I
confini politici sono curve immateriali che necessitano di entità tangibili per diventare reali: linee continue su mappe e navigatori satellitari, grigi edifici doganali, barriere contornate da filo spinato. L’esploratore norvegese Thor Heyerdahl diceva di non aver mai visto un confine in vita sua, pur essendo sicuro che ne esistessero molti nella mente delle persone. Al netto del romanticismo, aveva ragione: un confine è in grado di definire, di limitare e, in generale, di influenzare l’esistenza umana. Per questo e per altri motivi, a Heyerdahl sarebbe piaciuto il libro di Marco Truzzi, Sui confini, che esce in questi giorni per la romana Exòrma e corona un progetto complesso e ambizioso nato sul finire del 2013: Europe Around the borders, racconto – fotografico e narrativo – delle odierne frontiere dell’Europa.
Accompagnato dal fotografo Ivano Di Maria, Marco Truzzi ha viaggiato per il continente, seguendo i confini della vacillante area Shengen e visitando luoghi che, per capriccio storico o collocazione geografica, sono o sono stati in passato snodi transfrontalieri, territori liminali o aree di transito dei principali flussi migratori. Ne è nata una mostra fotografica, divenuta poi catalogo, le cui foto accompagnano anche il diario di viaggio in arrivo nelle librerie. Quello di Truzzi è un reportage narrativo di straordinaria attualità, che mette a fuoco il cuore della crisi politica europea in materia di unità e di apertura (sia interna sia esterna), scattandone un’istantanea eterogenea e, al tempo stesso collettiva. Lo sguardo degli autori si posa sugli scogli di Ventimiglia affollati di migranti, sulle nuove barriere europee pattugliate da ronde di soldati armati fino ai denti, sulla placida indifferenza dei cittadini che vivono a centinaia di chilometri dai confini messi in discussione. Il risultato è una panoramica capace di raccontare il tema da numerose prospettive.
L’itinerario di Truzzi parte, a sorpresa, dalle coste africane. Le città portuali di Melilla e Ceuta, affacciate sul Mar Mediterraneo, sono a tutti gli effetti territorio europeo e, nello specifico, sono enclavi spagnole. Di là dalle recinzioni ci sono il Marocco e folle di persone che tentano di entrare in ogni modo in questi piccoli frammenti d’Europa. È l’effetto del confine: creare un al di là e un al di qua, creare cioè porzioni di territorio che leggi e trattati rendono seducenti, respingenti o invivibili. Ma Truzzi e Di Maria – entrambi appartenenti a una generazione che ha visto cadere numerosi muri e barriere – vanno avanti, finendo per mostrare non soltanto la contraddizione che l’incrocio fra geografia, cultura e politica crea, bensì la sua connaturata instabilità.
Lo sguardo degli autori si posa sugli scogli di Ventimiglia affollati di migranti, sulle nuove barriere europee pattugliate da ronde di soldati armati fino ai denti.
È infatti la variabile temporale quella che il reportage mette in evidenza: i confini sono labili, e il passare degli anni li modifica, creandoli e distruggendoli con facilità. L’immagine di un’Europa unita e, soprattutto, definita si dissolve di fronte all’evidenza che nuovi muri sono stati innalzati (in Ungheria, per esempio), che i punti caldi sono temporanei perchè si spostano di concerto con la scoperta di nuove rotte migratorie (Idomeni in Grecia, Horgoš in Serbia, Calais in Francia) e che i confini naturali possono ispirare isolamenti, nazionalismi e sentimenti separatisti agendo di concerto alle ragioni sociali e antropologiche.
È possibile leggere Sui confini in tanti modi. Con Google Maps a portata di click, con un approccio storico o politico, con metodo o con la totale libertà che un diario di viaggio di questo tipo talvolta pretende. Tuttavia, non si può evitare di focalizzare la propria attenzione sulla componente umana che gli autori esplorano dalla Serbia alla Svizzera, dall’Africa settentrionale alla Norvegia. Le voci disperate della baraccopoli di Calais e di Idomeni si mescolano alle paure borghesi degli scandinavi e ai lamenti xenofobi di chi vorrebbe un mondo immutabile; insieme, esse costituiscono un monologo polifonico che parla dei tempi che stiamo vivendo e permettono, specialmente ai più giovani, di apprezzare qualcosa che non accadeva dalla caduta del Muro di Berlino e che nemmeno l’11 settembre riuscì a scatenare a queste latitudini: la sensazione che il mondo – quello europeo, quello eurocentrico – sia entrato in una fase di profonda trasformazione. La raccontano bene le parole: la rabbia di chi non riesce a garantire un futuro alla propria famiglia in fuga dalla guerra, il desiderio di chi vede nella bandiera dell’Unione Europea un segno distintivo, la praticità di chi si dichiara, più o meno velatamente, traghettatore di merci e di uomini. La raccontano bene le fotografie, che spesso ritraggono “dogane cadenti, cabine vuote, ammassi di lamiera, frammenti di un mondo che ha lasciato scorie di destini spezzati dietro di sé”.
Truzzi e Di Maria visitano i luoghi in cui le barriere sono state erette in tempi recenti, ma sembra che siano le rovine di quelle vecchie a interessarli maggiormente. La memoria, sembrano suggerirci, costituisce uno strumento fondamentale da portare con noi nel mondo di domani. Dal cuore nero del passato continentale – il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, divenuto poi l’utero in cui è stato concepito il sogno di un’Europa unita e pacifica – gli autori terminano il loro viaggio piantando un seme di speranza per il nostro mondo futuro. Un mondo in cui dovremo addentrarci tenendo ben presente ciò che diceva Heyerdahl e vestendo i panni del viaggiatore, colui che si muove sul confine per vedere cosa e chi c’è dall’altra parte e poi torna a casa per raccontarlo.