S ul foglio di note preparatorie per questa recensione ho segnato una lista di nomi di donna. Per primo, Alma Malone: una sconosciuta rapinatrice condannata a vent’anni nel 1960, che ringraziò il giudice per il verdetto. Poi, Wanda Goronski: il nome del personaggio filmico nato leggendo un articolo di giornale sul processo Malone. Li ho cerchiati, uno dentro l’altro, e ho scritto il nome della regista del film del 1970 Wanda, Barbara Loden. Nel cerchio più grande attorno a Barbara Loden ho scritto il nome di Nathalie Léger, autrice del saggio qui in esame, un testo critico e insieme (auto)biografia. Osservando la mia lista, mi chiedevo come rendere la forma concentrica delle relazioni tra queste donne entro la struttura verticale di un articolo. Si presupponeva che creassi un rettangolo di parole che illuminassero altre parole, quest’ultime dedicate a descrivere immagini quadrate e granulose, fotogrammi del 1970. Un testo di commento che non fosse ecfrastico, ma che sottolineasse la tensione indicata da Léger, il bisogno di ridurre la complessità narrativa e artistica alla sua azione base: “una donna racconta la sua stessa storia attraverso quella di un’altra”. Sul foglio, infine, sopra il cerchio più grande, quello che racchiudeva i nomi di tutte le altre, ho scritto il mio. Non per aggiungere un supplemento a Suite per Barbara Loden (tradotto dal francese da Tiziana Lo Porto per La Nuova Frontiera), ma per adeguarmi al suo incedere erratico, capace di essere sia egoriferito che accademico. Per provare anch’io il brivido dell’esposizione, pretendere attenzione scrivendo “io”, come fa Léger, per parlare d’altro.
C’è superbia nell’allineare i propri giorni a quelli di un’artista, equiparando vite i cui risultati differiscono per utilità e valore? Forse, ma resta un gesto meno offensivo della cesura pretestuosa tra uomo e artista che si usa ergere a criterio universale (ma valido solo per certuni). Ne è anche agli antipodi: imbrigliando creatrice e opera, la persona del critico si scopre parimenti corresponsabile dell’interpretazione che corrobora e divulga. Rendendosi visibile, il critico peraltro presta il fianco, accettandosi vulnerabile a potenziali obiezioni contro il proprio privato, oltre che le proprie idee. Anche dentro una scheda per un dizionario di cinema — il testo originariamente commissionato a Léger, poi sviluppato nella sua suite — “la storia di una donna sola” esiste di riverbero. L’azzardo di Léger non è tanto nel descrivere, ma nell’imporre che i ricordi desolati del divorzio di sua madre, la sua tournée in Pennsylvania sulle tracce del set del film abbiano non solo valore di per sé, ma siano rilevanti ai fini della comprensione del suo oggetto d’analisi.
Suite per Barbara Loden dà corpo al discorso critico: Léger scrive in prima persona non in quanto voce, ma come personaggio che agisce, pensa e si muove. Senza simulare lucidità davanti a un prodotto filmico che adora — e quindi rifiutando il concetto di distacco e obiettività nell’analisi — Léger scrive critica diaristica in cui il corpo seduto sul divano davanti allo schermo su cui è proiettato il film Wanda è autorevole quando la testa che pensa e la mano che scrive. E se di fianco a questo corpo ne è seduto un altro, nella fattispecie quello della madre di Léger, pronta a interrompere la visione del film per condividere un ricordo simile alla scena appena osservata, allora la coincidenza diventa dato, diventa urgenza. Quella di Léger è critica sperimentale nella misura in cui materializzare la quotidianità di chi pensa all’arte è percepito come un attacco all’intelligibilità del commento critico, e rendere visibile il lavoro di ricerca, lettura, revisione è un atto beffardo, che smentisce l’illusione della superficie liscia di un testo concluso. Leggere Léger significa raccontarsi che cosa in Wanda è capace di ossessionare tanto. Nel mio caso: un paesaggio piatto e grigio che esiste come unico orizzonte del reale, e la possibilità di narrare senza fine, senza scopo, senza fatti, esistere in quanto corpo. Un corpo visibile in pubblico in pigiama e borsetta.
Leggere Léger significa raccontarsi che cosa in Wanda è capace di ossessionare tanto.
