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scito lo scorso giugno per i tipi della londinese Verso Books, Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana è un saggio firmato da Adam Greenfield, che arriva in queste settimane in Italia, edito da Einaudi. Obiettivo dell’autore, Senior Urban Fellow presso il LSE Cities Centre della London School of Economics, è condurre una ricognizione delle tecnologie contemporanee più avanzate e dibattute, per mostrarne l’intrinseco potenziale di trasformazione delle nostre vite. Se leggendo vi siete figurati l’ennesimo peana sulle magnifiche e progressive sorti dell’attitudine disruptive tanto cara ai cantori della Silicon Valley, potete tirare un respiro di sollievo: nelle pagine di Tecnologie radicali non troverete traccia di quella prosa enfatica e immaginifica con cui si tende a dipingere l’innovazione tecnologica come un processo liscio e privo di ombre, destinato a migliorare le nostre vite. Al contrario, quella di Greenfield è una lettura che si concentra sulle ombre e i costi celati di questa rivoluzione.
Radicali sono dunque quelle tecnologie che dapprima hanno colonizzato il nostro spazio di vita e che, ora che l’occupazione è terminata, mirano a riscrivere e orientare il modo in cui prendiamo le decisioni che determineranno il futuro in cui viviamo. La loro radicalità è dunque declinata nei modi in cui queste tecnologie determinano il nostro rapporto con la realtà e il mondo, formattandolo in base agli usi che esse abilitano. Nell’introduzione del saggio, intitolata Parigi anni zero, Greenfield tratteggia uno scenario di vita quotidiana in cui le tecnologie radicali hanno già dispiegato pienamente il loro potenziale di trasformazione. Accade così che una serie di scene di vita quotidiana della grande metropoli, apparentemente scollegate tra loro, finiscano per rivelare un tratto che le accomuna tutte: è la traccia di dati prodotta dalle interazioni e dagli scambi mediati da dispositivi digitali, che le persone usano ormai abitualmente come interfaccia per la gran parte delle loro azioni quotidiane. Ed è così che
nella Ville Lumière, un centinaio di milioni di dispositivi in connessione risuonano attraverso i cavi e l’etere. Delle onde che increspano la superficie del tessuto urbano, a qualunque scala, pochissime sfuggono alla raffica di dati binari che le cattura e le rappresenta. In essi sono cifrati miliardi di scelte singolari, milioni di vite in movimento, i cicli di intere economie, ma anche – sul bordo estremo della percezione – i segni e le tracce del lento svolgersi dell’impero.
Il viaggio delle tecnologie radicali
Per arrivare all’intelligenza artificiale, ultima tappa della sua esplorazione, Greenfield conduce il lettore attraverso un percorso che comprende l’internet degli oggetti e la fabbricazione digitale, la blockchain e le criptovalute, la realtà aumentata e quella virtuale, l’automazione e l’apprendimento automatico; il suo punto di partenza è lo smartphone, l’emblema delle tecnologie radicali, secondo l’autore. Gli smartphone sono artefatti che firmano la nostra epoca, oggetti mutevoli dalla portata universale, che si sono resi mediatori di un elevatissimo numero di gesti quotidiani. Gli smartphone insomma sono ben più di un semplice oggetto, racchiudono tutta una varietà di antenne e sensori che permettono loro di registrare un vasto range di eventi collegato alla nostra esistenza. Dalla posizione geografica in cui ci troviamo all’ora esatta del giorno in cui compiamo una certa azione, dalle nostre transazioni economiche alle preferenze di navigazione online, dalle conversazioni al nostro stato di salute, gli smartphone rendono possibile molte azioni, salvo poi usarle per raccogliere dati rivendibili a terzi.
Le tecnologie radicali, quindi, sono quelle che abilitano la produzione inconsapevole di dati da parte degli utenti, un processo, la datificazione della vita quotidiana, funzionale all’ottimizzazione e alla razionalizzazione delle nostre esistenze. La dimensione narrativa entro cui esse si muovono è infatti quella che dipinge una società in cui tutte le decisioni sono prese da sistemi tecnologici capaci di selezionare le opzioni migliori, tra le molte possibili. Sistemi che basano le loro scelte sull’analisi di una quantità sterminata di dati prodotti, come abbiamo visto, tanto volontariamente quanto inconsapevolmente da noi utenti connessi a dispositivi digitali. A emergere da questa connessione, è una società che non ha più bisogno dei tradizionali soggetti deputati all’attività decisionale, in quanto questa è stata demandata a dispositivi tecnologici capaci di farlo al posto loro.
Come fa notare Greenfield, che in questo si avvicina molto alle posizioni di un altro critico della tecnologia come Evgenij Morozov, il problema è che il meccanismo di produzione, raccolta e analisi dei dati su cui si basa la presunta oggettività di tutto questo apparato decisionale è tutt’altro che oggettivo. La filiera di produzione del dato è infatti un artefatto umano e, in quanto tale, è soggetta a pregiudizi, limitazioni e bias culturali che ne caratterizzano anche gli output. L’idea che il dato possa rappresentare l’unità di base di una razionalità tecnologica appare così insostenibile. La stessa parola “dato” si mostra come
un sottoinsieme degli infiniti aspetti del mondo che sono stati catturati da uno strumento o da un processo di misurazione (in effetti, la parola francese per ‘sensore’, capteur, rispecchia direttamente questa considerazione e alcuni dei piú sensibili osservatori della tecnologia di trattamento dell’informazione hanno sostenuto che in inglese la parola «capta» sarebbe un modo piú accurato di descrivere una cosa che viene trattenuta).
Ecco perché Greenfield si sforza moltissimo per dimostrare l’esistenza di grossi limiti in queste tecnologie. Per l’autore, un esempio lampante è costituito dai veicoli a guida autonoma: presentata come a un passo dal diventare lo standard per il trasporto mondiale, questa categoria di veicoli presenta invece una serie di criticità tecnologiche ed etiche che, secondo Greenfield, rendono improbabile una sua adozione su larga scala. Ma allora per quale motivo il discorso sui veicoli a guida autonoma tende a ignorare questi elementi di complessità? Secondo lo studioso il discorso sulle tecnologie radicali ha come obiettivo indurre le persone a credere nella loro capacità trasformativa, per nascondere dietro l’enfasi rivoluzionaria sia i costi che la loro diffusione capillare determina per le persone e la società, sia i soggetti che da essa ne traggono i veri benefici, intesi come capacità di controllo e proprietà dei mezzi di produzione, ovvero, ancora il grande business della raccolta e analisi dei dati.