L’
immaginario alpino si è depositato nella nostra cultura nel corso di due secoli a partire dalla metà del Settecento, quando ha cominciato a formarsi sospinto dalla tensione illuminista alla conoscenza scientifica e all’esplorazione degli spazi ignoti. A questo immaginario e alle prospettive che ha cristallizzato ci rivolgiamo ogni qual volta pensiamo alle Alpi e, per estensione, alla montagna di cui esse rappresentano il modello. Quando le guardiamo o ne parliamo lo facciamo attraverso lo sguardo che quell’immaginario ha contribuito a codificare e a quelle parole che, ancora oggi, sono le sole che abbiamo a disposizione per raccontare la montagna.
Considerato per secoli lo spazio vuoto, selvaggio e privo di ordine che si opponeva alla regolarità civilizzata della pianura, l’immaginario della catena alpina è stato “costruito” dalla cultura urbana europea che ne ha fatto una sorta di doppio nel quale specchiarsi. Spazio dell’incontaminato, del sacro e del selvaggio, regno del sublime ma anche luogo di purezza e autenticità morale e umana, playground accessibile a chiunque grazie alla tecnica, duro e crudele ambiente dove l’uomo mette alla prova i propri limiti per assurgere alla dimensione eroica della propria esistenza. Sono queste alcune delle immagini e dei dispositivi retorici più potenti che, come un velo, ammantano le Alpi accompagnando e nascondendo i processi di terraformazione e intervento sul paesaggio con cui l’uomo ne doma il carattere, addomesticandolo ai propri usi. Tuttavia, per quanto la dimensione immateriale conti nel definire le Alpi, tanto e forse molto di più della loro dimensione materiale, quest’ultima esiste e non può essere ignorata.
Sottoposte alla pressione esercitata dagli effetti sempre più evidenti del riscaldamento globale, le Alpi sono attraversate oggi da tensioni che ne stanno ridisegnando in modo radicale l’aspetto, dando vita a una dinamica che sta dissolvendo proprio quell’immaginario che, nel corso degli ultimi trecento anni, ci è servito a pensarle, guardarle e parlarne. A causa del costante aumento della temperatura della superficie terrestre, che sulle Alpi registra un passo molto più accelerato che a livello del mare, quello che siamo stati abituati a pensare come il regno dei ghiacciai e delle nevi perenni si sta trasformando in un paesaggio inedito, un paesaggio non ancora osservato, per descrivere il quale cominciamo a perdere quelle parole e quelle immagini che ci eravamo illusi di poter utilizzare per sempre.
Ritornare alla dimensione materiale delle Alpi può essere un modo per elaborare il lutto suscitato da questa perdita ma non in modo resiliente, sopravvivendo a esso senza modificare nulla, quanto piuttosto in modo “antifragile”, cambiando il nostro immaginario mentre impariamo ad adattarci alle conseguenze della trasformazione che stiamo attraversando. Sulle Alpi. Un viaggio sentimentale (2024) dello scrittore Daniele Zovi è un libro che può esserci di aiuto nell’orazione funebre che stiamo celebrando per l’immaginario alpino.
Pur non essendo orientato alla scoperta, nei suoi viaggi in montagna Zovi trova sempre qualcosa da riportare a casa e di cui, poi, poter scrivere.
In parte memoriale e in parte saggio, il libro è il resoconto di una serie di viaggi sulle Alpi, effettuati dall’autore nel corso della sua intera vita da guardia forestale, esploratore e divulgatore. Viaggi che, parafrasando leggermente il sottotitolo del libro, presentano una marcata sfumatura sentimentale. Viaggi dell’anima, dunque, ma anche della mente e, soprattutto, del corpo. “Quanti escursionisti e scalatori hanno raggiunto tutte le vette alpine, percorso le valli, scavalcato i crinali dedicando la vita a questa passione. Io non sono tra questi:”, confessa Zovi, “sono salito solo su alcune montagne, in solitudine o in compagnia, in ogni stagione, con gli scarponi, con gli sci o con i ramponi ai piedi”. È il corpo il mezzo che sceglie per condurre le sue incursioni nello spazio alpino, iscrivendo il suo lavoro nella tradizione di quella letteratura di cammino così amata dagli scrittori inglesi e ben testimoniata da un’antologia di inizio Novecento,
The footpath way, la cui traduzione è stata curata da
Wu Ming 2 (
La Via del sentiero) e che, almeno in parte, ha fatto da modello per alcuni lavori dei membri del collettivo a cui lo scrittore appartiene.
Libri come l’ottimo Point Lenana e Un viaggio che non promettiamo breve di Wu Ming 1 e i seminali Il sentiero luminoso e Il sentiero degli dei, entrambi firmati da Wu Ming 2, hanno infatti avuto il merito di ibridare la letteratura di cammino con spunti di critica sociale e politica, ricostruzione storica e innovazione degli immaginari. Elementi che, almeno in parte, si ritrovano anche nel racconto di Zovi, organizzato seguendo il criterio geografico della celebre filastrocca con cui, un tempo, si insegnavano ai bambini i nomi delle Alpi: “ma con gran pena le reca giù”.