Wanda è una casalinga, è americana, è bianca, bionda e depressa. Ha perso interesse per casa, bambini e marito, si presenta alla sentenza di divorzio con i bigodini in testa. Wanda non ha un piano per il futuro né rimostranze per il passato, ed esclama sorpresa “I’m just no good!” (Non sono buona a niente!). Quando toglie i bigodini, i capelli le cadono in faccia flosci, e vaga sola per strade di provincia e gallerie di centri commerciali. Una sera entra in un bar, interrompendo una rapina. Mr Dennis, il rapinatore, la adotta come complice. Wanda si fa trasportare in macchina e comprare abiti nuovi, indossa un cerchietto floreale, ma alla vigilia del colpo grosso piange in bagno, farfugliando “I can’t do it! I can’t do it!” (Non posso!).
Barbara Loden lesse di Alma Malone in un giornale, Léger stima fosse il 27 marzo 1960. Pensò alla rapina finita male, alla condanna al carcere, al ringraziamento diretto al giudice, insieme alle parole “I’m glad it’s all over” (“Sono contenta che sia finita”) per dieci anni. Quando Loden infine scrisse, diresse e interpretò la parte di Wanda nel 1970, aveva un budget ridotto e sostegno ancora più risicato. Eppure era la seconda moglie del regista Elia Kazan, la vincitrice di un premio Tony per la sua interpretazione teatrale di Maggie in After the Fall di Arthur Miller, attrice cinematografica di modesto successo, ma ben inserita nell’industria dell’intrattenimento newyorchese. All’uscita nelle sale americane, nel 1971, Wanda fu perlopiù ignorato, e apprezzato di ritorno dai circoli accademici dopo il tour di proiezioni nei festival europei. Meno di dieci anni dopo, nel 1980, Barbara Loden moriva di un tumore al seno mal curato, lasciando indietro carte e bozze di ipotetici lavori filmici, e solo Wanda come opera compiuta.
L’archivio Loden non è ancora stato reso accessibile dagli eredi, “venticinque scatole” annota Léger, in cui nemmeno saprebbe che cosa cercare. Potrebbe richiedere di visionare le sceneggiature incomplete, o gli appunti di recitazione, ma Léger ammette che più di tutto vorrebbe sfogliare il diario di Loden. Vorrebbe leggervi “non la felicità, lo slancio, la gioia né la soddisfazione, ma il lamento, l’impotenza, le liste di assurdità, i non-luoghi dei sentimenti”. La frustrazione è chiara, forse ancora più acre per Léger, che dal 2013 lavora come direttrice dell’IMEC, l’Institut Mémoires de l’édition contemporaine, un’organizzazione pubblica francese che cataloga e rende accessibile, all’interno dell’abbazia d’Ardenne in Normandia, una crescente collezione di archivi privati di scrittori, case editrici e riviste francesi. La memoria storica che interessa a Léger è quella a breve termine della carta moderna, delle corrispondenze d’affari battute a macchina e delle recensioni stampate dai giornali: scrittura accessoria, in funzione e a sostegno dell’opera d’arte.
Uscito nel 2012, Suite si posiziona al centro di un trittico della memoria volatile recente cui Léger si è dedicata nell’arco di un decennio. Nel 2008 pubblica L’exposition (“L’esposizione”) un saggio a frammenti sul significato del ritratto fotografico, la cui molla interna sono le centinaia di fotografie in costume volute dalla Contessa di Castiglione, e che si allarga collezionando quanti più ritratti Léger sia capace di descrivere. Nel 2018 pubblica La robe blanche (“Il vestito bianco”), un memoir complementare sull’ultima performance dell’artista italiana Pippa Bacca — il viaggio da Milano a Gerusalemme in abito da sposa, per promuovere la pace, interrotto a Gebze (Turchia), dove fu stuprata e uccisa nel marzo 2008 — accompagnato dalla storia taciuta del divorzio dei genitori di Léger, la versione di sua madre. A Léger interessano storie di donne fatte scomparire — perché morte giovani, perché zittite, perché ignorate — il cui lascito intellettuale è esiguo, la reputazione imperniata su di un solo dettaglio: un foto-ritratto, un film, una performance in abito da sposa, una vita inquadrata come moglie. La malinconia su cui Léger indugia si concentra sul fatto che non abbiano potuto realizzare il loro potenziale, rimasto inespresso e, Léger spera, incastrato negli appunti privati e negli scorci biografici delle opere che, sì, esistono.
