D iritto alla disconnessione, tele-lavoro, contratti per i lavoratori digitali, operai del click. Questo campo di nozioni comunemente associato a piccole nicchie di ingegneri informatici e programmatori comincia a diffondersi a tutta la società con la crisi aperta dalla pandemia. Che si tratti dell’applicazione dello smartworking a molti settori lavorativi, o della centralità assunta dai lavoratori delle piattaforme afferenti al mondo delle consegne, la “digitalizzazione” delle mansioni umane non riguarda più soltanto il mito-guida dello sviluppo tecnologico dei nostri tempi, e cioè la sostituzione del lavoro umano grazie all’intelligenza artificiale. Il testo di Antonio A. Casilli Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? viene tradotto in italiano allo scoccare di questa nuova consapevolezza, sostenendo una tesi del tutto opposta alle promesse della Silicon Valley: “la piena automazione non si farà”.
Nel 2006, il fondatore di Amazon Jeff Bezos presenta “Amazon Mechanical Turk”, un progetto che contraddice gli obiettivi e le opportunità che guidano lo sviluppo di sistemi intelligenti autonomi dall’intervento umano. Si tratta di una piattaforma che subappalta a centinaia di migliaia di lavoratori digitali (ad oggi se ne stimano più di 500.000) micro-mansioni digitali che i software intelligenti di altre aziende non sono in grado di processare – traduzioni, annotare video, smistare tweet, abbinare prodotti e immagini etc. Nel suo discorso di presentazione, il mito della sostituzione automatica viene ridimensionato. Non a caso, il titolo di questo intervento è This is basically people-as-a-service. La tesi del libro di Casilli assume in toto questo questa battuta d’arresto:
Siamo agli antipodi delle fantasie robotiche che alimentano l’immaginario degli investitori e dei media: qui vediamo soltanto una miriade di proletari del clic, lavoratori non specializzati che svolgono le mansioni necessarie per selezionare, migliorare, rendere i dati interpretabili. (…) Il lavoro di questi proletari del clic è fondamentale per produrre quella che spesso non è altro che intelligenza artificiale “fatta a mano”.
Casilli decostruisce ogni narrazione che cerchi di mistificare la vera posta in palio dietro le promesse dell’intelligenza artificiale: il trionfo delle piattaforme digitali. Per farlo, utilizza un ampio armamentario analitico, che spazia dalla genealogia dei concetti chiave per comprendere il lavoro digitale – robot, piattaforma, digitale, schiavitù -, all’inchiesta operaia di tradizione marxista per mettere in luce le nuove condizioni di sfruttamento dell’oggi. È così che dimostra una tesi all’apparenza controintuitiva: se siamo disposti ad accettare che “il lavoro non coincide con l’occupazione”, l’introduzione di nuove tecnologie richiede un bisogno sempre maggiore di lavoratori.
L’architrave dell’argomentazione passa per una distinzione molto importante: quella tra lavoro automatizzato e lavoro digitalizzato. L’applicazione delle tecnologie ai processi lavorativi non somiglia alle grandi braccia di metallo della macchina automotrice ottocentesca, ma consiste in “robot logici” – denominati bot – che organizzano dati, informazioni, la domanda da parte di aziende terze e l’offerta, più o meno consapevole, di mansioni da parte di milioni di utenti-lavoratori. L’errore più comune è di “usare quello stesso termine – robot – per parlare tanto di macchine industriali quanto di stringhe di codice informatico che ordinano, classificano, calcolano itinerari, twittano, chattano, fanno acquisti etc.”. La digitalizzazione delle mansioni umane condivide con l’automazione la tendenza taylorista a standardizzare e parcellizzare le azioni affinché interagiscano meglio con gli algoritmi; rivoluzionando tuttavia del tutto il rapporto tra le aziende e lo spazio:
La produzione digitale può essere realizzata ovunque: il luogo fisico in cui si manifesta l’automazione non è prestabilito, né limitato ai confini dell’azienda tradizionale. Ha luogo altrove, ovunque. Anzi: poiché la si può parcellizzare in una miriade di mansioni uniformi, ha luogo in vari ovunque.
L’accesso a prestatori d’opera su scala globale – in particolare chi vive in contesti di forte impoverimento – e la suddivisione in micro-mansioni porta con sé due effetti rilevanti: in primo luogo lavorare per le piattaforme comporta “un continuum di attività non remunerate, sottopagate e remunerate in modo flessibile e sottopagato”; e in secondo, l’occultamento dell’attività umana dietro il velo dell’automazione. Eppure la radice semantica dell’espressione “digital labour” è “digitus, il dito che serve a contare ma anche quello che clicca su un tasto”, ricorda Casilli sottolineando la presenza del corpo, milioni di corpi, dietro ogni processo auto-movente.
