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I l rapporto fra l’essere umano e la téchne, intesa come la capacità pratica di operare per raggiungere un dato fine, è sempre stato storicamente un oggetto d’indagine privilegiato per una riflessione multidisciplinare, per via delle sue implicazioni insieme scientifiche e umanistiche. Con Umanamente insostenibile. Il capitalismo nuoce gravemente ai sapiens, Luigi D’Elia e Nora Sophie Nicolaus propongono un’interpretazione attualizzata del fenomeno, che parte dalla necessità di riconoscere il ruolo ineluttabile del capitalismo nelle dinamiche che orientano il progresso tecnologico e che stanno progressivamente minando la nostra salute individuale e collettiva.
La premessa alla base del saggio scaturisce dall’evidenza antropologica di una discrepanza fra la velocità imposta dalle evoluzioni tecnosociali a cui stiamo assistendo e la lentezza della nostra mente paleolitica, che presenta un apparato psicologico strutturalmente identico a quello dei nostri antenati. Scrive D’Elia: “Condizione umana ed evoluzione umana hanno due velocità estremamente diverse: la prima accelera a dismisura, la seconda procede ecologicamente con la propria ancestrale lentezza, rispondendo esclusivamente ai numerosi vincoli propri dell’evoluzione e al suo intrinseco bricolage.”
Le conseguenze di questa discrepanza agiscono su più piani: quello della salute psicologica, che oggi più che mai deve sostenere l’insorgere di comportamenti problematici più o meno inediti e intergenerazionali; quello degli stili di vita, che si modificano e decostruiscono per assecondare ‒ o per contrastare ‒ questa velocità; quello dell’organizzazione politico-economica su scala globale, continuamente soggetta a “bug di sistema” che minano da un lato la fiducia dell’individuo nell’intrinseca lentezza dei modelli democratici e dall’altro ne rivelano l’inadeguatezza ad anticipare delle risposte pertinenti alle sfide di uno scenario economico e sociale dai contorni sfuggenti.
D’Elia e Nicolaus mostrano come da sempre ‒ ne è ricca testimone la mitologia ‒ ogni innovazione tecnologica abbia imposto alla specie umana un adattamento etico e culturale, spesso lungo e laborioso, che consentisse di controllarne le implicazioni problematiche. In questo senso, l’accelerazione autodistruttiva a cui stiamo assistendo ha radici filosofiche, religiose, psicologiche ed economiche, una miscela originata da fattori concomitanti. A partire da una concezione del mondo che separa l’individuo dalla natura, legittimando il dominio del primo sulla seconda, e dando corso alla falsa percezione che le risorse che abbiamo a disposizione siano illimitate. Questa illusione rappresenta un chiaro corto circuito di quella capacità narrativa tipicamente umana che pure si rivela cruciale nell’anticipare scenari funzionali alla nostra sopravvivenza. Un altro fattore è la vocazione intrinsecamente speculativa del capitalismo, modello economico che deve il proprio successo alla capacità di solleticare la nostra euforia dopaminergica e di reinventarsi camaleonticamente una volta esaurito il proprio terreno di conquista. Non bisogna infine trascurare la compatibilità di questa vocazione con le opportunità offerte da una dimensione digitale in cui la tecnologia è ubiqua e in grado di raggiungerci ‒ e potenzialmente suggestionarci ‒ in modo istantaneo, pervasivo e spontaneo.
D’Elia e Nicolaus mostrano come da sempre ogni innovazione tecnologica abbia imposto un adattamento etico e culturale che consentisse di controllarne le implicazioni problematiche.
In quest’ottica, il profondo cambiamento nel flusso di informazioni non può che avere effetti rilevanti sull’essere umano, una creatura per la quale ottenerle implica maggiori possibilità di sopravvivenza. Scrive sempre D’Elia:
Il capitalismo realizza una forma di assuefazione profonda e silenziosa dei propri codici che sarebbero alla radice di ansia e depressione, disturbi di memoria e attenzione, bipolarismo ecc. Assistiamo allo smantellamento del tessuto sociale a causa dell’ideologia individualista, competitiva, alla precarietà lavorativa, all’assegnazione del tempo al lavoro anziché alla vita intima e famigliare. Si crea così una solitudine diffusa che appare anch’essa come risultante ineluttabile di sistema.