A Léger interessano storie di donne fatte scomparire – perché morte giovani, perché zittite, perché ignorate – il cui lascito intellettuale è esiguo, la reputazione imperniata su di un solo dettaglio.
Il pellegrinaggio che Léger racconta, travestendolo da missione di ricerca, è un atto di devozione. Arrivata negli Stati Uniti chiama bibliotecari, studiosi, eredi, ex-collaboratori, ex-amici, gente che ha incrociato Loden di sfuggita. Visita una Holy Land, un parco a tema religioso come quello del film, e viaggia tra le cittadine fossili della Coal Region in cui si scavava carbone. Davanti al silenzio biografico, toccare le reliquie americane è un riflesso nervoso. Ma l’espiazione che Léger cerca passa, purtroppo, attraverso una ricostruzione agiografica di Loden. È qui l’abbaglio di Léger: convincersi che scrutare l’opera possa rivelare qualcosa di fondamentale, non dell’artista, bensì della persona. Fidandosi di Marguerite Duras che vede “una coincidenza immediata e definitiva tra Barbara Loden e Wanda”, “come se nel film raggiungesse una sorta di sacralizzazione di ciò che vuole mostrare”; sicura degli stralci di intervista in cui Loden suggerisce che interpretare Wanda “è come mostrare me stessa per come sono stata”, Léger appiattisce Wanda su Loden — “Barbara Loden è Wanda, come si dice al cinema” – nascondendone la smarginatura attiva, complessa, felice, il lavoro di finzione in atto.
Sembra che a Léger non stia a cuore rendere giustizia a Loden, ritraendola come una donna diversa, più complessa di Wanda: si preoccupa, invece, di ingrandire quello che in Barbara/Wanda riflette Nathalie Léger. C’è molto da guadagnare raccontandosi attraverso gli altri, ma se il supplemento è uno specchietto fittizio — “inventi, basta che inventi” è il consiglio che Léger accetta quando le indagini si rivelano vane — si rischia di accecare invece che illuminare. Com’è possibile che Léger abbia scelto di ignorare i cortometraggi educativi commissionati dalla Learning Corporation of America, diretti da Loden nel 1975, The Frontier Experience e The Boy Who Liked Deer? E che scorra così in fretta le diverse prove attoriali per il cinema, il teatro, la TV, ignorando la carriera di Loden come insegnante di recitazione, o minimizzi le sue collaborazioni con altri professionisti oltre a suo marito, come Nicholas Proferes e Joan Micklin Silver? Nominare le bozze di lavoro per un adattamento dal romanzo The Awakening (Il risveglio) di Kate Chopin prova la tesi che Léger vuole vedere: Barbara come Wanda come Edna, schiacciate e insoddisfatte dal loro genere. Tacere sugli altri lavori in corso, come una sceneggiatura pronta basata sulle tragedie espressioniste di Frank Wedekind (Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora) che hanno come protagonista la femme fatale Lulù, o soggetti originali su movie stars decadute e casalinghe impegnate in quadrati amorosi, oscura la Barbara Loden divertente, farsesca, rumorosa.
Léger, però, nemmeno millanta perfetta erudizione, il testo che pianifica non vuole classificarsi come studio: insistere sulle sue lacune rivela, piuttosto che la leggerezza della scrittrice, la mia ansia di lettrice. Mi riconosco, mio malgrado, nella fascinazione descritta da Léger, nella forma elementare di identificazione che ammette (ammetto) di aver provato per la passività, il diniego, la fuga, il silenzio, la defezione, la resa, l’“attesa che passi” di Wanda. Il conflitto è nell’idea di chi, che cosa sia Barbara Loden, per Léger un idolo di rassegnazione e isolamento che io vedo, invece, come soggetto al lavoro, la cui aura di mistero non avrà più senso una volta aperte le venticinque scatole di archivio. Lo spazio supplementare per Barbara Loden, la suite composta da Léger, funziona, per ora, come una mappa in scala, un ausilio per “il senso dell’orientamento e la rappresentazione di sé nel paesaggio”, ma la superficie da coprire è fatta di cerchi concentrici che si allargano, e molti più nomi.