P
er un attimo abbiamo avuto l’impressione che, come fuoriuscendo da una lunga apnea, le bolle cominciassero a scoppiare. Le bolle in questione sono le filter bubble in cui, social o non social, siamo tutti immersi; l’apnea, quella della vita frenetica all’epoca del tardo capitalismo, quella “normalità” a cui qualcuno vorrebbe disperatamente tornare e che, per qualcun altro, è il vero “problema”. L’evento detonante: la pandemia da COVID-19. Cantare dai balconi sentendoci un’unica nazione o sentirsi calati nel destino comune dell’umanità, che è quello di qualunque specie animale per cui un repentino cambio di condizioni favorevoli alla vita può decretare l’estinzione, ci ha dato l’illusione di vederci proiettati – per qualcuno “finalmente” – in una dimensione più grande, dove le cose possono evolvere o collassare, comunque sia cambiare. Ma un’illusione è, per l’appunto, qualcosa di effimero, e quando si dissolve lo stato di esaltazione che lo ha creato – euforico o disperato che fosse – ci si vergogna persino un po’ di averla assecondata. Questo sembra essere il punto di vista di Ale, la voce narrante del primo romanzo di Alessandro Gazoia, Tredici lune, uscito per Nottetempo (casa editrice per cui Gazoia, editor e saggista di lungo corso, da poco ricopre il ruolo di direttore editoriale). L’omonimia tronca tra l’autore e il personaggio suggerirebbe una coincidenza tra i due, ma in letteratura, si sa, nulla è reale nemmeno quando lo è – e tutto è vero, a prescindere dal fatto che lo sia davvero. Editor a sua volta, confinato nella sua casa al nord, epicentro della pandemia, ma in una zona non così colpita, Ale è forse più che altro un “doppio” di Gazoia, e con un doppio si troverà a fare i conti a sua volta nel corso della storia. Perché Tredici lune è un libro sulla scissione: tra l’entusiasmo e il cinismo verso il mondo dell’editoria; tra la voglia di concretizzare un amore (quello con Elsa) minato da una distanza che non è solo geografica e l’istinto all’inazione; tra la consapevolezza che il mondo va a rotoli per l’emergenza climatica e la sensazione che come singoli c’è poco che si possa fare.
Con una buona dose di ironia e disincanto, Gazoia ha costruito un libro nel libro – i capitoli che raccontano dell’editor sono puntellati da microracconti ironici, sulfurei, surreali, brevi (a volte troppo brevi) che sono il progetto di libro che Ale-personaggio vorrebbe realizzare, un libro intitolato Microdemie, troppo rapsodico e destrutturato per essere davvero una scommessa commerciale, ma forse il suo autore è affascinato proprio da questo aspetto. Ma anche il romanzo stesso, a volte, grazie alla sua “immobilità” dovuta all’oggetto del racconto, il lockdown, si ribalta in un pretesto per passare in rassegna i pensieri, le sensazioni, le paure che hanno attraversato la nostra mente durante il primo confinamento. Come in un gioco di scatole cinesi. A volte queste digressioni si innalzano verso momentanee illuminazioni, a volte si sgonfiano in piccole banalità, restituendoci l’andamento ondivago di quello strano periodo. Così strano che non si può non cedere alla tentazione di farci un libro sopra.
Il romanzo, grazie alla “immobilità” dovuta all’oggetto del racconto, il lockdown, si ribalta in un pretesto per passare in rassegna i pensieri, le sensazioni, le paure che hanno attraversato la nostra mente durante il primo confinamento.
