

A lzarsi nel mezzo di una lezione e aprire una finestra perché nella stanza c’è poco ossigeno. Indossare un maglione pesante perché fuori gli alberi sono coperti di brina. Guardare il cielo e decidere, uscendo, di portare un ombrello. Sono tutte azioni quotidiane a cui raramente si presta attenzione, compiute più e più volte in modo semiautomatico. Tutte azioni in cui i gesti e le scelte rispondono a condizioni ambientali che, a loro volta, finiscono per essere date per scontate. Ma cosa succede quando queste condizioni cambiano? In che modo si reagisce a un ambiente in discesa libera verso catastrofi più o meno prevedibili su diversa scala? Clayton Page Aldern, in Se il tempo è matto… Come il cambiamento climatico cambia la nostra mente e il nostro corpo (2025), prova a rispondere a queste domande, investigando le dinamiche reattive dei sistemi cognitivi umani di fronte ad ambienti sempre più instabili.
Aldern si concentra sui complessi meccanismi biochimici che, con le temperature sempre più alte e l’aumento di sostanze inquinanti in ogni ecosistema della Terra, si trovano in mezzo a fuochi incrociati destinati a cambiare nel profondo il funzionamento dei corpi, e soprattutto dei cervelli umani. L’autore non guarda tanto alle finestre da aprire o agli strati di maglioni da sovrapporre, eppure alla luce della sua trattazione anche questi gesti assumono rilievo, se si pensa a quello che Aldern presenta col nome di “effetto ideomotorio”, per cui «la consapevolezza delle nostre azioni […] è sempre e solo una funzione di noi che osserviamo queste azioni», che sono piuttosto reazioni preconsce all’ambiente in cui siamo immersi. In altri termini, gran parte dei nostri scambi con lo spazio che ci circonda sono dettati da dinamiche cerebrali su cui non abbiamo un vero controllo, influenzate come sono dall’evoluzione, dal neurosviluppo e dall’accumulazione di esperienze nel corso della vita di ciascuno, più che da scelte deliberate.
È, questa, una visione tanto lineare quanto radicale, soprattutto per una cultura d’Occidente spesso intrisa di dualismi cartesiani – che Aldern mette in discussione sin dal prologo. La distinzione rigida tra umano e non-umano, e di conseguenza tra mente (come attributo squisitamente umano) e corpo (in quanto appendice animale del centro di controllo cerebrale), che molti discorsi ecocritici in ambito umanistico hanno provveduto a decostruire, tiene ancora meno quando a contestarla è la stessa scienza moderna a cui il cartesianesimo ha aperto la strada. Ogni individuo, umano e non, è influenzato da una costante dipendenza da ogni altro essere, tale per cui è sempre più difficile attribuire alla coscienza un libero arbitrio e un’agentività slegate dall’ecosistema circostante. Tradizioni filosofiche non-occidentali, come quelle induiste e buddiste, hanno da sempre considerato la cognizione (vijñāna) come impossibile al di fuori della correlazione tra oggetto sensibile e organo senziente, entrambi condizionanti e condizionati dall’esperienza dell’incontro. Aldern non interagisce con questi concetti, eppure la sua analisi delle strutture che producono cognizione, che a sua volta produce emozioni e quindi azioni dipendenti da una rete di scambi non riducibili alla sola dimensione umana, crea risonanze stimolanti tra neuroscienze e filosofie asiatiche.
Gran parte dei nostri scambi con lo spazio che ci circonda sono dettati da dinamiche cerebrali su cui non abbiamo un vero controllo, influenzate come sono dall’evoluzione, dal neurosviluppo e dall’accumulazione di esperienze.
Mentre i tentacoli della proliferazione urbana si estendono a più non posso e gli ecosistemi complessi cedono il posto a cemento e prati, i rapporti intricati tra specie si trovano a essere perturbati, con conseguenze imprevedibili. Le foreste vengono abbattute; le praterie vengono rasate per fare spazio ai campi agricoli e all’espansione urbana; e la miriade di creature che abita in questi luoghi viene sfrattata dalla sua terra ancestrale. Animali grandi e piccoli sono costretti a vivere la loro esistenza ai margini, spinti sempre più in prossimità degli habitat umani. Questa prossimità forzata tra umani e fauna selvatica – questo mescolarsi di mondi – prepara la strada a un potenziale trasferimento di patogeni dagli animali agli esseri umani.
D’altro canto, la prospettiva interspecista rientra nel discorso di Aldern anche perché la comprensione delle malattie analizzate è stata spesso resa possibile da studi sui comportamenti e sulle fisiologie animali, a ulteriore dimostrazione di quanto arbitrario sia uno iato non poroso tra le varie specie. Il mondo vegetale non è escluso da questo quadro a tinte fosche, con malattie degenerative come Alzheimer e lytico-bodig che aumentano in casi di esposizione cronica ai cianobatteri (comunemente chiamati alghe azzurre), di cui la “Grande accelerazione” ha assicurato il mantenimento dell’habitat prediletto: acque dolci e salate in cui abbondino calore, raggi solari e nutrienti, come quelli degli scarichi agricoli.
