C osa vuol dire andare nella natura? Il filosofo e ricercatore Baptiste Morizot fa un tentativo di definire nuovamente lo spazio non umano che si staglia oltre la società urbana. Invece di considerare la natura uno spazio fatto solo di materia inerme, o la sede di una legge della giungla dove tutte le creature sono in competizione fra loro, Morizot si chiede se non dovremmo invece trovare un altro modo per riferirci all’ambiente. Il suo libro Sulla pista animale edito da nottetempo con la traduzione di Alessandro Palmieri e Alessandro Lucera, racconta le esperienze dell’autore durante le sue escursioni e gli incontri con gli animali selvaggi.
La filosofia moderna ha enfatizzato la figura di un soggetto umano guidato dalla ragione e dalla spinta civilizzatrice, che giunge prometeicamente a portare progresso e ordine nell’ambiente selvaggio. Ma per l’antropologo Philippe Descola questa visione sarebbe una costruzione mentale formulata per non assumersi la responsabilità di condividere il mondo naturale con altri esseri viventi. Morizot interpreta il processo di civilizzazione in modo analogo:
“Civilizzato” significa che i nuovi arrivati, che ignorano l’etologia e l’ecologia dei coabitanti non umani, possono viverci senza prestare a tutto ciò la minima attenzione e in tutta innocenza (ovvero, ignoranza più incoscienza). Lo spazio è civilizzato se, anche senza conoscerlo dall’interno, non vi corro rischi.
Con Descola si va oltre “natura” e “cultura”. La distinzione di natura e cultura è il perno su cui poggia la civiltà occidentale. Concependo il naturalismo, per Descola il mondo si divide in due zone: da un lato gli esseri umani che vivono in società chiuse, e dall’altro una natura passiva che resta uno sfondo di risorse da sfruttare, abitato da presenze inquietanti e nocive, da osservare a distanza.
Ecco però che basta uscire “là fuori” o andare nel folto del sottobosco all’aria aperta, espressioni che Morizot propone come alternative alla parola “natura”, per immergersi in un agglomerato di piste, tracce, sentieri incolti battuti da lupi, martore, volpi e linci, insetti, funghi e organismi vegetali. Morizot scopre l’arte del tracciamento, cioè unisce tutte le facoltà di cui dispone, dal ragionamento alla percezione corporea, per poter cogliere le modalità con cui gli altri esseri abitano il mondo. Così facendo Morizot rianima il paesaggio, che non è più la “natura”, ma un universo brulicante di altri soggetti non umani, ognuno con la sua storia e la sua vita.
Filosofare sulle piste animali è una pratica di inforestamento, come dicevano i coureurs des bois che l’esploratore Samuel de Champlain mandava a svernare presso le tribù amerindie nel Québec. Interpretare le marcature e le tracce della fauna come i segni su un tronco o le orme nell’erba, diventare tutt’uno con il sottobosco, porta a immedesimarsi in prospettive animali. Andare nella foresta per Morizot vuol dire accogliere la foresta in noi, attraversare i territori viventi, “lasciarsi investire, lasciare che si trasferiscano dentro di noi”. Il tracciamento permette di navigare il mondo, immaginarlo e coglierlo con lo spirito degli interpreti, perché le altre forme di vita sono considerate veri e propri popoli con cui bisogna trattare diplomaticamente.
Allo stesso modo inforestarsi vuol dire esporsi all’incontro faccia a faccia con grandi predatori. Di fronte la cima del Mièraure, mentre Morizot fa la guardia notturna a un gregge e cerca di seguire le tracce di un lupo, nel buio la belva gli appare d’improvviso davanti. I due si guardano negli occhi, la prima sensazione che l’autore sente è un incontro da uomo a uomo, come se il lupo fosse un suo simile. Morizot resta colpito dal fatto che il lupo cerchi immediatamente i suoi occhi, per il filosofo è come se l’animale volesse scrutare nell’anima umana alla ricerca di un’interiorità.
Che colui che si lascia inforestare dagli altri esseri viventi ritorni leggermente modificato dal suo viaggio da licantropo: un mezzosangue, a cavallo tra due mondi. Nè svilito né purificato, semplicemente altro e un minimo capace di viaggiare tra i mondi, e di farli comunicare, per lavorare alla realizzazione di un mondo comune.
L’oscurità però non mostra il lupo per com’è, ma lo confonde in un lupoide, “Ci sarebbe bisogno di un altro linguaggio: vediamo delle impressioni-lupo, dei complessi di spazio-tempo, figure abbozzate in cui l’immaginazione supplisce alle mancanze della visione”. Incontrare altri animali faccia a faccia all’aria aperta fa sfumare i confini dell’identità umana. Morizot pratica la filosofia attingendo alle sue esperienze personali e alle sensazioni più immediate che gli incontri con il lupo, l’orso o la pantera gli suscitano.
Entrare nella foresta vuol dire entrare nelle case altrui, territori battuti da altri soggetti. Morizot racconta anche di quando scorse nella neve l’orma di un grizzly nei pressi del Parco nazionale di Yellowstone. La prima impressione è quella di essere sulle tracce di un enorme dio animale, una creatura surreale che supera ogni immaginazione. Nel seguire le orme, i piedi di Morizot attuano inconsciamente la camminata a volpe degli Amerindi, una tecnica di movimento usata per non fare rumore sul terreno. Allo stesso tempo Morizot sottolinea che seguire il percorso che il grizzly ha vissuto gli permette di immedesimarsi nell’orso e sentire le preoccupazioni e le intenzioni dell’animale.
Mettersi nelle tracce animali porta Morizot a realizzare che non tutti gli abitanti di uno spazio devono necessariamente trasformarlo lungo lo stesso vettore della civilizzazione. Questo modo di vivere è tipico del colono urbano, mentre altri modi come quelli degli indigeni autoctoni o dei contadini manterrebbero un’apertura all’imprevisto che non inficia la coesistenza con gli altri animali del luogo.
Morizot ritrova un parallelo di questa coesistenza nella compostiera della sua casa, che equipara a un dispositivo di terraformazione dove l’uomo e i lombrichi compartecipano della ciclicità ecologica del cibo. Invece di consumare cibo e buttare gli scarti, come se il cibo esistesse solo per sé, l’uomo getta nella compostiera gli avanzi perché i lombrichi sanno come metabolizzarli, e dalla loro attività nascerà la biomassa che potrebbe alimentare l’orto in permacultura e quindi la biodiversità degli insetti. La compostiera riapre per Morizot modi d’essere animistici tipici dei cacciatori siberiani. Il ricercatore arriva a dire che “In una compostiera c’è dello sciamanesimo nascosto”, dove gettiamo le nostre unghie e capelli affinché alimentino altre vite non umane.
Così l’uomo si rende di nuovo “mangiabile” in armonia con gli altri esseri viventi, rientra nel ciclo della carne, come il cacciatore siberico mangia la carne animale che poi restituisce donando il suo corpo alla foresta una volta morto. La consapevolezza di essere sempre interrelati si esprime in reti “ecomagiche”, termine con cui Morizot sottolinea i rapporti ecologici e immaginari tra uomo e animale. Il ricercatore invita a mettersi nei panni degli altri abitanti del luogo, e a intrattenere con loro un dialogo costante, che coinvolge tutta la nostra psiche.