Recentemente, e credo sia una degenerazione indotta dall’età, ho ripreso una pratica che quando ero bambina funzionava in modo strabiliante. “Non tardare”, avevo letto al catechismo (Salmo 69,9): perciò pregavo Dio di sbrigarsi a fare una certa faccenda, a risolvere un certo affare, e lo cercavo per strada al suono delle sette di sera, mentre scrivevo il mio nome sull’asfalto fresco coi pezzi di gesso di cui sono fatte le pareti di casa mia. Non tardava mica: eseguiva: portava gatti, faceva passare nuvole e un’automobile grigia, faceva imparare in pochi minuti le lezioni scolastiche, e pochi giorni dopo consegnava una bicicletta smaltata: rossa: con cui sono caduta fracassandomi la fronte.
S ei anni dopo Mille esempi di cani smarriti, cardo selvatico tra innumerevoli fiori di serra cresciuti a fatica dagli editor, Daniela Ranieri non tarda a capovolgere le aspettative pubblicando un romanzo-saggio per molti versi distante sia dal precedente sia dall’esordio Tutto cospira a tacere di noi (Ponte alle Grazie, 2012). Anche in Stradario aggiornato di tutti i miei baci il vissuto biografico viene ‘spostato’ attraverso un lavoro di fino nell’intento di farlo emergere nella sua forma più vera; ma mentre in Mille esempi l’architettura narrativa (ellissi temporali alternate al cicaleccio d’una cena all’aperto in una Roma che ha inglobato senza batter ciglio l’ennesima tragedia, terza persona) era volta a squarciare l’angusto Zeitgeist delle terrazze padrone, la struttura centrifuga dello Stradario — capitoletti in prima persona che formano serie leggibili secondo itinerari scelti dai lettori — permette a Ranieri di dispiegare attraverso una vasta gamma di registri l’intero suo mondo.
“Una donna a colloquio con se stessa”, recita la quarta; ma anziché con una sessione d’autoanalisi si entra a contatto con una voce parlata dalla lingua, che senza paura di farsene attraversare cerca di capire scrivendo: scandagliata in tutte le direzioni eppure compatta, fissata in una Wunderkammer che prende di volta in volta forma di divagazioni, pugnaci invettive, aforismi a metà tra Nietzsche e Saint-Simon, elegie involontarie e cammei intagliati da sarcasmo inoppugnabile. Se l’italiano e la postura dell’io narrante sono ancorati al nostro Novecento (attraverso una genealogia che da Gadda e Manganelli porta a Busi, presenza mai esplicitata eppure tangibile), la verticalizzazione del pensiero fusa all’amore per la materialità del mondo, dai gatti ai profumi, fanno pensare alla miniera di felicità dei Saggi di Montaigne. Del tutto personale è invece l’ironia non priva di pietas — un saper vedere, ma pure perdonare e perdonarsi, che permette alla voce narrante di mantenere salde le redini del racconto, raggiungendo un equilibrio prima solo sfiorato.
