E dna O’Brien torna al romanzo dopo dieci anni, e lo fa con quello che Philip Roth ha dichiarato il suo capolavoro: Tante piccole sedie rosse. Ambientato in un’Irlanda immaginaria, il nuovo libro dell’autrice di Ragazze di campagna inizia con l’arrivo di “una specie di santone con la barba e i capelli bianchi e un lungo cappotto nero” in “un luogo gelido e sperduto che si spaccia per cittadina e di nome fa Cloonoila”. Con lui ha un biglietto da visita, dove c’è scritto: Dr. Vladimir Dragan, guaritore e sessuologo. Vlad, che nell’atmosfera da fiaba che permea i primi capitoli si fa chiamare anche col diminutivo “Vuk”, lupo, trova nella cittadina “un’innocenza primitiva, oramai estranea a quasi tutti i luoghi del mondo”, e propone alla sonnolenta, annoiata, comunità cure a base di massaggi che prevedono l’uso di erbe, spezie e pietre bollenti da poggiare su diverse parti del corpo, indossando solo un paio di mutandine di carta e ascoltando musica sacra.
Gli abitanti di Cloonoila sono turbati, impauriti, affascinati. C’è chi lo paragona a Rasputin, chi lo crede “una specie di genio della truffa, o magari un bigamo”, altri che sperano “chissà che non porti un po’ di romanticismo nelle nostre vite”. Lo porterà. Perché se c’è una cosa che il dottor Dragan sa fare meglio di tutte è raccontare, fino ad inventare la sua identità. E in una cittadina dove il personaggio più rilevante sul quotidiano locale è una suora famosa per la sua marmellata di zucca e zenzero, gli abitanti hanno un estremo bisogno di storie.
Il modello che Edna O’Brien usa per creare il suo attraente affabulatore è quello di Radovan Karadžić, comandante dell’esercito serbo-bosniaco durante la guerra dei Balcani, vissuto in clandestinità e condannato dall’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità. Le Tante piccole sedie rosse sono le 643 sedie rosse delle 11.541 poste al centro di Sarajevo nel 2012 per commemorare i bambini uccisi dai cecchini e dalle bombe. Ma la O’Brien non vuole raccontare la vita di un impostore che si spaccia per un mistico, e nemmeno fare un romanzo storico. La vera protagonista di questa storia, dove la voce narrante si reinventa continuamente con una grande, impercettibile, maestria – passando all’interno di uno stesso capitolo dalla prima alla terza persona, dai sogni ai soliloqui – è una donna, Fidelma. A presentarcela è il marito, Jack.
La prima volta che ho visto Fidelma eravamo in un orto, una ragazzina che cominciava appena a maturare, con una massa di capelli neri e una pelle bianchissima. Il viso e i lineamenti che si diceva discendessero dai cavalieri arrivati con l’Invincibile Armata. Era con la sua amica Moira, raccoglievano lamponi dai rami. Questo nella grande casa dove giocavo a tennis con Aubrey figlio, e le due ragazzine lì per lì ci ignorarono. Chiesi a Fidelma cosa faceva e lei disse che lavorava da un’estetista, ma che era una cosa temporanea. Fu Moira a vuotare il sacco, a dire che Fidelma scriveva poesie e sperava un giorno di diventare poetessa. La sua timidezza era commovente. Non faceva la timida, lo era, si teneva in disparte come se nemmeno ci fossimo. Le scrissi e lei sorprendentemente mi rispose, così la nostra fu un’amicizia epistolare finché non presi il coraggio a due mani e chiesi ai suoi genitori se potevo uscire con lei. Ci vedevamo per lo più la domenica pomeriggio, facevamo chilometri a piedi, ci inerpicavamo su per le colline, cercavamo le pervinche fra le rocce e dopo prendevamo il tè nel bar di qualche paesino dove nessuno ci conosceva. Fu molto difficile convincerla ad aprirsi. Parlava a singhiozzo, com’è tipico dei timidi, ed era una ragazzina molto fiduciosa con una riservatezza innata. Se mi mostravo interessato a una poesia che aveva scritto, me la ficcava in tasca al momento di separarci, dicendo di non parlarne mai più.
Lei, che da bambina voleva diventare una poetessa, da grande è diventata la presidentessa del Club del libro di Cloonoila. Si è sposata con un uomo di vent’anni più vecchio che ha perso l’aura da “tenebroso Heathcliff”, ha aperto con lui una boutique presto andata in bancarotta e desidera disperatamente un figlio, tanto da immaginare di “tenerlo in braccio, di sentirne le prime urla sconsolate”. Brama un’esistenza diversa e più brillante: “la sua vita non cambiava di una virgola: sempre la stessa routine, la stessa smania e la stessa solitudine”. Se gli altri membri della comunità sfogano il loro bisogno di evasione divorando romanzi rosa, credendo nell’influsso benigno del fantasma di un marito, o convincendo gli altri di essere venuti in Irlanda per amore di Tolkien, Fidelma si innamora di Vlad per sentirsi “come in un racconto o in un mito”.
Philip Roth ha scritto: “Nessuno guarda mai se i miei personaggi femminili escono dal letto dei loro amanti meno fragili”, Fidelma uscirà dal letto dell’uomo che scoprirà essere il “boia Bosniaco”, più fragile e allo stesso tempo più forte, simile a quella quercia che appare in uno dei capitoli più riusciti del romanzo, “James”, “una quercia spaccata in due da un lampo, la corteccia nera e bruciacchiata, un albero che era morto eppure, disse lui, in una parte di sé viveva. Sul lato opposto i giovani ramoscelli coperti di foglie si estendevano in tutte le direzioni, uno scherzo della natura, morta su un lato e viva sull’altro, un motivo di speranza”.
Fidelma si ritroverà a Londra senza un soldo, per pagarsi una stanza farà la donna delle pulizie e lavorerà in un canile, vivendo in una metropoli dipinta dalla O’Brien come un vero e proprio rifugio per sopravvissuti: rifugiati, immigrati e vittime di violenze, tutti, compresa la protagonista, alla ricerca di una nuova casa dove “condividere le storie delle loro vite scassate”. In un romanzo che trabocca di riferimenti letterari, dove i personaggi hanno citazioni di Byron anche nelle lettere di referenze e in cui vengono citati scrittori quasi ad ogni pagina: dal poeta irlandese per eccellenza Yeats a, per fare solo un paio di nomi, Omero, Shakespeare, Goethe, Musil, e Keats, in un libro dove le storie “conquistano” e le favole sono “fondamentali”, la scrittrice 86enne ha il coraggio di dire, parlando per voce della sua protagonista, che la letteratura non basta, ci vuole anche la vita vera. Ed è vivendo che Fidelma troverà se stessa – e forse non è un caso che nell’ultima stanza dove abiterà, davanti a un piccolo scrittoio, Fidelma ritroverà, appena accennato, quasi nascosto tra le righe, il desiderio di scrivere.