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in dal suo primo libro L’errore di Cartesio (1994), Antonio Damasio è tra i neuroscienziati più interessati alla dimensione filosofica e umanistica della ricerca scientifica contemporanea. Come i suoi libri precedenti, Lo strano ordine delle cose non è tanto un testo divulgativo, quanto, piuttosto, un tentativo di collegare in uno sguardo d’insieme i risultati della ricerca neurobiologica più recente, ponendo interrogativi che la oltrepassano. Il risultato è un tour de force che va dalla biochimica dei batteri alla nascita della cultura umana, con l’obiettivo dichiarato di rilanciare un’alleanza tra biologia e scienze umanistiche che un secolo fa fu screditata dagli abusi del darwinismo sociale, del razzismo e dell’eugenetica nazista. La conoscenza biologica della mente, per Damasio, può “rafforzare il legame tra le culture e i processi della vita”, e così facendo “rende più forte il progetto umanista”. Ovvero, capire meglio l’origine biologica dei nostri vissuti può orientare l’agire individuale e la progettazione della società.
Il punto di partenza dell’indagine è la centralità del concetto di omeostasi, la conservazione dell’equilibrio biochimico necessario alla vita dell’organismo, che Damasio considera come un processo fondamentale che accomuna ogni essere vivente e si manifesta anche negli organismi dotati di mente. Lo sforzo continuo di mantenimento di un equilibrio dinamico tra interno dell’organismo e ambiente, in processi come la respirazione e la nutrizione, comporta un continuo bilancio positivo e negativo, la cui espressione, sul piano mentale, sono i sentimenti di benessere e malessere. D’altra parte, il fatto che i processi omeostatici coinvolgano regolarmente l’interazione con altri individui permette di individuare, in forme di vita evolutivamente più o meno remote come batteri, piante e insetti, i prodromi dei meccanismi di interazione propri delle società umane. In questo senso, conoscere la biologia dischiude una storia evolutiva da cui le vicende della mente e della società umana emergono gradualmente.
Damasio sottolinea (con un chiarimento significativo rispetto al suo libro precedente, Il Sé viene alla mente, 2010) che questi organismi evolutivamente remoti non posseggono contenuti mentali veri e propri, ma vivono attraverso processi che sono i “precursori della mente”. Tuttavia, la ricerca delle analogie tra mondo privo di mente e mondo umano è continuamente rimarcata. Rispetto ai fenomeni di cooperazione di organismi microscopici Damasio scrive:
Il principio è immancabilmente lo stesso: gli organismi rinunciano a qualcosa in cambio di qualcos’altro che altri organismi possono offrire loro; nel lungo periodo, ciò renderà le loro vite più efficienti e la sopravvivenza più probabile. La cosa a cui i batteri o le cellule nucleate o i tessuti o gli organi in generale rinunciano è l’indipendenza. In cambio, essi accedono ai “beni comuni”, a quei beni che derivano da una organizzazione cooperativa che riguarda nutrienti indispensabili o condizioni generali favorevoli, come l’accesso all’ossigeno o ai benefìci dell’ambiente climatico.
Su questo sfondo, passando agli organismi dotati di sistema nervoso, Damasio liquida in breve qualsiasi forma di dualismo che separi mente e corpo, sottolineando: “il nostro organismo contiene un corpo, un sistema nervoso e una mente che deriva da entrambi”. Ma il suo obiettivo critico non è più tanto il dualismo di tipo cartesiano, legato ancora all’idea di anima immateriale e già da tempo screditato. Damasio si rivolge piuttosto contro una forma più sottile e attuale di dualismo, quella che porta a separare il corpo dal cervello, e a identificare la sola corteccia cerebrale con il luogo di elaborazione della mente cosciente. Questa idea introduce una spaccatura altrettanto ingiustificata nella continuità filogenetica tra le forme di vita, che è assunta da molti scienziati e filosofi della mente, e nega l’indispensabile interazione tra sistema nervoso e altre strutture dell’organismo. In contrasto con questa concezione Damasio dedica pagine di grande interesse a temi solitamente assenti dai libri su mente e cervello, come l’attività dell’intestino, ricco di neuroni, e i tanti processi di trasmissione non neurale che collegano il corpo con il cervello, tutti elementi che danno luogo a emozioni fondamentali per la costruzione dell’intera esperienza. In generale, l’intero corpo si mostra dotato di una capacità percettiva, di una sensibilità, che non richiede ancora la coscienza e ci accomuna ai nostri antenati nella storia dell’evoluzione.
Ma come emerge la coscienza? Su questo tema Damasio riprende con grande chiarezza alcune tesi già sviluppate in lavori precedenti. I sistemi nervosi diventano in grado di mappare, attraverso immagini mentali, gli stati interni e esterni all’organismo. Nel primo caso si ha il sentimento, che informa sulla condizione corporea, e costituisce la base di ogni esperienza mentale; dall’interazione tra il proprio corpo e gli stimoli ambientali si produce invece la prospettiva soggettiva sul mondo. L’insieme di questi due ingredienti produce, in molte specie animali, una soggettività cosciente. Essi vengono poi unificati dal sistema nervoso in un unico flusso, formando il “film multimediale” che caratterizza la nostra coscienza individuale e autobiografica.
