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n che chiave scegliamo di vivere l’epoca presente? Tutto dipende dalla narrazione attraverso cui la raccontiamo. Se fino a pochi anni fa l’impressione era di vivere in una fine sfilacciata della Storia, è ormai chiaro che uno dei perni attorno a cui identificare l’oggi è la sfida posta dalla crisi climatica. Un tempo, quindi, assolutamente dentro la Storia e intriso ovviamente di drammatici stravolgimenti biologici e naturali ma che secondo molti può essere quantomeno sfruttato per sconvolgimenti di pensiero, immaginario, percezione di sé e del mondo: perché l’angolazione da cui scegliamo di guardare, interpretare e dunque vivere quest’epoca caratterizzata dal cambiamento climatico è decisiva, e proprio da lì passa il nostro collocarci, il posto che ci diamo nel mondo, il nostro modo di agire, l’identità che assumiamo.
L’ecologia politica è quell’ecologia che non slega dalla questione ambientale i fattori sociali, economici e politici e anzi li unisce indissolubilmente: ogni tipo di emarginazione e sfruttamento – territoriale, razziale, patriarcale, di genere – è indissolubilmente collegato. È un’ecologia che pensa in maniera situata, ossia dall’interno, a partire da pratiche e territori, in modo da proporre visioni alternative e insieme concrete a quelle dominanti: è una delle possibili prospettive da cui decifrare il nostro tempo.
Perché una “narrazione di liberazione basata su ascolto, raccolta e condivisione di storie collettive e di saperi locali può decolonizzare l’immaginario e schiudere nuove impensabili prospettive di sviluppo su possibili futuri alternativi all’esistente”, come scrive Elisa Privitera all’interno di uno dei saggi che compongono Trame, una raccolta di contributi pubblicata dalla casa editrice Tamu proprio con l’idea di condividere riflessioni “elaborate all’interno di lotte per la giustizia ambientale nel Sud Italia e in tanti Sud del mondo, tra i movimenti sociali urbani, ecologisti, transfemministi e in difesa dei comuni”.
Si tratta di dar voce a narrazioni che “decolonizzino” l’immaginario ormai scaduto in cui abbiamo vissuto fino a poco tempo fa. Decolonizzare è una parola che rimbalza fra il suo significato geopolitico e l’immagine di parassiti che invadono un organismo: trovare la chiave per liberarsi dalle idee-parassita da cui il nostro angolo di mondo è assediato vorrebbe dire tentare di aprirsi alla freschezza di pensieri mai pensati.
Questione di nomi
Questa premessa spiega quanto sia importante il nome che diamo a questa epoca. Il più diffuso, oggi, è forse “Antropocene”. Utilizzato in una forma simile per la prima volta dal geologo Antonio Stoppani nella seconda metà dell’ ‘800 (“era antropozoica”), il termine si diffuse più di un secolo più tardi, quando nel 2000 il biologo naturalista Eugene F. Stoermer e il chimico Paul Crutzen ne proposero l’adozione. Con Antropocene si intende un’era geologica in cui l’essere umano incide direttamente sui processi geologici e indica quindi l’impatto di Homo Sapiens sul pianeta. Infatti, se ovviamente di cambiamenti climatici sulla Terra ce ne sono sempre stati (pensiamo che nel cosiddetto “periodo caldo medioevale” la Groenlandia, Greenland, era appunto una terra verde), quelli avvenuti per mano umana negli ultimi duecento anni, a partire dalla Rivoluzione Industriale hanno però investito il Pianeta a una velocità mai vista, non lasciando alle specie il tempo di adattarsi e portando a cambiamenti irreversibili. L’anidride carbonica e gli altri gas serra che si sono riversati nell’atmosfera in questo brevissimo periodo di tempo hanno portato la CO2 presente nell’atmosfera a raddoppiare rispetto alla quantità media degli ultimi 700.000 anni.
Secondo una ricerca di Lancet, il 90% delle morti causate dall’inquinamento avvengono in paesi a basso o medio reddito: oltre a esternalizzare il lavoro, i paesi più ricchi esternalizzano le morti per inquinamento.
