J an ha diciassette anni, è cileno, vive a Città del Messico, non si alza quasi mai dal materasso sistemato sul pavimento della sua stanza. Lavora alla “bozza di ciò che un giorno lontano potrebbe diventare un romanzo di fantascienza”. Scrive a più non posso, freneticamente, lettere stralunate indirizzate ai suoi autori preferiti: Forrest J. Ackerman, Robert Silverberg, Fritz Leiber, James Tiptree Jr. “Ah, se potessi mettermi in comunicazione coi morti scriverei a Philip K. Dick”, confessa a Ursula K. Le Guin. A James Hauer chiede: “Il suo comitato, che Dio lo benedica, sta forse valutando la possibilità di concedere borse di studio – borse Hugo, borse Nébula – agli autori del Terzo Mondo più bravi a descrivere un robot?”.
Divide la stanza con Remo, ventun’anni, anche lui cileno, anche lui scrittore: collabora con il supplemento culturale del giornale «La Nación» e con una meno prestigiosa rivista di storia – “una porcheria” – dove scrive sotto pseudonimo. Nella speranza di attaccare bottone con qualche poetessa, Remo inizia a frequentare i seminari della facoltà di Lettere e Filosofia. Lì incontra José Arco, poeta messicano, suo coetaneo. Diventano amici, girovagano per il Distrito Federal (DF), si ubriacano, si innamorano di una ragazza e subito dopo di un’altra, discutono di poesia e di scrittura. In maniera scombinata e ossessiva iniziano un’indagine per cercare di capire perché in città proliferino le riviste letterarie: sono più di seicento, e se continua così nel giro di poco arriveranno a quota mille. Raccolgono indizi ovunque:
In poco tempo andammo a parecchi seminari di poesia e trovammo riviste la cui tiratura in certi casi non superava i dieci esemplari in fotocopia. Tenemmo gli occhi ben aperti perché non ci sfuggissero nemmeno i graffiti – l’arte invisibile, o decadente? – che ci indicava la Pagina.
Lo spirito della fantascienza, romanzo postumo di Roberto Bolaño, è uscito in Italia in questi giorni per i tipi di Adelphi con la traduzione di Ilide Carmignani, a poco più di un anno dalla pubblicazione originale per Alfaguara, l’editore spagnolo che sta ristampando l’intera opera dello scrittore cileno. Secondo la moglie Carolina López, tra le bozze lasciate da Bolaño nell’hard disk e nei quaderni prima della morte, c’è materiale per altri libri inediti, più o meno incompiuti – e così probabilmente ne leggeremo ancora (con le speculazioni che seguono, e le polemiche sull’opportunità di pubblicare, baruffe dalle quali, almeno per lo spazio di questa recensione, cercheremo di astrarci).
Quando lavorò a Lo spirito della fantascienza, nei primi anni Ottanta, Bolaño era ancora un esordiente. Nel tempo riprese in mano le bozze e riscrisse alcune pagine, poi decise di abbandonare il progetto. Eppure Lo spirito della fantascienza non è l’opera prima imperfetta e incerta che ci si potrebbe aspettare: dentro c’è già quasi tutto il Bolaño possibile, in una forma minore magari, sicuramente frammentata, ma non embrionale.
La storia si sviluppa seguendo un gioco di specchi, puzzle tipico di Bolaño, con l’alternarsi di tre registri: le lettere di Jan ai suoi autori di fantascienza preferiti, il racconto, in prima persona, del percorso di iniziazione sentimentale di Remo, e un’intervista a ruota libera a un anonimo scrittore di successo – forse è il Jan del futuro? – a ridosso della vittoria di un premio importante. Quando iniziò il romanzo, Bolaño aveva praticamente il doppio degli anni di Jan e dieci più di Remo, ma il riflesso di identificazione tra autore e personaggi è piuttosto spontaneo. “Un abbraccio, Jan Schrella, alias Roberto Bolaño”, è la firma di una delle lettere, quella inviata a Philip José Farmer.
