T orpedone trapiantati è un romanzo gioioso. Si ricollega idealmente a un altro riuscito romanzo di Abate, l’intenso Chiedo scusa, e a Mia madre e altre catastrofi. Dalla rinascita, da quella seconda possibilità – trapianto – che non a tutti è concessa, qui la vita si fa vera, gioiosa e piena, si fa risata complice e affettuosa, ché solo così può essere l’esistenza di chi ha ottenuto il privilegio di nascere per la seconda volta.
Le parole hanno preso corpo e, mentre i medici tagliavano, drenavano, pompavano, cauterizzavano, mentre io lottavo per rinascere, quelle parole scritte in un libro ancora da pubblicare invadevano la sala operatoria come una voce fuoricampo.Era il racconto di Cinzia. Il racconto del giorno in cui morí al mio posto.
«Lei come ogni mattina si è alzata presto…»
Ho sognato quelle parole poi finite in un mio romanzo e pubblicate con cadenza fissa per ricordare su un social network la mia donatrice.
«… ha baciato il marito. Lui le ha farfugliato ciao, amore…»
L’addio a Cinzia e a tutti quelli come lei, che hanno voluto che dalla loro morte rinascesse la vita.
Lo spunto è la gita annuale organizzata dall’associazione sarda trapiantati della quale il protagonista fa parte. Il torpedone attraversa la Sardegna, e in realtà la destinazione non è importante in sé – per quanto i luoghi descritti siano alcuni tra i più suggestivi di questa terra carica di storia, lo sono invece i personaggi e il loro agire. Perché questo è un romanzo corale che chiama a raccolta tutte le maschere della commedia dell’arte, e va oltre, pescando a piene mani in quel bacino ricchissimo che è il nostro quotidiano.
E così, accanto al furbo e al maneggione, al giullare, all’innamorata, al presuntuoso e al pasticcione, convivono l’indimenticabile personaggio del presidente, leader carismatico di questa banda di scalmanati, il traditore carogna, la granitica madre – chi di noi non ha una mamma che almeno in una situazione si è comportata come quella di Checco, il protagonista, facendoci sentire in errore, inopportuni e noiosi –, e la moglie amorevole e comprensiva (e che qui è giusta, complice, severa quanto basta, all’occorrenza).
– Come sono stati questi dieci anni, Checco?
– Bellissimi. Ho vissuto.
– Sei molto cambiato.
– Cosí dicono. E in fondo ne sono convinto anche io. – In cosa ti senti diverso?
– Mi sono liberato della rabbia. Quarantun anni di malattia mi avevano fatto diventare l’uomo che non volevo essere. Ora sono ripartito e mi sforzo di piú.
– Per cosa ti sforzi di piú?
– Per mettere da parte odio e rancore, invidia e rivalità. Si vive meglio, te lo assicuro.
– E ti riesce?
– No. Onestamente non sempre, ma mi applico.
– Che altro?
– Mi sforzo nel comprendere chi mi circonda. Sempre. Nel provare ad amarli tutti.
– E ti riesce?
– Sí… cioè no, non sempre, dài, non farmi ridere. La verità? Per niente. Tutti no.
– Infatti, non ti compete.
Il ritmo della scrittura di Abate è incalzante, non conosce cedimenti stilistici né tantomeno narrativi. Tranelli, equivoci, tempi comici, lo scrittore non dà tregua al lettore e lo accompagna fino all’ultima pagina. Abate mette in scena la vita, che per chi ha dovuto sopportare il calvario della malattia, è attesa, dolore, privazione, lutto, e per chi ha ricevuto per la seconda volta il dono più grande, è consapevolezza di avere avuto un’altra, preziosa possibilità.
Lei mi guarda con quegli occhi color castagna, profondi, giovani, circondati dalle onde dei suoi lunghi capelli. Dischiude le labbra carnose e si lascia andare a un sospiro.– Ti sei preso una bella responsabilità, Checco. Lo dovevi mettere nel conto quando hai firmato il consenso a farti trapiantare.
Per questo, rinascere, come è rinato Checco, come sono rinati i suoi compagni, significa avere il dovere di essere felici.