N el gennaio del 1937 il governo fascista di Benito Mussolini e la giunta militare all’epoca al potere in Bolivia strinsero un accordo di collaborazione. Gli italiani avrebbero inviato uomini per formare la polizia boliviana e reprimere il dissenso. Tra i profili scelti per la missione c’era un poliziotto di origini siciliane, Rosario Barranco. Rientrato in Italia, Barranco fu inviato in Francia durante l’occupazione. Al termine del conflitto, le autorità francesi richiesero la sua estradizione per crimini di guerra: Barranco fu accusato di arresti illegali, torture, omicidi; era considerato il capo dell’OVRA, la polizia segreta fascista, a Nizza. Ma nel gennaio del 1948 fu promosso a capo della squadra mobile di Roma. Il conflitto mondiale era finito da tre anni, Mussolini era stato arrestato da cinque, e la costituzione repubblicana era entrata in vigore da pochi giorni.
La biografia di Barranco, così come quella di altri uomini tra funzionari, prefetti e questori, passati indenni dal fascismo alle nuove istituzioni repubblicane, è raccontata dallo storico Davide Conti nel saggio Gli uomini di Mussolini, pubblicato da Einaudi. Un intreccio di storie individuali che si incastrano all’interno di un duplice schema: quello italiano, con la sua politica interna e la dialettica tra forze politiche; e una cornice superiore, ovvero il quadro geopolitico delineatosi alla fine della guerra. Per semplificare, diremmo Yalta, con la conseguente contrapposizione tra blocco occidentale e sovietico e l’Italia inserita nel perimetro dell’alleanza euro-atlantica.
Fu nelle maglie di questo schema, e grazie a una certa spiccata capacità di equilibrismo da parte loro, che gli uomini di Mussolini riuscirono a evitare di essere processati e a proseguire la loro carriera all’interno dello Stato. In questo senso, il caso di Barranco è paradigmatico. Perchè, racconta Conti, la convergenza di interessi del fronte atlantico si risolse in questo caso a favore dell’Italia: “Il governo francese, dopo aver inoltrato una nota diplomatica con la richista di trenta criminali di guerra italiani, si astenne dal fare pressioni sull’Italia per ottenerne la consegna”.
Ma sono diverse le storie e le carriere raccontate da Conti, che lavora presso l’archivio storico del Senato e che si è già occupato in altri libri dei crimini di guerra commessi dall’Italia. Come quella di Ettore Messana, assegnato alla reggenza della questura di Lubiana, la capitale della Slovenia, la città da cui il regime fascista controllava le zone orientali annesse all’Italia. Scrive Conti che
La condotta di Messana si caratterizzò per l’intensa opera repressiva nei confronti sia del nascente movimento partigiano iugoslavo sia della popolazione civile locale, considerata un elemento ostile e un fattore sociale di potenziale destabilizzazione per il controllo fascista sulla regione.
Nell’inverno del 1942 venne creata la cosiddetta “cintura di Lubiana”, quello che di fatto era un ghetto, un filo spinato di 41 chilometri che vigilava sull’ingresso e sull’uscita dei cittadini. Quasi ventimila uomini vennero rastrellati e 878 furono deportati nei campi di internamento. La richiesta di estradizione che arrivò dalla Iugoslavia fu ignorata, né Messana fu mai processato in Italia.
Quello che tuttavia mette maggiormente in luce Gli uomini di Mussolini – attraverso una ricostruzione meticolosa e attenta di documenti che affondano in materiali d’archivio, dichiarazioni parlamentari, diari, articoli di giornale – è come questi profili vennero integrati nell’Italia post-bellica e repubblicana, in un processo che fu geo-politico per definizione. Nelle questure, nei servizi, nelle prefetture. Ritroviamo così uomini come Messana (o come Ciro Verdiani, un’altra delle biografie raccontate da Conti) nella Sicilia di Portella della Ginestra, impotenti, per così dire, di fronte ai ripetuti attacchi omicidi che si consumavano contro braccianti, militanti e dirigenti della sinistra socialista e comunista (i giudici di Viterbo, nella sentenza per la strage, valutarono come “eccezionale e abnorme” il comportamento di Messana, ispettore generale di polizia per la Sicilia: sottolinearono come avesse mentito più volte durante il processo). Nel suo saggio, Conti ricostruisce la catena istituzionale che favorì queste carriere, proteggendole. Una catena che vale decisamente la pena risalire.