Lo spirito della fantascienza è un romanzo popolato da fantasmi. L’ectoplasma della scrittura riverbera ironico nelle lettere che Jan manda ad autori che non gli risponderanno mai. Personaggi evanescenti appaiono solo per scomparire – come Estrellita, vecchia signora enigmatica, il viso allungato pieno di rughe, chiamata “lo spirito dell’Habana”, abituè di uno dei bar preferiti di Josè Arco. E poi ci sono gli spettri degli altri romanzi di Bolaño, che appaiono in un continuo ritorno al futuro: Lo spirito della fantascienza prepara il palco di quello che sarà l’universo narrativo dello scrittore cileno da lì a qualche anno, anticipa temi, stili e atmosfere che torneranno in Stella distante e soprattutto in Detective selvaggi, proietta l’ombra di personaggi che riappariranno, di storie che si ripeteranno uguali o di poco mutate. A volte sono spettri che si affacciano appena, in un breve colpo, nella citazione di un nome, come nel caso di Alcira Soust Scaffo, che sarà Auxilio Lacouture in Detective selvaggi e Amuleto. Ogni tanto si manifestano sotto altre vesti, come le sorelle Torrente, entrambe poetesse, che diventeranno le sorelle Font in Detective selvaggi.
Ci sono cose che ricordo ancora in modo vivido, sguardi, dischi (voglio dire l’immagine nera splendente degli oggetti dischi, non la musica) e al di sopra di tutte le cose Lola Torrente, due anni più grande di Angélica, infinitamente più bruna, con un’ossatura più robusta e per nulla magra, il cui sorriso per me è ancora il sorriso terminale di quell’altro Messico che a volte appariva fra le pieghe di qualsiasi alba, per metà voglia rabbiosa di vivere, per metà pietra sacrificale. Non sarebbe azzardato sostenere che da un’ora ero innamorato di Angélica. E nemmeno dire che verso mezzanotte, più o meno, il mio amore pian piano si spense fino a morire del tutto, fra bicchieri di alcolici e sigarette e non mi toccate Mallarmé, cazzoni, che me lo rovinate. Può darsi che in quella rapida ascesa e caduta di un grande amore platonico c’entrasse qualcosa Lola Torrente.
Lo spirito della fantascienza è un percorso irregolare, ci sono deviazioni che non portano da nessuna parte e sentieri mozzafiato, appena accennati, che ti lasciano con la voglia di continuare a camminare in quella direzione. L’ultimo capitolo, l’unico ad avere un titolo proprio, Manifesto Messicano, è anche il solo frammento del libro già apparso da qualche parte: nella raccolta La Universidad desconocida, nel 2007, e sul New Yorker, nel 2013, in traduzione inglese.
Dopo feste deprimenti, delusioni e sbronze malinconiche, Remo si è innamorato di Laura, un’amica delle sorelle Torrente. La loro storia si consuma nelle frequenti visite ai bagni pubblici di Città del Messico, un mondo isolato, sospeso, in cui le uniche regole sono le logiche del piacere e del gioco.
Come il volto nascosto di altre città sono i teatri, i parchi, i moli, le spiagge, i labirinti, le chiese, i bordelli, i bar, i cinema da quattro soldi, i vecchi palazzi e perfino i supermercati, il volto nascosto del DF si trovava nell’enorme rete di bagni pubblici, legali, semilegali e clandestini.
Remo e Laura si perdono e si ritrovano nei vapori dei bagni, nelle docce calde e fredde, nei corridoi lerci, nei privé dove passano intere giornate – a volte da soli, spesso in compagnia di personaggi variamente loschi che la giovane coppia invita a entrare negli stanzini. Fumano marijuana, nudi, raccontano storie o se ne fanno raccontare dai propri ospiti, e nel frattempo bevono, si toccano, toccano gli sconosciuti, si tradiscono. La noia, il fatalismo, la resa – d’accordo – e nonostante questo l’amore, e la traccia che lascerà, i ricordi, le voci, le ombre di quei luoghi – nuovi spettri di domani.
Il colore delle pietre della piscina, sicuramente il colore più triste che abbia visto nel corso delle nostre spedizioni, paragonabile solo al colore di certi sguardi, di operai nei corridoi, che ormai non ricordo più ma che senza dubbio sono esistiti.