Questo termine è quindi apparentemente corretto, tanto che negli ultimi anni è diventato d’uso sempre più comune. Tuttavia, dire che la specie umana, nella sua interezza, ha causato e sta causando questi danni, è quantomeno discutibile: l’impatto di un indigeno della foresta amazzonica non sarà certo equivalente a quello di uno statunitense della Bay Area. In più, per fare un altro esempio, il litio estratto nel deserto dell’Atacama inquinerà le acque del Cile ma servirà a offrire telefoni cellulari e macchine elettriche all’abitante della Bay Area. Allo stesso modo, mentre in Amazzonia vengono bruciati ettari di foresta per l’allevamento intensivo e le coltivazioni di soia, con tutti i danni che questo comporta per le specie – compresa quella umana – che ci vivono, qualcuno in un ristorante di Rio o dall’altra parte del mondo starà mangiando una bistecca. Niente di nuovo. Tuttavia questo mostra come il termine Antropocene sia in realtà profondamente fuorviante. Esistono allora termini alternativi?
Nell’articolo intitolato “Capitalocene” all’interno di Trame gli autori spiegano che la crisi che attraversiamo non può essere addebitata all’umanità in quanto tale, perché è originata dalle “disuguaglianze strutturali prodotte dall’intreccio storico tra eteropatriarcato, colonialismo e specismo”. Il termine “Capitalocene” viene proposto da molti studiosi, soprattutto storici e filosofi, come variante più coerente, sebbene sia un termine che, a differenza di “Antropocene”, non è preso in considerazione dalla comunità scientifica. Data di inizio di quest’epoca non sarebbe prettamente la rivoluzione Industriale, ma gli albori del capitalismo occidentale, a partire quindi dal Sedicesimo secolo, con lo sfruttamento sempre più sistematico delle risorse umane e ambientali delle colonie.
A guardar bene la storia del capitalismo, un cambiamento radicale di scala, velocità e scopo delle trasformazioni del territorio si è verificato nel lungo Sedicesimo secolo. I tre secoli successivi al 1492 segnarono la più grande rivoluzione ‘produttrice di ambiente’ dall’alba dell’agricoltura, avvenuta 12mila anni prima. Ciò accadde non solo a causa del colonialismo, o del commercio, ma anche della caccia alle streghe con cui l’Europa moderna sancì l’espulsione delle donne dalla sfera produttiva e la ‘colonizzazione’ dei loro corpi e del lavoro riproduttivo: così il capitalismo riorganizzò vita, lavoro e potere attraverso il dualismo Natura/Cultura.
Questo dualismo implica una visione del mondo, la divisione fra Soggetto e Oggetto, il diritto quindi di estrarre risorse da una Natura, in quanto esterna al soggetto-uomo, ma anche dalla Donna, in quanto anch’essa esterna al soggetto-uomo, o dallo schiavo nero, per la stessa ragione.
“Wasteocene” è un altro nome dei possibili nomi per identificare l’epoca attuale. Lo propone Marco Armiero – anche lui fra gli autori di Trame – nel suo libro L’era degli scarti. Cronache dal Wasetocene, la discarica globale, in cui con il termine waste (scarto, rifiuto) non si fa riferimento soltanto agli scarti in quanto tali (la plastica nei mari, l’emissione di CO2, gli agenti contaminanti immessi nei mari, nelle acque e nella terra) ma anche alle “relazioni socio-ecologiche che producono comunità di scarto”. Le comunità di scarto sono quelle comunità che vengono date per sacrificabili. L’indigeno della foresta Amazzonica di cui si decide che vale la pena di bruciare il territorio ma anche l’abitante della Terra dei Fuochi la cui salute si ritiene sacrificabile alla necessità di bruciare e sotterrare rifiuti tossici.