Numerose sono le implicazioni di questa concezione, tutte collegate alla centralità del sentimento, che introduce un fondamentale criterio selettivo di valore nell’esperienza. Uno degli aspetti più interessanti del libro è la critica del paradigma delle scienze cognitive che riduce la mente a un algoritmo. La centralità del corpo per la genesi del sentimento, e del sentimento per la mente, mostrano tutta l’astrattezza della concezione che riduce la mente all’intelligenza e alla capacità computazionale. Questa concezione, tipica dell’intelligenza artificiale e di alcune teorie biologiche, è un’altra forma di dualismo, poiché distacca il “programma” della mente dal suo più ampio supporto corporeo, e gioca un ruolo centrale –e nocivo, per Damasio – nell’elaborazione teorica sulle neuroscienze: la riduzione della mente a algoritmo è la premessa di tante congetture sul rapporto tra mente e macchine rette da un’immagine impoverita della mente, in cui non c’è spazio per la dimensione emotiva, che è invece primaria.
Da questa mossa deriva per esempio l’indagine sul “problema difficile della coscienza”, cioè su come le qualità soggettive possano emergere dai processi cerebrali, rilanciata negli ultimi vent’anni da filosofi come David Chalmers e divenuta oggi un battutissimo campo di ricerca interdisciplinare. Per Damasio questa ricerca si è ingiustificatamente concentrata sull’attività della corteccia cerebrale nella produzione di immagini mentali come le sensazioni visive, e così facendo ha trascurato i più fondamentali sentimenti e l’intelligenza creativa, finendo col presentare come un mistero quella produzione di sensazioni coscienti emotivamente connotate, che in ottica biologica appare come la dimensione essenziale della mente. Ma dallo stesso errore di ridurre l’individuo a una serie di “algoritmi biochimici” derivano catene di congetture distopiche “sbiadite e noiose” sul futuro della società umana e sulla imminente irrilevanza dell’individuo, come quelle di Homo deus di Yuval Harari.
Damasio, dunque, prende posizione contro molti protagonisti del dibattito contemporaneo sulle implicazioni della conoscenza scientifica, e lo fa richiamandosi ancora una volta al suo filosofo-modello, già protagonista di Alla ricerca di Spinoza (2003). Da Spinoza, al di qua della biologia moderna, proviene l’idea che il “conato” di conservazione di sé costituisca l’essenza dell’individuo, e che il variabile successo di questo sforzo si manifesti nei sentimenti di gioia e dolore. Ma da Spinoza – benché qui Damasio non lo segnali – proviene anche l’idea che la conoscenza razionale dei fondamenti dell’egoismo debba promuovere un comportamento altruistico, in quanto portatore dei maggiori benefìci per l’individuo umano.
È questo, in fondo, il messaggio sotteso alle pagine che Damasio dedica ai fenomeni culturali, dalla religione e l’arte alla scienza, presentandoli tutti come complesse espressioni del principio dell’omeostasi, capaci di produrre coesione sociale, sentimenti positivi e organizzazione delle conoscenze. Ma si imbatte qui nel dilemma dei conflitti tra le civiltà umane, dove la cesura tra natura e cultura apre uno spazio di libertà e di rischio. L’“imperativo omeostatico” si è sviluppato per milioni di anni per favorire i benefici di gruppi, e estenderlo alla cooperazione con individui appartenenti a gruppi remoti non è qualcosa di biologicamente spontaneo; al contrario, si tratta di un orientamento che richiede un ragionamento e che, pertanto, non si può dar per scontato. I benefìci della cooperazione globale possono essere appresi soltanto attraverso un processo di educazione, che non può limitarsi a fornire argomenti razionalmente solidi, ma deve riuscire a penetrare fino alla dimensione emotiva dell’individuo.
L’educazione – nel senso più ampio del termine – è la chiave del progresso. Un progetto educativo a lungo termine, che miri a creare un ambiente sano e socialmente produttivo deve mettere l’accento su comportamenti etici e sul senso civico, e incoraggiare i valori morali tradizionali: onestà, gentilezza, empatia e compassione, gratitudine e modestia. Sarebbe egualmente importante insegnare valori umani che vadano oltre i bisogni vitali immediati.
Ma l’esito di questo progetto è incerto, e Damasio non nasconde la possibilità, già adombrata da Freud, che le pulsioni distruttive prevalgano. È questa la sfida a cui si rivolge questo libro di rara ambizione, che non è privo di passaggi irrisolti, ma possiede una preziosa capacità di porre problemi, mostrando come la conoscenza scientifica, dialogando con altri campi disciplinari, possa aprire prospettive innovative e pratiche riguardo all’intera esperienza umana.