Su una scala collettiva, un fenomeno come la crisi climatica porta allo scoperto le conseguenze della scissione fra suggestione e narrazione incentivata dal modello capitalistico: da un lato il predominio delle ragioni del mercato sulle ragioni della sopravvivenza (non è un caso che uno dei due autori sia di Taranto, città segnata dal caso Ilva), tanto quanto l’idea tacita che prima o poi riusciremo ad adattarci a qualsiasi situazione anche quando gli eventi raccontano altrimenti; dall’altro l’inesorabile attecchire di una visione individualista che privilegia il benessere del singolo rispetto a quello della comunità.
Tutti questi fattori rendono complessa la comprensione del fenomeno. Come prevedibile nel saggio viene ripreso il concetto, ideato dal filosofo britannico Timothy Morton, di iperoggetto, ovvero un fenomeno la cui complessità è talmente inafferrabile da non essere direttamente esperibile e sfuggire alle logiche di comprensione della sfera umana (mi torna in mente l’imperscrutabile oceano del pianeta Solaris descritto da Stanisław Lem).
Se i primi tre capitoli servono a delineare cause e conseguenze dello scenario attuale da un punto di vista prima evolutivo e poi psicologico, l’ultimo, a cura di Nicolaus, tenta di individuare possibili vie d’uscita attraverso la comparazione speculativa di due manifestazioni agli antipodi come la cultura del self-made man e la pratica giapponese dell’ikigai: il primo come apogeo dell’individualismo competitivo che permea la società moderna, il secondo a dimostrazione di un senso dell’esistenza che trova pieno appagamento nella cooperazione.
Scrive Nicolaus: “Una qualsiasi organizzazione umana funziona e può dirsi realmente “comunità” solo se valori, principi e obiettivi sono adottati all’unanimità dal gruppo”. È dunque nella coltivazione di un’etica comunitaria e nella promozione di un approccio conoscitivo transdisciplinare ‒ e intersezionale, aggiungerei ‒ che possiamo trovare gli anticorpi per contrastare l’attuale discrepanza tra i nostri bisogni come persone e la propulsione performativa neoliberista. Intento assolutamente condivisibile, ma che nella pratica chiede molto alla nostra capacità individuale e collettiva di compiere decisioni responsabili, radicali e consapevoli.
Per innescare un cambiamento agire sul piano culturale è sicuramente un passaggio indispensabile. Ma servono anche figure con capacità progettuali che sappiano lavorare sia sul livello individuale, che su quello organizzativo e su quello etico.
Qui mi permetto un inciso personale: per lavoro mi occupo di design e user experience (disciplina che parte dall’analisi dei bisogni delle persone per progettare prodotti e servizi digitali e fisici di valore), e conosco bene quanto sia difficile aspettarsi dagli utenti un coinvolgimento spontaneo, anche quando la posta in palio è assolutamente nobile. Per innescare un cambiamento fondato sui valori e i principi invocati da Nicolaus, agire sul piano culturale ‒ come fa questo saggio, in scia a molta letteratura affine ‒ è sicuramente un passaggio indispensabile. Ma, per rendere conseguibili gli obiettivi, servono anche figure con capacità progettuali che sappiano lavorare su più livelli: quello individuale, creando esperienze d’uso coerenti con le inclinazioni delle persone a cui sono destinate; quello organizzativo, orientando i processi decisionali in una prospettiva qualitativa e non manipolatoria; e quello etico, considerando fin da principio l’impatto non solo individuale, ma anche sociale e ambientale di ogni soluzione.