Per notare la progressione è sufficiente tornare alle pagine di AristoDem (Ponte alle Grazie, 2013), pamphlet dedicato ai radical-chic dei terrazzi di Corso Trieste che l’aveva fatta conoscere a un più ampio pubblico: in quel caso la scrittura affilata era venata da qualche smagliatura dovuta al groviglio di sentimenti provocati (a quell’altezza forse non del tutto elaborati) dall’oggetto dello psicodramma, manifestazione del ron-ron della scemenza del mondo che come caterpillar fa brani dei vinti senza nemmeno accorgersene. Nessuno ne usciva indenne: questo il limite del primo esperimento all’incrocio tra trattatello e racconto. Con gli anni Daniela Ranieri ha imparato a sorridere prima di tutto di se stessa, per questo in Stradario Roma diviene personaggio che stimola, oltre agli acidi della satira, un denso intreccio tra desiderio, dimensione spirituale, teoria sociale e amore per il particolare (come il Gadda dell’Adalgisa è suprema ritrattista). Il racconto si apre mischiando di proposito leggenda privata (“Sono nata in mezzo al Tevere, sulla barca-vongola di pietra tra le due anse che abbracciano l’Isola Tiberina”) al caos del mondo post-pandemico, eternato dalla “città postnucleare”; ma l’inizio della vita — cioè di tutti i guai — viene fatto coincidere con la morte del padre, stella fissa che d’un tratto scompare:
“Tuo padre è morto! Tuo padre è morto!”, canzonavano, e ridevano: volevano dire: d’ora in poi hai qualcosa in meno di me e di tutti gli altri, d’ora in poi sei esposta alle nefandezze del mondo da cui io, mio padre vivendo, sono al riparo, d’ora in poi sei un agnello gettato in mezzo ai lupi. (Non mi è permesso essere più chiara: quando si scrive del proprio padre si perde la bussola, l’orientamento. Il padre rappresenta il nord, mentre scrivere ha i suoi punti cardinali, svincolati dalla biografia, fuori dalla sua griglia; così questi due sistemi entrano in conflitto: l’ago schizza).
Nel segno del figmento paterno si sdipanano i mille rivoli della narrazione, il cui baricentro è dato da quest’assenza-presenza immedicabile, esorcizzata attraverso esperienze che portano la voce narrante a conoscere i propri desideri per sottrazione. La ricerca dell’equilibrio la porta via via a liberarsi del superfluo, delineando una galleria di situazioni paradossali e uomini inservibili, accomunati da un narcisismo — poco importa se manifesto o camuffato — che si traduce in atti mistificatori volti a predare l’altro. Ecco dunque il tirchio, lo stalker, i violentatori della lingua, il filosofo-plagiario, il medico farlocco sapientemente intrappolati in epigrammi usciti dalla penna d’un latino nato oggi: ma su tutti troneggia lo scrittore, emblema d’una fatuità al quadrato, dimostrazione di come non sempre a mente ammobiliata corrisponda eguale caratura umana (a riprova che, come ricordava Garboli, l’intelligenza serve a chi non capisce):
“Tratta la letteratura come la selvaggina da comprare al mercato, come dice Wilcock. Fino ad allora, sei solo una ragazzetta che scrive versi in camera sua. […] Al ritorno in macchina, rabbuiato, mi chiedeva: ‘Secondo te, perché non mi hanno dato lo Strega?”
Esempi di vivacità magnetofonica come questo se ne trovano a iosa. Eppure lo Stradario ha il merito di smascherare l’inversa vanitas di chi pretende di cambiare l’altro, o voler essere amata non amando davvero: qui, più che nella galleria dell’insipienza al maschile, il segno del suo valore. (Unica pecca, la penuria di personaggi femminili: ne avremmo voluti di più: ma forse la narratrice è la Donna che racchiude l’universo dei possibili). All’abbandono dell’intelligenza intesa come ossessiva volontà di controllo corrisponde l’entrare nel nostro campo visivo di largitori di gioia: la passione per le frivolezze (tali sembrano agli inaffidabili) è declinata con dovizia che rivela la formazione antropologica dell’autrice, quasi che si stia proseguendo l’avventura di De Erotographia, esplorazione delle manifestazioni del desiderio nella cultura visiva contemporanea.