Pensare globale: tutto è connesso
Ecco: nella narrazione dell’epoca in cui viviamo, darle il nome giusto, o almeno riflettere su questo nome, è importante perché ci permette di interpretare politicamente la realtà. Un mondo in cui tutta l’umanità sta distruggendo il pianeta, e in cui tutti gli esseri umani sono vittime di questa distruzione allo stesso modo, è un mondo diverso rispetto a quello in cui qualcuno compie danni a discapito di altri esseri umani e di altre specie viventi e non viventi. Ed è diverso da un mondo in cui chi compie quei danni è anche in grado di proteggersi dalle conseguenze, mentre chi li subisce no. Secondo una ricerca della rivista scientifica Lancet, il 90% delle morti causate dall’inquinamento (circa 9 milioni l’anno) avvengono in paesi a basso o medio reddito: oltre a esternalizzare il lavoro, i paesi più ricchi esternalizzano le morti per inquinamento. Allo stesso modo, le zone più ricche di un paese (ma anche di una città) le esternalizzano nelle zone più periferiche e sacrificabili.
Quando una città diventa green bisogna chiedersi: per chi?
Nel capitolo di Trame intitolato “Giustizia ambientale”, le autrici Ileia Iengo e Miriam Corongiu si soffermano proprio sull’ “ineguale esposizione al rischio e alla contaminazione ambientale di comunità già affette da discriminazioni economiche e assenza di servizi”. Non tutti sono ugualmente esposti ai rischi del cambiamento climatico perché il modello capitalista si basa sulla privatizzazione dei profitti e sulla socializzazione dei rischi. Questa situazione “viene normalizzata attraverso la narrazione tossica dello sviluppo e del progresso, secondo cui il benessere dipende dal conseguimento degli obiettivi del sistema: la crescita del Pil, gli interessi degli investitori o quelli del settore siderurgico nazionale. Gli interessi delle comunità locali diventano residuali e sacrificabili rispetto a questi interessi superiori”.
Nel capitolo “Occupy Climate Change”, si tocca, fra le altre cose, il tema della cosiddetta gentrificazione verde: “Quando la città diventa green bisogna chiedersi: per chi?” affermano gli autori. Accade a New York e a Boston tanto quanto a Milano: quando un quartiere viene “riqualificato”, nella maggior parte dei casi si costringono le comunità locali a trasferirsi in quartieri ancora più periferici, più inquinati, con meno servizi, condizioni abitative peggiori e maggiore esposizione a rischi ambientali. Quando i quartieri “vengono dotati di parchi e sistemi di contenimento per l’innalzamento del mare (…) acquisiscono sempre più valore agli occhi di capitali e investimenti speculativi per la costruzione di case di lusso, mentre i residenti storici sono costretti ad andare via. La conseguenza è che nel lungo termine non ci sarà eguale protezione dagli impatti della crisi climatica e accesso alle infrastrutture resilienti per tutt*”.
Le discriminazioni sono interconnesse ed è impossibile portare avanti cambiamenti in un campo senza riflettere su tutti gli altri, anzi, senza trascinarsi tutti gli altri. Le classi più disagiate abitano più probabilmente in territori periferici e percepiti come “sacrificabili”. Le ex colonie sono per definizione bacini di estrazione di risorse. Il lavoro di riproduzione e di cura quasi sempre preso in carico dalle donne è subordinato al lavoro di produzione e non gli viene riconosciuto un valore economico (di salario) ma nemmeno sociale ed economico (dunque decisionale): “Anche quando produce reddito, questo lavoro viene culturalmente svalutato, conta di meno, è un lavoro secondario, subordinato, dipendente dal lavoro produttivo. È questo meccanismo che produce la svalutazione e la subordinazione sociale non soltanto delle donne, ma ance della salute e dell’ambiente, rendendoli soggetti a forme di violenza strutturale, sistemica. Ed è questo meccanismo che ha prodotto storicamente l’accettazione del ricatto occupazionale da parte delle comunità operaie – perché non sembrava esistere valore maggiore che quello prodotto dal lavoro industriale” scrive Stefania Barca nel capitolo “Ecologia operaia” e dedicato dunque al rapporto fra gli operai e l’ambiente in cui vivono – spesso costretti a scegliere fra salute e lavoro (basti pensare all’esempio dell’Ilva di Taranto).
