capitolo, una celebrazione dell’oscurità, dell’ignoto, dell’indistinto sotto le spoglie di un piccolo e originale trattato su Virginia Woolf. Le basi della speranza risiedono anche nella capacità d’immaginare l’improbabile: la disperazione e il cieco ottimismo sono entrambe certezze che rendono il futuro troppo simile al presente. La libertà è anche smarrirsi, affrontare le zone di tenebra in maniera che lo spazio fisico coincida con quello mentale. Libertà è perdere la propria identità, come l’Orlando di Woolf che scivola di secolo in secolo tra un sesso e l’altro, quasi paladino e profeta del Gender Trouble di Judith Butler. Libertà è quindi la messa in discussione di ogni valore normativo o gabbia comportamentale, un po’ quello che tenta di fare Debbie, giovane studentessa universitaria e ragazza dell’agente protagonista di Mindhunter, quando cerca di trasmettere al compagno curioso la propria passione per gli studi sociologici, come quelli di Erving Goffman sulla vita come grande recita teatrale, che la spingono, almeno per un giorno, alla rinuncia di ruoli femminili prestabiliti: “Una volta ho provato a non sorridere per un giorno, ed è stato davvero strano. Sconosciuti continuavano a chiedermi: ‘Va tutto bene?’”.
Proprio dalla messa in discussione di un sistema prenderà le mosse la grande rivoluzione delle metodologie investigative americane degli anni Settanta, a pochi anni di distanza dall’atterraggio sulla Luna, i moti di Stonewall e il manifesto delle Redstockings. Una strada lunga, vero, su cui stiamo avanzando a fatica e lentamente, ma è importante sapere che non la stiamo percorrendo all’indietro.