I capitoli dedicati alle fragranze dimostrano quanto avesse ragione Buzzati nell’inserire “quelli che odiano i profumi” tra le persone da detestare, oltre a ricordarci come chi ama limare le parole sia in grado di provocare un’anosmia all’inverso, ritrovando certi odori, istanti ricreandoli (“Al primo spruzzo si ha l’impressione che danno certi balconi a picco sul mare: si avverte lo schiaffo metallico del vento che porta il latte della lavanda cresciuta a ciuffi selvaggi sulla scogliera”). Correlativo di questa volontà di ricomporre il mondo per verba sono le mosse formali predilette, dalla funzione-elenco alle metafore che fioriscono sui rami di periodi vertiginosi, tra Borromini e Guarini. Questa tensione tortile del pensiero è applicata anche all’incontro volto a medicare la disastrologia derivante dalla “cicatrice in fronte a ogni felicità” dell’assenza paterna:
Questo è un mistero, l’eterno mistero delle correnti amorose: perché proprio lui, tra tanti uomini presenti in quel posto? Solo perché lui guardò me? Ma non ci stavamo già guardando quando mi sono accorta che mi guardava? E perché sapemmo tutto subito, tutti e due sapemmo di cosa si trattava, qual era il punto, qual era la questione e il rischio connesso? Funziona, il destino, o è solo il confluire di casualità e di circostanze irrilevanti a produrre l’accordo amoroso tra due esseri umani? Per i due, tre minuti successivi ho fatto quello che faccio sempre al cospetto di uomo che mi interessa: ho ostentato indifferenza, frenando la cauta insidia contenuta nel suo sguardo al laser.
A è un Dioniso (e Arianna era il nome della donna, per molti aspetti simile alla voce narrante, di cui senza averla mai vista s’invaghiva il protagonista di Tutto cospira a tacere di noi) collocato fuori dall’orizzonte, nella Sicilia delle origini, in grado di mettere sotto scacco ogni tentativo di sabotaggio della ex bimba cui non risere parentes. Lui cartesiano, lei nevrotica; lei pessimista cosmica, lui ottimista della volontà: moltiplicato per mille attraverso la finzione, il duetto strappa risate per il suo non saper separare l’esercizio del pensiero (“siamo persone da attesa, da sospensione ludica del già certo, da friggitoria mentale”) dalla goffaggine del sentimento:
L’ultima volta che sono stata lì ho setacciato le stanze in cerca del passaggio d’un altra donna. Sono corsa in camera sua, dove regna l’ordine cartesiano della sua persona pulita e intelligente. Ho aperto tutti i cassetti, quelli dello scrittoio, del comò. Ho controllato bene tra le calze in filo di scozia, tra le mutande, nel contenitore delle cinture. Ho frugato nelle tasche di tutte le giacche appese nell’armadio: emanano lievissime zaffate del profumo che gli ho regalato (Catania di Ciatu: lavanda, benzoino, balsamo di Tolu, gelsomino e pelle scamosciata), la qual cosa mi commosse un istante, ma ero distratta dalla possibilità del suo delitto e dalla certezza del mio. […] Quando è tornato ero davanti al portatile, seduta al tavolo del soggiorno. Mi ha fatto l’occhiolino, appoggiato le buste sul ripiano della cucina. Poi è andato in bagno, fischiettava (è sempre sereno, come i taglialegna la domenica mattina), e dunque in camera sua a cambiarsi. Poi è tornato, lo vedevo togliere le verdure dalle buste. Facendo avanti e indietro col frigo aperto, sempre fischiettando, mi ha chiesto: “Trovato qualcosa?”
Tutto cospira a tacere di noi e Mille esempi di cani smarriti tessevano l’elegia dell’eros irrealizzato; Stradario racconta senza volerlo la dolce guerra che anima l’amore quando resta (chi di noi del resto non ha frugato negli armadi d’un innocente?). Il racconto si conclude nel segno della non pacificazione, a rimarcare che il mondo non è illuminista, e l’accogliere in sé l’orizzonte della coppia è scelta da rinnovare giorno per giorno (“Il vero amore invece ha spesso torto”, dice lui, guardandosi il dito che non butta più sangue”). Perché Stradario aggiornato di tutti i miei baci è anzitutto un inno alla libertà di essere come si è, accettando i rischi che il rimanere fedeli a se stessi e ciò a cui si tiene provoca; anche quello di scrivere un libro inclassificabile, e a buon diritto: unico.