Le disuguaglianze economiche e sociali verranno amplificate da un mondo sempre più caldo: dalle migrazioni climatiche, a un accesso ai vaccini sempre più elitario, fino a un’aumentata probabilità di disturbi neuropsichiatrici nei feti esposti a caldi estremi.
Le disuguaglianze economiche e sociali verranno dunque amplificate da un mondo sempre più caldo: Aldern parla delle migrazioni climatiche e di un accesso ai vaccini sempre più elitario, passando per i disturbi neuropsichiatrici più probabili nei feti esposti a caldi estremi, fino agli sviluppi cerebrali carenti di neonati in condizioni di disidratazione e scarsità di nutrienti. Ma non è tutto, perché i fattori ambientali agirebbero anche da moltiplicatori delle predisposizioni genetiche – e non solo da concause, come si è a lungo ritenuto – rendendo più che mai irrinunciabile una comprensione olistica della neurodegenerazione.
Molte sono le condizioni patologiche intorno a cui ruota il saggio, descrivendone con chiarezza meccanismi di non sempre immediata comprensione. Tra queste, l’amnesia innescata da un dinamismo ambientale troppo veloce, per cui il cambiamento rapido dell’ambiente circostante provocherebbe una dimenticanza attiva a protezione del cervello, cui non gioverebbe immagazzinare dati su spazi comunque destinati a modificarsi. Oppure le crisi epilettiche determinate dal sovraeccitamento del cervello per via del caldo, responsabile anche della difficoltà delle cellule cerebrali a metabolizzare il glucosio e di un’inibizione della trasmissione di serotonina (dedicato a tutti coloro che pensano che qualche grado in più non faccia poi così male, se permette di andare in spiaggia da marzo a ottobre).
Ad ogni stato di malessere è tuttavia associata una prospettiva di speranza. Perché se c’è una qualità che distingue l’essere umano dagli altri animali è la capacità di adattamento alle condizioni circostanti nel corso di un solo arco vitale, dunque in maniera non vincolata all’evoluzione su più generazioni – a patto che i pericoli vengano riconosciuti nella loro complessità, e come tali affrontati. Si può quindi far fronte alle problematiche comportamentali e cognitive legate alle alte temperature attraverso l’architettura rigenerativa e bioclimatica. Si può praticare la compassione, per gli altri e per sé stessi, cercando di identificare e minimizzare i trigger dell’impulsività da caldo. Ci si può – anzi, ci si deve – dedicare all’attivismo, alla giustizia ambientale e alla richiesta di regolamentazioni politiche per frenare i livelli di neurotossine presenti nell’aria, nelle acque e nel suolo. Soprattutto, si può trovare rifugio nelle storie.
Le monocolture del capitalismo agroindustriale si confondono allora con le monoculture che il cambiamento del clima contribuisce a rafforzare, laddove le piccole comunità linguistiche su isole e coste sono più soggette alla perdita di paesaggio, e quindi di vocabolario.
quando siamo immersi a fondo in una storia, i nostri cervelli esibiscono un fenomeno noto come neural coupling o accoppiamento neuronale. L’idea è simile a un’armonia – e a un genere profondo di empatia –, una eco neurale che sfoca il confine tra chi racconta e chi ascolta […].
In altre parole, raccontare storie è più che un semplice atto comunicativo. È un processo complesso e dinamico che coinvolge i nostri cervelli in modi ricchi e variegati […]. Per come lo spiega Joyner, le storie rafforzano la nostra unione, la nostra umanità condivisa e la nostra capacità di trascendere i confini delle nostre esperienze individuali. Ci ricordano che siamo tutti, a nostro modo, sia la storia sia il cantastorie.
La lingua stessa si fa carico di queste connessioni tra cognizione e ambiente esterno. Le monocolture del capitalismo agroindustriale si confondono allora con le monoculture che il cambiamento del clima contribuisce a rafforzare, laddove le piccole comunità linguistiche su isole e coste sono più soggette alla perdita di paesaggio, e quindi di vocabolario. E le «tempeste di cortisolo» prodotte in chi è costretto alla migrazione climatica (con annesso PTSD, Post-Traumatic Stress Disorder) contribuiscono a dimostrare che il cambiamento climatico non è solo esterno, bensì abita i nostri cervelli, i nostri comportamenti e i processi decisionali. In questa connessione di tutto col tutto – della lingua con la scienza, delle narrazioni con la medicina, dei processi biochimici con quelli sociopolitici – è inevitabile che l’unica strada possibile sia quella di un’empatia «intergenerazionale […] transpecista, intercontinentale e geologica» che, al netto della sana paura che il libro infonde, Aldern pratica con successo.