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a scrittura letteraria incrocia da sempre la scrittura del sogno, un mondo onirico composto da incubi, sogni e allucinazioni. Dal momento in cui, con l’apertura del Ventesimo secolo, viene pubblicata l’Interpretazione dei sogni di Freud, quel mondo liminare assume un ulteriore immenso valore: di questa materia sfuggente vengono delineati nuovi confini che portano a una modifica anche dei paradigmi ermeneutici precedenti. La scrittura dei sogni inizia così a concretizzarsi come un preciso filone letterario, a dire il vero frequentato da scrittori ottimi, che si concentra proprio sul tentativo di dare, attraverso una trascrizione, una natura stabile al sogno: sono esempio di questa produzione i sogni di Kafka (fuori catalogo da molto tempo), quelli di Perec con la sua Bottega oscura oppure, infine, quelli di Borges. In queste situazioni sogno e letteratura si fondono e viene a crearsi, come ha scritto lo psicoanalista André Green, una corrispondenza tra il linguaggio del sogno e la scrittura letteraria, uniti attraverso una sorta di “bricolage”, operazione che consente di indagare con successo la frammentarietà che presenta il mondo onirico. Nel loro insieme infatti queste raccolte di sogni da una parte lasciano una sensazione di incompiuto nel lettore, maggiormente abituato alle architetture ben stabili degli autori, dall’altra invece si trascinano un alone quasi di impudicizia, perché sembra, ancor più che con la scrittura intima e diaristica, di addentrarsi in un territorio estremamente personale, di frugare nell’inconscio di un altro, correndo con frequenza il rischio di interpretare la vita di tali autori attraverso ciò che accade nei loro sogni, errore, molto spesso, imperdonabile.
D’altro canto però il lettore ha accesso privilegiato ad elementi ricorrenti importanti, quali manie e ossessioni, anche se deve essere sempre tenuto a mente che è necessario distinguere tra il testo del sogno, cioè il sogno come viene rievocato dal sognatore, e il processo del sogno, il sogno in sé, esperienza in grado di far avanzare le frontiere della propria esperienza, perché quest’ultimo può differire, in maniera anche significativa, dal suo racconto. Esempio lampante di questo iato è la raccolta di sogni di Perec La bottega oscura: in Sono nato lo stesso scrittore parla di questa diffrazione, scrivendo come all’inizio i suoi sogni trascritti sulla pagina fossero “impacchettati con troppa cura, troppo levigati, troppo puliti, troppo chiari”, lontani da un’esperienza di “sola scrittura”. Questi testi figurano come una biografia dell’irrealtà dell’autore, un testo per certi versi paradossale per la sua natura, ma, ovviamente, estremamente interessante.
Viene ripubblicata adesso da Il Saggiatore in una nuova e sontuosa veste, tradotti da Fernanda Rosso Chioso, curati da Agnese Grieco e arricchiti da un saggio della stessa Grieco e di Vittorio Lingiardi (curatori dell’edizione italiana), la raccolta Sogni di Arthur Schnitzler, un volume che mette insieme, nella loro totalità, i sogni del medico e scrittore austriaco. Il materiale che compone questo volume fa riferimento a un arco di tempo che supera i cinquant’anni, e cioè dal 1875 al 1931, seguendo la sua vita onirica dal momento in cui era studente al liceo classico, fino a pochi giorni prima della sua morte. Ciò che con forza emerge da queste pagine, oltre alla limpidezza analitica della scrittura di Schnitzler, è l’esigenza e il desiderio dell’autore di sottrarre il sogno dalla sua natura normalmente volatile: questo porta, come detto poco sopra, a una sovrapposizione tra l’io onirico e quello reale, che nello slancio conoscitivo finiscono per confondersi: “Il sogno si fa vita, la vita sogno”, scrive Schnitzler in un suo celebre sogno del 1897, e il nucleo di questa operazione sta proprio qui. Questa raccolta di sogni fugge però subito da qualsiasi possibile imbrigliamento ermeneutico perché un tale diario onirico figura nello stesso tempo come laboratorio di scrittura e come tentativo biografico, “cangiante e unico, di sincerità biografica persino dolorosa e al tempo stesso anarchica bizzarria immaginifica”. Il sogno di un tredicenne apre il volume, che presenta subito Franziska Reich, figlia dei vicini di casa di cui Schnitzler è innamorato.
La ragazza “lo insegue in tutti i suoi sogni” scrive il medico viennese e annota poco dopo, sull’onda dell’innamoramento:
Questa notte ho sognato che ero vicino alla finestra e lei è venuta da me, stava all’esterno della finestra. Mi sono sentito improvvisamente non so come. L’ho abbracciata e baciata ardentemente e lei ha ricambiato il mio bacio. Così siamo rimasti per qualche tempo e ci siamo baciati ancora e poi ancora. Mi sono svegliato, nel sogno già esultavo, io l’ho baciata e mi sono svegliato. Sono scoppiato in un gran pianto. Proprio allora sorgeva l’alba, ero d’umore triste, molto triste.
