Fabio Severo scrive di fotografia, cinema, cultura, per la carta e per il web, e ha curato per anni il blog di fotografia contemporanea www.hippolytebayard.com. È autore insieme a Francesco Pacifico del podcast Parchi e Monumenti. Una storia orale della fotografia.
Parlo molto con me stesso. Una sera, mentre stavo fotografando all’American Museum of Natural History, ho avuto una sorta di allucinazione. Il dialogo interiore che mi ha portato alla visione si è svolto pressappoco così: ‘Immagina se fotografassi un intero film in un solo fotogramma.’ E la risposta: ‘Avresti uno schermo fatto di sola luce.’ Cominciai subito a sperimentare per poter realizzare questa mia visione: un pomeriggio entrai in un cinema dell’East Village con una macchina fotografica di grande formato. Aprii l’otturatore appena cominciò il film, e quando due ore dopo il film finì, lo chiusi. Sviluppai la pellicola la sera stessa, e la visione mi esplose davanti agli occhi.
Così il fotografo Hiroshi Sugimoto racconta l’antefatto di Theaters, la sua serie di vedute in bianco e nero di sale cinematografiche cominciata nel 1976, lavoro che Damiani Editore e Matsumoto Editions hanno appena pubblicato in una nuova versione arricchita da opere inedite realizzate da Sugimoto negli ultimi anni. Il volume fa parte di una serie iniziata nel 2014, con cui i due editori stanno ripubblicando alcuni tra i principali lavori di Sugimoto in delle nuove versioni rivisitate dall’autore stesso. Nelle centotrenta immagini che compongono il libro vediamo cinema degli anni Venti, platee enormi decorate da affreschi, stucchi, pesanti quinte a impreziosire lo schermo; col tempo queste lasciano il posto agli spazi molto più essenziali dei cinema moderni, cubi dalle pareti lisce, disegnati esclusivamente in base alla loro funzione, le platee sempre meno capienti. Le ultime fotografie mostrano una serie di teatri italiani del Seicento e Settecento, seguiti da un gruppo di vecchi cinema americani abbandonati, la grandeur del passato ancora percepibile nelle volte sfondate e negli intonaci corrosi.
Il buio delle sale viene progressivamente illuminato dal riflesso della proiezione, muovendo lo sguardo dell’osservatore dal bianco dello schermo verso gli angoli più debolmente illuminati, dove si rivelano dettagli appena percepibili nella semioscurità. Sugimoto esprime il tempo lungo della proiezione tramite la ricchezza della transizione tonale dalla luce al buio, riuscendo a rendere il senso della durata attraverso la modulazione dei grigi delle sue fotografie. Tempo che si esprime attraverso la percezione dello spazio: Time Exposed, come si intitolava un suo volume antologico di qualche anno fa. Esposto nel senso di esposizione fotografica alla luce, ma anche nel senso di rivelato, manifestato.
Visto tutto insieme nei suoi quattro decenni di vita, il lavoro sembra voler raccontare una storia sociale della visione cinematografica, gli antichi fasti messi a confronto con il declino di oggi, la perdita del senso della visione collettiva; ma al di là del corollario documentario, Sugimoto ha sempre cercato di mettere in relazione l’atto del guardare e quello del rappresentare, e il modo in cui il tempo agisce su entrambi. Il senso profondo di Theaters si coglie accostandolo a Seascapes, l’opera sorella che Sugimoto ha portato avanti per altrettanto tempo fotografando mari e oceani in tutto il mondo:
Nel 1980, una notte a New York durante uno dei miei abituali dialoghi interni mi sono chiesto: ‘È possibile oggi osservare una scena allo stesso modo di un uomo primitivo?’ Le immagini che mi sono venute in mente erano quelle del Monte Fuji e delle cascate di Nachi in epoche passate… Sfortunatamente la topografia cambia, ma per quanto la terra muti continuamente il suo aspetto, il mare, ho pensato, è immutabile. Così è cominciato il mio viaggio indietro nel tempo, verso gli antichi mari del mondo.
