P er un certo periodo di tempo, la fotografia più costosa al mondo è stata 99 Cent II Diptychon di Andreas Gursky: nel 2007 l’immenso dittico (due metri per tre) veniva battuto all’asta per una cifra superiore ai tre milioni di dollari. La fotografia rappresentava gli interni di un supermercato: viste da lontano, le merci affastellate e ordinate con cura sugli scaffali sembravano formare la trama di un intricato tappeto astratto.
Nei konbini in Giappone risuonano sempre mille rumori. Dal trillo all’ingresso che annuncia l’arrivo dei clienti alla voce cantilenante di una star della TV che pubblicizza nuovi prodotti e si diffonde nel negozio attraverso gli altoparlanti. Dal saluto dei commessi che accolgono i clienti gridando a perdifiato ai bip dello scanner alla cassa. Il tonfo dei prodotti sul fondo del cestino della spesa. Il fruscio dell’involucro di cellophane di dolcetti e focaccine. Il ticchettio dei tacchi sul pavimento. Una miriade di suoni che si fondono tra loro e si insinuano dentro di me senza sosta: è la ‘musica del konbini’.
Inizia così La ragazza del convenience store, romanzo della scrittrice giapponese Sayaka Murata, classe 1979, autrice prolifica, tanto premiata quanto amata in patria. La trama del romanzo si svolge tutta qui, all’interno delle mura di un konbini, il tipico minimarket giapponese, dove la protagonista Keiko cerca di alleviare il proprio senso di inadeguatezza servendo i clienti, giorno dopo giorno, anno dopo anno: “è come una corsa contro il tempo: mi do da fare senza riflettere, – dice Keiko – lasciando che il mio corpo obbedisca all’abitudine”.
Scritto con una lingua piana e asettica, La ragazza del convenience store è la storia di una donna che prova a sfuggire ai desideri di realizzazione altrui: trentaseienne, introversa, incapace fin dall’infanzia di interagire con gli altri, a Keiko non interessano i concetti di evoluzione e miglioramento; per lei il mondo è questione di ordine e di pulizia, è una meccanica ripetizione di rituali, che smette di avere senso lontano dal konbini.
Il romanzo di Sayaka Murata condivide con l’opera di Gursky la stessa aspirazione a una immacolata perfezione: Keiko vuole essere invisibile, come invisibile è la mano di Gursky, che si limita a registrare una realtà che non ha bisogno di noi per continuare: “io stessa”, dice Keiko, “non sono altro che un minuscolo componente di quel meccanismo che gira senza mai fermarsi, in quell’intervallo di tempo che chiamiamo mattina”. La sua riservatezza, però, diventa a poco a poco più inquietante, sfociando nella sociopatia: di fronte al nipote appena nato, si trattiene dall’ucciderlo pur di acquietarne il pianto; eppure non è solo questo a rendere la sua presenza perturbante: Keiko, incapace di empatizzare con chi la circonda, sembra addirittura privata di un mondo interiore; impara a comportarsi seguendo il comportamento, le inflessioni e i gesti dei colleghi, come una bambola meccanica, come un computer in cui viene scritto, passo passo, un codice.
“Il konbini è un luogo che si regge sulla normalità, un mondo dove tutto ciò che è anomalo e inconsueto deve essere rimosso” e così anche lei si oblitera per diventare parte di un sistema, un ingranaggio necessario quanto lo sono gli scanner della cassa, le scatole di detersivo, le porte automatiche, né più né meno. Ricorda A., la protagonista de Il corpo che vuoi di Alexandra Kleeman (Black Coffee, 2017), che pagina dopo pagina, sembra perdere l’identità e, poi, persino i connotati del volto: finirà anche lei per rifugiarsi in un Wally’s, un enorme supermercato in cui i dipendenti indossano gigantesche teste di gommapiuma con la mascotte della catena che li rendono indistinguibili l’uno dall’altro.
Keiko impara a comportarsi seguendo il comportamento, le inflessioni e i gesti dei colleghi, come un computer in cui viene scritto, passo passo, un codice.
Fuori dal corpo, dentro la merce. Le “interminabili file di pareti colorate” raccontate da Kleeman – “lisce come il velluto, che via via che ti avvicini si increspano e si frammentano in tanti loghi identici” – sembrano produrre uno spaesamento che diventa a poco a poco più confortante, uno spazio dove l’annullamento di sé coincide con una liberazione da obblighi e nome. Tuttavia, La ragazza del convenience store è un romanzo che parla soprattutto di non conformità, celibato e ruoli imposti dal genere. A muoverne la trama è la decisione di Keiko di sposarsi con Shiraha, un altro misfit che lavora al konbini: entrambi privi di passioni e ambizione, trovano in un matrimonio fittizio sollievo dalle domande dei parenti sul proprio futuro. Questo dibattito sulla normatività sessuale manca, però, di disinvoltura, affrontato in lunghi scambi a tesi, piuttosto che con la brillantezza e l’accuratezza che sarebbero richieste (“È vero Keiko, faresti meglio ad accasarti. Prima o poi uno lo trovi, no? Voi donne siete fortunate, avete sempre una scorciatoia a disposizione”).
È forse anche lo spostamento sul piano del reale a irrigidire il romanzo: il carattere perturbante della protagonista, che è forse la parte più affascinante della scrittura di Murata, diventa una questione ora psichiatrica ora di eccezionalità rispetto a una norma sociale, e questa indecisione ne attenua la potenza. I passaggi che descrivono la città come fantasmatica e priva di vita (“sembrava tutto finto, quegli edifici bianchi e suggestivi, quel silenzio assordante. Come in un plastico fatto con del cartoncino”) rimangono così orfani, malgrado la loro capacità evocativa.
Molto più potente è Materiale di prima scelta, il suo racconto contenuto in Freeman’s – Scrittori dal futuro (Black Coffee, 2018), dove Murata immagina un mondo in cui i vivi indossano le spoglie dei morti, tra anelli fatti d’osso e veli da sposa di pelle umana: “per cosa verranno usati i nostri corpi tra cento anni? Diventeremo gambe per sedie, maglioni o lancette? Da morti saremo utili più a lungo di quanto non lo siamo stati in vita?”: la compresenza di morte e di vita, di naturale e artificiale, trasformano le dinamiche di una coppia in procinto di sposarsi in un racconto perturbante e orrorifico.
Se, come dice Emma Glass in Carne “la pelle è un organo molto anomalo, fatta di cellule morte e vive. Mezze morte, mezze vive”, quella dei personaggi di Sayaka Murata non sembra neppure più umana, ma composta, invece, di frammenti di plastica e stringhe di codice.
Ripenso al momento in cui ho visto mio nipote in ospedale attraverso l’ampia vetrata del nido, dopo la nascita. Dall’altra parte del vetro sento provenire una voce limpida e vivace molto simile alla mia. Le mie cellule vibrano all’unisono in ogni angolo del corpo, le sento agitarsi sottopelle, risvegliate dalla musica soave del konbini.