Già, perché in questa storia lo sfondo onnipresente è l’editoria. A partire dagli scrittori adirati per gli errori non trovati nelle bozze dei loro romanzi fino a quelli disperati per i libri bloccati dalla pandemia. Per questo potremmo dire di questo libro che si inserisce alla perfezione in una delle linee della letteratura contemporanea italiana, anzi, della sua bolla, quella fatta di libri che parlano di gente che scrive/edita/pubblica libri. Tuttavia, nel gioco dei doppi, il romanzo finisce per essere sì un ritratto di quella bolla, ma anche un tentativo di detonazione. È un mondo di privilegiati, con un pubblico di docenti, professionisti, impiegati pubblici che non soffrono troppo la crisi e quindi continuano ancora a comprare libri e libretti? Certo. È un mondo che cavalca le mode, che soddisfa il narcisismo delle persone famose che vogliono presentarsi come autori di libri che, invece, sono scritti da meticolosi ghost writer? Vero anche questo. Ma il culmine di questa spirale, la bolla che gonfia e che scoppia allo stesso tempo, è il fatto che Gazoia scriva un libro ambientato nell’anno della COVID che parla della necessità, per l’editoria, di pubblicare in fretta un libro che parli della COVID. E allora una storia dell’Atalanta può, a buon diritto, trasformarsi in una cronaca di Bergamo, città simbolo del lutto per la pandemia; o il libro di un Sindaco (ah, i libri dei politici!), ovviamente redatto dal nostro e non dall’autore che lo firmerà, diventare l’occasione per centrare lo stesso obiettivo. Mentre Ale-personaggio, che scrive sì di rider che sono invece ricercatori, di adolescenti dell’epoca post-COVID, di pornografi casalinghi che cercano di monetizzare in web-cam per sfangare la crisi economica innescata dalla pandemia, non vuole scrivere un libro sulla COVID pur finendo per farlo.
Tutto questo, per di più, avviene in un anno particolare, il 2020, un anno che ha sostituito nell’immaginario apocalittico il famoso 2012 della (falsa) profezia Maya. Un anno “con tredici lune”, un’espressione che la voce narrante ripete pur non sapendo cosa voglia dire. Perché, in questo presente privo di entusiasmi, tutto si perde in un rumore di fondo dove la profondità dei discorsi si alterna alle psicosi immaginarie che viaggiano in rete. Così agli incubi dei survivalisti e alle loro traduzioni in serie tv – le apocalissi zombi – si alternano le riflessioni sugli articoli di Agamben, che vede lo spettro dello stato d’eccezione nei provvedimenti d’urgenza che qualcuno chiama “dittatura sanitaria”, o sullo stato di natura secondo Hobbes, che oggi, secondo Ale, dovrebbe aggiornare il proverbio latino homo homini lupus in homo homini virus. Tutto finisce per confondersi, per compenetrarsi, tra citazioni di libri e di film e considerazioni sulla piega che ha preso il presente, apocalittico sì ma in modo “pacato”. E quindi il presagio delle tredici lune del 2020 – un anno che ha avuto tredici lune piene per via della “luna blu” di ottobre, un evento abbastanza frequente, che si verifica ogni due anni e mezzo circa ed è tradizionalmente connesso alla fortuna – si specchia nel titolo di uno dei capolavori del cinema di Fassbinder, Un anno con tredici lune del 1978, dove l’evento astronomico richiamato è invece assai più raro e cade circa sei volte in un secolo, un evento che si verifica quando un anno con tredici noviluni cade in uno degli “anni della luna”, ciclo che avviene ogni sette anni.
In quel film doloroso e bellissimo – da cui Ale-protagonista è ossessionato, vorrebbe rivederlo dopo tanti anni ma ha paura di farlo – c’è una scena magnetica e raccapricciante allo stesso tempo, girata in un macello dove le vacche sono in fila per l’uccisione e il successivo sgozzamento e squartamento, tutto ripreso in modo volutamente esplicito da Fassbinder, mentre la protagonista, una donna trans chiamata Elvira o Erwin, col suo nome di prima della transizione, snocciola a un’amica le sue pene d’amore e il suo sentirsi disperatamente rifiutata dalla vita, disperazione che la condurrà al suicidio. Quella scena terribile – in cui all’epoca qualcuno ha voluto leggere una società che, della diversità, fa “carne da macello” – oggi suona come un monito all’indifferenza con cui stiamo mandando il mondo verso il baratro ecologico (e nel romanzo Elsa, non a caso, sceglie di diventare vegetariana e poi di togliere persino i latticini). Un’immagine che provoca raccapriccio e che, tuttavia, come accade nel film di Fassbinder, non riusciamo a smettere di fissare imbambolati, nella totale incapacità di fare qualcosa.