Seascapes è composto da una lunghissima serie di vedute, divise equamente tra acqua e cielo, la linea dell’orizzonte collocata sempre alla stessa identica altezza. Mari di notte, di giorno, persi in una nebbia fittissima oppure rivelati da un’aria tersa in tutte le infinite increspature della superficie. A volte l’orizzonte è una linea disegnata, altre una fascia confusa di grigio che lega acqua e cielo in modo impercettibile. Ci sono oscurità che fanno perdere la distinzione tra l’una e l’altro, e cieli così chiari che a confronto il mare appare nero. Come gli schermi che occupano il centro delle fotografie di Theaters, anche in Seascapes ci troviamo di fronte a immagini di superfici uniformi, fotografie che appaiono come una serie di variazioni sottili su un unico tema.
Molta fotografia contemporanea è caratterizzata da forte serialità, con soggetti simili fotografati con variazioni minime. Spesso lo stratagemma è utilizzato per suggerire la monotonia di certi luoghi, il paradosso di forme sgraziate che si ripetono all’infinito nelle città in cui viviamo. In Sugimoto lo scopo è opposto: la serialità della composizione non vuole indurre un senso di saturazione, al contrario prepara a cogliere le differenze minime che creano una visione differente per ognuna delle scene fotografate. La costanza della scena inquadrata serve come luogo per ospitare la sensibilità dell’osservatore, un ambiente sereno che permetta al suo sguardo di soffermarsi, di attendere, di cogliere la delicatezza del contenuto della fotografia, che più la si guarda più rivela la sua ricchezza.
Tempo della scena fotografata, tempo dello sguardo che osserva; permanenza delle cose, permanenza della visione: in Sugimoto il tempo è sempre al centro della ricerca, interpretato ora come durata, ora come mortalità, caducità. In Praise of Shadows è una serie di fotografie che ritraggono la vita di una candela, rappresentata come una fessura di luce che squarcia in verticale un fondo nero; Architecture celebra il modernismo architettonico con immagini di celebri edifici sfocati quasi fino a farli sparire. Lo scopo di Sugimoto era recuperare l’idea iniziale con cui gli architetti hanno creato i loro progetti: “Fotografata in questo modo, la bella architettura rivela la sua forma scultorea. Quella cattiva semplicemente svanisce.”
“Lo scrittore giapponese Jun’ichiro Tanizaki disprezzava la ‘violenza’ della luce artificiale introdotta dalla civiltà moderna”, ha scritto Sugimoto a proposito di In Praise of Shadows. “Io stesso sono un anacronista: piuttosto che vivere sulla cresta del contemporaneo, mi sento più a mio agio in un passato lontano.” Sugimoto è un fotografo inattuale, espressione di una cerchia sempre più ristretta di artisti che realizzano le proprie opere in modo esclusivamente analogico, con pellicole e camera oscura, e con un processo creativo integrato, in cui l’artista è autore di ogni fase creativa, dallo scatto alla stampa finale. Promotore di un’immagine assolutamente fisica in un’epoca in cui la smaterializzazione della fotografia appare inarrestabile, Sugimoto è tra i pochi artisti a intendere le fotografie come opere nel senso più classico del termine, come fossero pezzi unici. Le sue sale cinematografiche, come i suoi mari, possono essere percepiti pienamente solo nella loro esistenza materiale, stampati sulle pagine di un libro o guardati esposti a una parete. Qualsiasi altra forma di fruizione non è in grado di restituire la complessità delle sue stampe, che trasferite su uno schermo digitale vengono private di tutta la vita che le popola. Come dei coralli, tanto fragili quanto complessi, possono sopravvivere solo nel loro habitat naturale.
“Quando la luce brilla, le ombre prendono vita”, scrive Sugimoto nell’introduzione alla nuova edizione di Theaters. “L’ombra è il calco naturale per le forme che ombra non sono, e dà forma visibile alle cose. Con il loro carico ombroso, queste forme visibili sono le portavoci dell’esistenza”. La fotografia di Sugimoto è votata a dare vita all’impalpabile, attraverso un controllo della forma ottenibile soltanto tramite un’altissima definizione fotografica, ma un’alta definizione che viene dal passato. Portatore di un linguaggio giunto alla sua perfezione ormai tanto tempo fa, Sugimoto tiene in vita una fotografia in via d’estinzione.
“Quell’immagine era qualcosa che non esisteva nel mondo reale, né io avevo mai visto prima”, scrive adesso Sugimoto dei suoi schermi luminosi, quarant’anni dopo la nascita di Theaters. “Chi l’aveva vista, dunque? La mia risposta: è quello che ha visto la macchina fotografica. Era l’immagine latente di un enorme accumulo di immagini latenti. L’eccesso di luce illuminava l’oscurità dell’ignoranza.”