Il suo viaggio sentimentale lungo questa catena montuosa, che unisce e divide il continente di cui si trova al cuore, inizia perciò sulle Alpi Marittime e si conclude su quelle Giulie, sviluppandosi così da ovest a est, come se volesse opporsi all’arco che il sole compie ogni giorno per illuminarle. Non è una ricerca, quella di Zovi, o almeno non lo è in termini programmatici, perché la sua scrittura è il risultato di una serie di stratificazioni che seguono più di una ragione. Eppure, pur non essendo orientato alla scoperta, Zovi trova sempre qualcosa da riportare a casa e di cui, poi, poter scrivere. Si tratta, conferma lui stesso, di “grandi emozioni, sottili definizioni, sfumature. Come ogni amore anche l’amore per la montagna è fatto di impegno, di sacrificio, di resistenza alla fatica e di gioie semplici e grandi. Scrivere di montagna mi consola, è un modo per capire e condividere quello che ho vissuto e soprattutto un atto di gratitudine verso tanta bellezza”.
Per condurre le sue incursioni nello spazio alpino, Zovi iscrive il suo lavoro nella tradizione di quella letteratura di cammino così amata dagli scrittori inglesi.
Camminando tra le Alpi, Zovi s’imbatte anzitutto nei selvatici: orsi, stambecchi, lupi e perfino la lince. Non ci sono mai stati così tanti animali selvatici sulle Alpi come ai giorni nostri e la loro presenza, ancora una volta, ci mette di fronte ai nostri limiti e alle nostre paure. A lungo infatti gli esseri umani, incapaci di rispettare i loro spazi, sono stati in lotta contro di essi. E, a mano a mano che andavano eliminandoli fisicamente dalla realtà che avrebbero dovuto condividere, hanno trasformato i selvatici nei protagonisti delle immagini che producevano per dare un senso allo spazio alpino, finendo per
relegarli nel proprio spazio mentale e ponendoli così a una rassicurante distanza di sicurezza.
I selvatici però sono tornati e, con loro, tensioni e timori mai davvero sopiti. Lo racconta la cronaca di questi anni, in cui la paura verso i selvatici torna a nutrire la violenza dell’uomo contro gli animali, illuminando ancora una volta l’incapacità di rinunciare al ruolo di padroni che abbiamo confezionato su misura delle nostre insicurezze di specie. Ma a ritornare dal rimosso dell’immaginario non è soltanto la fauna: sui sentieri che batte, Zovi non incontra infatti solo i selvatici. Anche la flora – piante e soprattutto alberi – torna a rivendicare il proprio spazio, proprio mentre l’uomo, autoespellendosi dallo spazio alpino, indietreggia verso la pianura, lasciando i boschi liberi di tornare ad abitare i luoghi che erano stati loro sottratti. “In Val Grande”, sulle Alpi Lepontine, racconta infatti Zovi, “per una sorta di desiderio di compensazione, l’abbandono viene esorcizzato dalla gente del posto e letto come la riconquista di una verginità naturale, la wilderness, appunto. Si lascia alla foresta quello in cui eccelle: avanzare”.
Ma se da una parte la foresta avanza, dall’altra parte la pianura sale e, spinte dall’aumento delle temperature, nuove colture come la vite s’inerpicano sui pendii, alzando lo sguardo verso quelle balze di cui stanno ridisegnando il profilo. In sintesi, ambiguità e tensioni di verso opposto attraversano oggi le Alpi: assediate dal turismo e da un’antropizzazione sempre più marcata di quei luoghi dedicati a coloro che ancora possono permettersi di esercitare il privilegio del viaggio di piacere e di scoperta e, allo stesso tempo, sempre meno popolate, mano a mano che declinano le economie di cui sono nutrite le loro genti.
In montagna, se da una parte la foresta avanza, dall’altra parte la pianura sale.
Così, in un mondo dove ogni esperienza avviene in modo sempre più scoperto all’insegna della programmazione e del controllo, alcuni degli incontri che Zovi racconta mantengono ancora inalterata quella dimensione di casualità e inaspettato che rende magica l’esperienza della relazione. È il caso del pastore Tono che, accompagnato da “un gregge di centinaia di pecore, alcune capre, due asini, tre cani”, appare agli occhi dell’autore “dal nulla, senza fare rumore, come generato dal vento, dalla tormenta di neve”.
Presenze ormai rare, quasi antiche, irreali come apparizioni, ma che ancora abitano le Alpi, testimoniando, con la loro sopravvivenza, mondi che si credevano ormai scomparsi, di cui restano solo poche tracce, testardamente isolate nelle vallate alpine. Vallate in cui gli abitanti conservano fino all’ultimo lingue che sono state capaci di attraversare il tempo. Sono le loro parole e le loro strutture a restituirci l’ombra di immagini sconfitte nello spazio alpino.
Oggi, mentre l’immaginario alpino si sfalda sotto i colpi implacabili del riscaldamento globale, possiamo iniziare a riconoscere come le immagini che gli davano sostanza siano state anche (soprattutto?) il frutto di una dinamica di appropriazione. Una dinamica di natura colonialista che, prima attraverso la cultura e poi attraverso la messa in forma del paesaggio, le ha imposte come unica dimensione possibile per fondare la propria egemonia e il proprio dominio sullo spazio alpino mentre lo andava scoprendo.
È per questo motivo che, se esistono margini per un progetto di decolonizzazione dello spazio alpino, questo non può che passare da un recupero e da un confronto con quelle antiche forme di vita e i loro modi di esistenza. È per riconoscerne le potenzialità e provare a guardarle con occhi nuovi, purificati, che è indispensabile tornare sulle Alpi, accompagnati da libri come quello di Zovi. Libri che, nella semplicità della loro scrittura, trovano la forza per aiutarci ad attraversare l’oscurità del cambiamento in cui siamo immersi, ricordandoci che, a volte, ritornare alla dimensione materiale della realtà che ci circonda è un balsamo che ci dona sollievo quando gli immaginari, tremolando, iniziano a dissolversi intorno a noi, lasciandoci soli a contemplare il disastro.