E il libro di Casilli è a tutti gli effetti un’inchiesta sul lavoro: porta alla luce la quota di lavoro non riconosciuta e non pagata; si interfaccia direttamente con il malessere dell’oggetto di ricerca e le sue rivendicazioni; infine, descrive tendenze non ancora sviluppate a pieno. La parte seconda del libro coniuga questi livelli nell’analisi di tre forme fondamentali di digital labour (digital labour on-demand, microlavoro, lavoro sociale in rete) evidenziando il ruolo svolto dalle piattaforme nel cambiare il mondo del lavoro nella sua interezza, anche quello non digitale:
La piattaforma non è soltanto un modello di organizzazione dei giganti della web economy, ma un paradigma che ispira un numero sempre crescente di attori. Le aziende private ma anche quelle statali o parastatali hanno iniziato un processo di piattaformizzazione per riprodurre quel modello.
Il digital labour on-demand comprende piattaforme come Deliveroo, Uber e Care.com. I lavoratori svolgono le loro mansioni “sia online che nel mondo esterno” entro spazi circoscritti (città, regione): l’applicazione abbina clienti e lavoratori/trici, ma le prestazioni sono svolte dal vivo. Queste aziende costituiscono un vettore fondamentale di allargamento della digitalizzazione: spostano su piattaforma attività che richiedono grande sforzo fisico e attenzione mentale – guidare, consegnare, accudire anziani – rendendo plausibile l’unione tra lavoro fisico e da remoto. Con l’effetto di “guadagnare molto meno in media rispetto agli omologhi con contratto tradizionale”. Sono queste piattaforme a svelare il paradosso al cuore del modello di intermediazione digitale: nonostante si tratti di “lavoro ostensivo” (visibile), “la vita quotidiana è fatta innanzitutto di mansioni informatiche svolte sullo schermo dello smartphone”. Un conducente di Uber deve decifrare e organizzare “le procedure opache dell’interfaccia”, controllando costantemente l’applicazione per prenotare richieste e contrattare il prezzo delle corse; monitorare la sua e-reputation aggiornando il profilo, gestendo i feedback e le relazioni con i passeggeri con messaggi e chiamate: “non è una questione di popolarità o di astratto capitale sociale (…) Per evitare di essere escluso dal servizio, deve dedicarsi di più alle interazioni con i passeggeri” e agli “aspetti social”. Con questi casi di studio, Casilli ci libera dall’idea che il digital labour sia di natura immateriale: al contrario, la dicotomia tra sforzo fisico e attività della mente va superata identificando “una dicotomia ancora più determinante, quella che oppone un lavoro immediatamente riconoscibile ad attività che, attraverso la mediazione delle piattaforme digitali, diventano tacite, invisibili e fondamentalmente implicite”.
Il microlavoro consiste nell’esecuzione di attività standardizzate e a bassa qualificazione, mentre il lavoro sociale in rete riguarda le attività che si svolgono sui social network. Al netto delle differenze tra i due, piattaforme come Mechanical Turk e Facebook realizzano la tendenza alla delocalizzazione delle mansioni senza limiti geografici e soggettivi: “il lavoro mediato dalle tecnologie (…) richiama paradossi simili a quelli del lavoro domestico [perché] permettono di sfruttare al massimo le logiche di dipendenza che caratterizzano gli ecosistemi umani (…) non all’interno del classico luogo di lavoro”. Si lavora in ogni dove e momento, sia come operaio del clic – correggendo da casa stringhe di codice o traduzioni a pochi centesimi – sia come utente che elabora post, commenti e like nei momenti di svago.
Tutto ciò è da considerarsi lavoro? Casilli non ha dubbi a riguardo. Sono tali perché generano tre forme di valore decisivi per le aziende del digitale: valore di “qualificazione”, ovvero “il lavoro effettuato dagli utenti per designare oggetti, informazioni o altri utenti allo scopo di far funzionare le architetture informatiche”; valore di “monetizzazione”, grazie alla vendita dei dati sul “mercato miliardario del targeting pubblicitario”; il valore di automazione, dove le informazioni degli utenti, le loro capacità di classificazione e supervisione (quante volte abbiamo corretto una traduzione automatica su Facebook?) allenano gli algoritmi: sono le “fonti principali di esempi per parametrare gli algoritmi di apprendimento e misurare la performance”.
In fondo, conclude Casilli, la creazione di sistemi intelligenti del tutto autonomi è logicamente impossibile: “l’intelligenza umana che vorremmo far riprodurre alle macchine non è nè un processo immutabile nè un’entità univoca (…) il simulacro artificiale ha bisogno di aggiornamenti che soltanto gli esseri umani saranno in grado di fornire”. Anzi, ogni tentativo di sostituzione non fa altro che reinventare lo sfruttamento.