L’ecologia politica, questa lente con cui interpretare il presente, ci permette di vedere come tutti i punti cardine dei cambiamenti di prospettiva di questi anni siano connessi. Non solo: mette anche in risalto la trasversalità della filiera di produzione e consumo, che unisce in unico fil rouge terre animali e persone sfruttate in tutto il mondo. Se il capitalismo e l’estrattivismo come li conosciamo cominciano con le colonie del Sedicesimo secolo permettendo, attraverso “relazioni di scambio ineguali”, ai paesi europei di diventare grandi potenze imperiali che hanno fondato su l’oro e l’argento delle miniere delle Americhe, la gomma, il legname, la torba il loro commercio e la loro industrializzazione, ora questi “scambi ineguali” sono molto più mescolati, intrecciati e globalmente connessi. Giuseppe Orlandini e Daniele Valisena in un saggio di Trame dal titolo “Estrattivismi” raccontano così la questione:
Basti pensare ai legami di ferro che connettono lo sfruttamento delle miniere di Carajas e Minas Gerais in Brasile, e il suo impatto sulla vita delle popolazioni locali, ai cittadini di Taranto e alla loro asfissia sotto le ciminiere dell’Ilva. Concentrarsi esclusivamente sui luoghi in cui vengono estratti minerali, combustibili fossili e beni naturali rischia di ignorare le complesse interrelazioni che comprendono i luoghi in cui le risorse vengono estratte, elaborate, consumate. Miniere di coltan, litio e ferro in Africa e America Latina; smartphone e dispositivi elettronici prodotti nelle fabbriche cinesi di centinaia di migliaia di lavoratori; l’ossatura di acciaio e cemento dei grattacieli delle nuove metropoli globali; gli scafi e i container delle flotte commerciali che hanno fatto del Pacifico il principale corridoio infrastrutturale del commercio mondiale; ma anche quel tessuto impercettibile di abitudini della vita quotidiana nelle città del Ventunesimo secolo fatto di connessioni a internet, mail, piattaforme digitali, bit, data mining, blockchain, compone frammenti di un modello socio-economico che tracima la mera spoliazione di risorse e si disperde in spazi di estrazione che includono infrastrutture logistiche, oleodotti, gasdotti, corridoi transoceanici, reti della finanza, geografie del lavoro e catastrofi ambientali.
Così le città in cui viviamo vengono viste dall’ecologia politica come immensi digestori di risorse ambientali: è lì che l’enorme flusso di materie prime, lavorazioni, commerci confluiscono e vengono “rimessi in circolazione sotto forma di inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, dei corpi dei cittadini e degli ecosistemi limitrofi”.
Agire locale
Tutto è connesso: colonialismo, patriarcato, sessissimo, razzismo e anche miniere di litio sudamericane, fabbriche cinesi, Ilva di Taranto, grandi metropoli green e smart. Questa è l’angolazione proposta dall’ecologia politica per decifrare il presente. Ma dove prendere i racconti e le idee per riuscire a immaginare un futuro diverso? Trame propone esempi, sparsi per il momento, di pratiche di territorio che proprio nei territori oppressi hanno visto l’insorgere di comunità alternative e basate sul mutuo aiuto.
La risposta alla Tap e alla Rete Adriatica (un gasdotto e un metanodotto costruiti fra Puglia e Abruzzo in zone altamente sismiche e già fragili) è stato un coinvolgimento sempre più attivo della popolazione: “In Salento per, per mesi, attiviste, casalinghe, pescatori, studenti, sindaci, antagoniste, anziani e bambini occupano le strade dove la Tap vuole far passare i mezzi” fino a creare un presidio permanente, e sviluppando una consapevolezza e conoscenza delle fragilità del proprio territorio ma anche dei rischi e delle ingiustizie di un sistema che, come si diceva prima, privatizza i profitti ma socializza i rischi, concentrandoli però sulle comunità e i territori-rifiuto.
