L’ autobiografia è la bastarda dei generi letterari, perché abbassa la soglia: è in mano ai rifugiati, donne, disabili, sopravvissuti all’Olocausto, sopravvissuti a qualsiasi cosa. Anni fa parlavamo di noi stessi in terza persona su Facebook e ci pareva legittimo, narrativo, diventavamo personaggi senza che questo offendesse nessuno, poi siamo tornati all’io, al pubblicare in prima persona, ma l’idea di farci importanti in un’autobiografia pare sporca e torniamo a nutrire sospetto verso il genere, anche se contribuiamo a rafforzarlo e a renderlo collettivo ogni giorno”. Così nel suo ultimo romanzo La straniera (La nave di Teseo, 2019), Claudia Durastanti fa un meta discorso sul genere che ha scelto, in cui è incappata, come se si trattasse di una tentazione a cui non ha saputo o voluto resistere: quella di scrivere di sé e della propria famiglia. Operazione questa della presa di coscienza abbastanza rara nelle molte autobiografie in circolo, che Durastanti considera uno dei generi che vengono letti con maggiore avidità, anche se nessuno lo ammette perché tale preferenza rivelerebbe un gusto poco raffinato.
Al di là della nobiltà del mémoir, in questo romanzo la raffinatezza c’è e emerge in molte riflessioni dell’io auto-narrante che racconta la storia della sua infanzia: i primi anni di vita vissuti negli Stati Uniti e il trasferimento in un piccolo paese della Basilicata, per poi procedere fino al presente della vita della scrittrice.
“L’amore tra sordi non esiste, è una fantasia da udenti. C’è il sesso, l’intimità, ma non quel bisogno. La somiglianza viene prima di tutto”. Una delle spinte narrative a cui Durastanti non ha potuto resistere è quella che l’ha messa al mondo: nascere da una madre e un padre sordi. Così per lei il linguaggio si connota come separazione ontologica dai genitori, perché: “ogni vantaggio l’ho conquistato e perso con il linguaggio, scambiando una parola con un’altra, persuadendo l’interlocutore con la retorica dei miei sentimenti, e il mio silenzio non è mai ferale. Non ho il loro influsso demonico”.
Così, uno dei doni di conoscenza universale che ci fornisce questa autobiografia è un punto di vista ricercato, nel senso di scavato a fondo nella verità dell’esperienza personale, sulla disabilità: “i disabili sono un fine o uno strumento di compassione, ma non sono quasi mai agenti dell’empatia. Di chi possono avere compassione loro?”. La visione di Durastanti deriva da una consapevolezza filosofica fondamentale, che è poi quella da cui muove la prospettiva di studio dei Disability Studies, cioè l’esistenza di una condivisione universale di forme di disabilità, inevitabili anche per gli individui sani in determinate fasi della vita o da un dato evento in poi:
i disabili sono una maggioranza nascosta: nonostante le macchine e le protesi intente a provare che la morte non esiste, quasi tutti con il tempo perderemo un super potere, che sia la vista, un braccio o la memoria. L’incapacità di fare cose che dovremmo saper fare, l’impossibilità di vedere, sentire, ricordare o camminare non è un’eccezione quanto una destinazione.
Interessante è anche il punto di vista che ci offre sull’emigrazione: i nonni dell’autrice emigrarono negli Stati Uniti e così fecero i genitori, che però, per ragioni del tutto sbagliate, decisero di rientrare in Italia. Lei – da notare l’assenza di qualsiasi nome proprio nel romanzo, come un tentativo di spersonalizzare la materia di un racconto così intimo – dall’Italia emigrerà a Londra: “emigrare significa convivere con tutti questi se del sé, sperando che nessuno prenda il sopravvento sull’altro”. La narrazione si fa ben più apprezzabile quando Durastanti sposta l’attenzione da madri, nonni, zii e abbandonando l’aneddotica torna a sé: “non siamo adolescenti partiti per cercare oro alla frontiera, e anche se ci ammaliamo di solitudine come facevano i pionieri del vecchio West, nessuno dirà quali distanze abbiamo messo tra noi e il punto di partenza”, cogliendo in questo modo una delle difficoltà maggiori che vivono molti italiani tra i venti e i quarant’anni: il fatto che si tratti di una esperienza che non ha una definizione, una traiettoria stabilita. Nella fuga dalla precarietà locale si può accedere a garanzie contrattuali che però non rendono irreversibile quell’emigrazione, spesso infatti ci si sposta ancora o si rimpatria e a essere insostenibile è proprio la sospensione che ne consegue.
Più problematiche sono le sezioni in cui l’autrice prova ad agganciare il racconto della propria esperienza personale a digressioni culturali:
verso la fine degli anni trenta, la scrittrice polacca Maria Kuncewiczowa scrisse un libro intitolato Cudzoziemka, pubblicato in Italia nel 1940 con il titolo La straniera. In Inghilterra uscì nel 1944 con il titolo The Stranger. È il motivo per cui Lo straniero di Albert Camus non poté beneficiare di quel titolo, e ancora oggi nell’edizione inglese si chiama The Outsider…
Durastanti continua con un paragone tra la protagonista di Kuncewiczowa Rose e Mersault: “Mersault non è mai stato solo su quella spiaggia in cui ha sparato a un arabo; aveva i fantasmi in rivolta a fargli compagnia. La straniera di Maria Kuncewiczowa è una donna detestabile ma regale, sempre altissima nelle sue frustrazioni”. La sequenza si chiude così, senza che Durastanti abbia scritto quello che forse le premeva e avrebbe interessato il lettore: il suo La straniera come si posiziona rispetto a questi romanzi di cui parla?
Il cuore pulsante di questo testo si trova, come detto, nel racconto dell’esperienza diretta dell’autrice, in cui la scrittura si fa più pregnante e attraente. Particolarmente significativa la parte dedicata alla sua relazione amorosa: “un giorno ho iniziato una conversazione e non ho più smesso. Potevo venire da qualsiasi punto della Terra, essere un alieno condannato all’incomprensibilità, poi ho iniziato a parlare e qualcuno mi ha ascoltata”. Nell’immediatezza della relazione causa-effetto tra il suo essere figlia di due persone sorde e l’innamorarsi di una conversazione infinita, Durastanti è capace di esprimere qui qualcosa che tutti gli alieni del mondo considerano il senso dell’amore. Mentre quando scrive: “sono cresciuta credendo mio malgrado che affidandomi a un altro essere umano sarei stata salva per sempre. È un’idea retrograda smentita dalla società occidentale, dalla psicoterapia, ma una parte di me continua a credere che ci sia qualcosa di importante in questo abbandono, in questo lucido affidarsi” ci offre una visione del sentimento amoroso non solo condivisibile, ma molto condivisa, anche se forse serve una qualche consapevolezza della disabilità per ammetterlo.