Queste trascrizioni hanno però un’ulteriore grande ricchezza, quella di rimandare alla mente anche le opere narrative dello scrittore austriaco, nelle quali il lettore può incontrare per esempio l’utilizzo del monologo interiore, che in questo racconto dei sogni fa bella mostra di sé. Anche questo aspetto contribuisce a rendere queste pagine un’occasione per sbirciare nel laboratorio narrativo dello scrittore. L’osmosi tra vita e sogno, per come viene definita da Grieco e Lingiardi nella loro calzante introduzione, riveste qui un ruolo ovviamente decisivo, ma si tratta di un binomio che riappare in molte sue opere come nelle preziose pagine di La signorina Else, tutte giocate su questo terreno confuso che unisce realtà e sogno, oppure sulle altrettanto celebri immagini di Doppio sogno, dove le trasgressioni e i tradimenti dei protagonisti sono infarciti dalle ricadute nel mondo onirico.
Le differenti miniature di Sogni finiscono per costruire, nel loro insieme, un ritratto unico dello scrittore austriaco, che si conferma capace di narrare non solo i tumulti dell’anima dei suoi personaggi fittizi (ancora La signorina Else per esempio), ma anche di edificare un grande racconto di quelli personali, con acutezza e sincerità (come le preziose note che chiudono il volume dimostrano, impeccabili nel ricostruire dai sogni dello scrittore austriaco i riferimenti alla vita diurna). I poli estremi della vita e della morte sono il terreno nel quale questi sogni si muovono, con una predilezione che muove con coraggio verso il secondo di questi. Il tema della morte è infatti qui variamente declinato: si va dal sogno di un giovane Schnitzler nel 1881 in cui sua madre tenta di dare sollievo al suo pensiero di morte (“Il sogno che ho avuto tempo addietro: deve avere luogo la mia sepoltura, sono sulla via di casa, vedo già alla finestra la gente che mi aspetta, il carro funebre è di sotto. Salgo, mamma m’incoraggia”), a un altro invece di qualche anno prima dove lo scrittore è in ritardo per il suo funerale e ancora la madre cerca di incoraggiarlo (“Questa notte un sogno spaventoso; arrivo troppo tardi al mio funerale, già mi aspettano. Sono davanti al portone di casa e vedo le ghirlande funebri. Cerco di indovinare di chi sono. Provo una tristezza profonda. Mi angoscia coricarmi nella bara, allora mia madre cerca di incoraggiarmi. Penso, da un momento all’altro arriverà la narcosi”) fino ad una camminata per Stefansplatz con un teschio in mano (“Con un teschio in mano attraverso Stefansplatz; chiedo a un fattorino (dopo aver riflettuto in via teorica sul riempimento del cranio) quanto ce ne può stare qui dentro? Lui: un secchio e mezzo”).
In altre occasioni la morte si mescola con la vita e con l’amore in quadretti quasi surreali (“Mando da M. G. un fattorino. Guance colorite, abiti nuovi. Che venga subito da me. Io muoio. Lei in sottoveste viene da me in gran fretta. Io a letto, trasfigurato, tra le nuvole”), ma nel corso dei quasi cinquant’anni di sogni di questo volume, è soprattutto una riflessione sulla morte a trovare spazio all’interno del mondo onirico dello scrittore austriaco. Schnitzler, che da Freud era diviso dall’interpretazione troppo strutturata degli elementi del sogno, colpevole, a suo parere, di togliere ad esso la sua carica più profonda concentrandosi soprattutto sugli aspetti ermeneutici, affida al racconto del mondo onirico la suggestione e la paura più arcaica. La scrittura del sogno diventa allora una sorta di rifugio archetipico dove dare sostanza ad una materia altrimenti volatile (“Il tempo in cui diremmo si distendano i sogni ha viceversa la rapidità diaframmante d’uno scatto di Leika, si misura per fulgurativi tempuscoli, per infinitesimi del quarto ordine sul tempo orbitale della terra” scrive in splendide righe Gadda nel suo Pasticciaccio): la memoria e il ricordo possono affiorare in maniera fulminea mentre il sogno, anche attraverso il ricorso alla sua scrittura, può venire a sciogliere le questioni intricate della vita diurna, con la convinzione che possa essere proprio la luce del sogno, con la sua forza, a penetrare e interpretare la lucida veglia, perché, è sempre Gadda a dirlo, il nostro percepire la realtà risponde ad una “specie di sogno capovolto”.