Si potrebbe facilmente obiettare che anche il progettista sia corresponsabile, se non addirittura complice diretto dei processi capitalistici denunciati (lettura che trova sponda nel lavoro critico sulla professione fatto da Mike Monteiro in Ruined by design, 2019). La prima “buona notizia” è che esistono diverse correnti all’interno del design che stanno ripensando sistematicamente i modelli di produzione, proponendo delle alternative post-capitalistiche che antepongono alla creazione di nuovi prodotti la manutenzione e il riutilizzo dell’esistente, nonché incoraggiano il coinvolgimento fin dall’inizio delle realtà marginalizzate nei processi decisionali e progettuali comunitari. Sono spinte che devono comunque muoversi entro il perimetro concesso dai sistemi stessi in cui si opera, ma nondimeno importanti per spostare alcuni equilibri valoriali attraverso il progetto.
L’altra “buona notizia” è che, a differenza di quanto talvolta deterministicamente viene affermato in questo saggio (che, a favore di tesi, snocciola sbrigativamente le implicazioni benefiche della virtualizzazione, quando abilitata da attori responsabili dentro modelli organizzativi maturi), anche un piano capitalistico ben finanziato può fallire nei suoi intenti seduttivi. Ad esempio, gli autori danno molta enfasi al ruolo del metaverso (termine ombrello sotto il quale Mark Zuckerberg avrebbe voluto “brandizzare” la realtà virtuale e mista) nella virtualizzazione tossica della nostra esistenza. Sappiamo però che “quel” metaverso è già morto, seppellito dalle alte barriere di adozione cognitiva ed economica richieste ai suoi potenziali fruitori (alta connettività, un dispositivo costoso e pesante, un’offerta di servizi numericamente povera e di scarso valore).
Se è vero che il capitalismo non vede l’ora di trasformare predatoriamente nuove comunità in marketplace, va anche detto che il massimo che i brand più prestigiosi sono riusciti a fare su Fortnite è stato vendere delle skin griffate, mentre Apple conteneva le aspettative sui suoi visori e i primi prodotti che si fondavano sull’AI come aspetto distintivo sono naufragati appena messi alla prova del contesto d’uso. Alcuni anticorpi “spontanei” sembrano quindi essere ancora in nostra dotazione come esseri umani. In questo senso, Umanamente insostenibile fa un ottimo lavoro nel fornire degli strumenti culturali efficaci con cui leggere la nostra condizione, ma è meno convincente e approfondito quando specula sulle possibili vie d’uscita.
In uno scenario in cui le sorti della tecnologia sono affidate al capitale, creare le condizioni perché ogni spinta trasformativa sia ricondotta a una prospettiva umanistica è un proposito difficile, ma non irraggiungibile.
Di fronte a questa dialettica sulla téchne sospesa fra ambizione salvifica e pessimismo deterministico ‒ proprio come la nostra specie lo è fra istinto di sopravvivenza e tensioni autodistruttive ‒ continuavo a pensare alla condanna che lo scrittore Alasdair Gray ha messo in bocca allo scalpitante dottor Godwin Baxter in Povere creature:
Sono stato guidato da avidità e impazienza egoiste e QUESTO […] è il motivo per cui le nostre arti e scienze non possono migliorare il mondo, checché ne dicano i filantropi liberali. Le nostre nuove e importanti tecniche scientifiche vengono utilizzate per prima cosa dalle parti dannatamente avide, egoiste e impazienti della nostra natura e della nostra nazione, la parte premurosa, gentile e socievole arriva sempre per seconda.
In uno scenario in cui le sorti della tecnologia sono affidate al capitale, creare le condizioni perché ogni spinta trasformativa sia ricondotta a una prospettiva umanistica è un proposito difficile, forse controintuitivo, ma non irraggiungibile, soprattutto se affrontato praticando collettivamente una resistenza a lungo termine che coinvolga più espressioni della società: da quella più riflessiva a quella più pratica, da quella più critica a quella più ottimista.