Intorno a Gela negli ultimi sessant’anni il prelievo del greggio da parte di Eni si è accompagnato alla distruzione di 5 ettari di macchia mediterranea, la disgregazione di tutta l’economia locale precedente basata su agricoltura familiare e pesca ora sostituita con monoculture, e l’inquinamento di terra, acqua e aria. Se una parte della comunità resta convinta che il progresso in questi termini sia l’unica chiave di sviluppo, un’altra parte, resa consapevole dall’altissimo tasso di morti per tumore, ha cominciato a organizzarsi, chiedere giustizia ambientale, immaginare di “costruire percorsi in economia alternativa”. Allo stesso modo a Taranto comincia lentamente a farsi strada un “rifiuto della monocultura dell’acciaio che per la prima volta ha potuto essere espresso apertamente nella sfera pubblica, raccogliere consensi, entrare nel dibattito pubblico; e ciò ha portato all’emergere di proposte alternative”.
Un discorso apparentemente astratto come la definizione di un’epoca è in realtà completamente intrecciato con pratiche, lotte e scelte concrete e territoriali.
Nel quartiere a prevalenza afroamericana, capoverdiana e asiatica di Dudley, a Boston, schiacciato per decenni dall’inquinamento delle vicine aziende, la sensibilizzazione della popolazione locale ha portato a progetti di orti comunitari, agricoltura urbana, raccolta riciclo e trasformazione dei rifiuti organici in compost, collaborazione con università e organizzazioni ambientaliste. Ha preso piede così un’economia locale e circolare in cui i rifiuti organici di ristoranti e mense diventano compost che va a nutrire gli orti del quartiere i cui prodotti vengono poi utilizzati da quegli stessi ristoranti.
Le colline ricoperte di favelas di Rio de Janeiro, in seguito a decenni di deforestazione, sono diventate sempre più fragili di fronte a temporali sempre più frequenti. Già negli anni Ottanta e Novanta era chiaro agli abitanti delle favelas del morro da Babilônia che le frane erano un serio pericolo per la comunità: ed è così che nacque una cooperativa impegnata nel rimboschimento che ha avuto risultati “impressionanti. Una giovane foresta ora fiorisce, la biodiversità nativa è tornata e la comunità ha rimodellato la propria identità intorno a questa esperienza”, non affidandosi a volubili fondi e decisioni prese dalle istituzioni ma cercando alleanze con università e associazioni limitrofe. E non solo:
Nel processo per assicurarsi alleanze, reddito, e un impegno delle istituzioni nel morro da Babilônia, gli abitanti della favela hanno riaffermato il loro legame con il luogo in vivono e con il loro partner non umani: il suolo, gli alberi, i fiori, i funghi, la foresta, i boa e gli uistitì, tra tanti altri. Oggi anche chi ha studiato poco può insegnare ai visitatori l’impatto della foresta sul microclima locale. (…) Nella loro alleanza multispecie con la foresta, i residenti della favela rafforzano la loro domanda di legittimità e piena cittadinanza – il loro diritto alla città in un mondo che cambia.
Questi sono alcuni casi di racconti che possono influenzare pratiche e immaginari. Anche l’esperienza di Longoni e SoulFood nei campi della Vettabbia a Milano può essere un esempio: progetti dal basso in cui terreni per decenni lasciati in stato di degrado vengono restituiti alla comunità, coltivati per fare il pane che viene venduto in città, e che potrebbero essere ripuliti attraverso fitoterapia dai metalli pesanti che vi si erano sedimentati, il tutto con il coinvolgimento attivo dei cittadini che riscoprono la vocazione agricola di Milano.
Tutte queste sono esperienze replicabili, ogni volta in maniera diversa, a seconda delle particolarità del territorio, ma che insieme fondano una rete di possibilità alternative. Un discorso macroscopico e apparentemente astratto come la definizione di un’epoca è in realtà completamente intrecciato con pratiche, lotte e scelte concrete e territoriali. Libri come questo, tanto quanto la fascinazione sempre più diffusa per il regno animale, per il modo di pensare dei polpi o funghi, sono nuove opportunità, spie di una rivoluzione di pensiero già in atto e che avrà sempre più bisogno del sostegno di immaginazione e narrazioni.