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a prima raccolta di poesie di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae, è una serie di liriche che si interrogano sul rapporto tra l’uomo e la realtà. Eppure emerge come anche lo strumento poetico, mediazione percettiva, si trovi talvolta a combattere con un muro di indicibilità che può solo cercare di scalfire: una volta la scrittura “non è specchio, piuttosto / il vetro zigrinato delle docce, / dove il corpo si sgretola / e solo la sua ombra traspare / incerta ma reale” (Albatross), in un’altra occasione invece è la vista a non garantire il completo possesso del reale, “Gli occhi si consumano come matite / e la sera disegnano sul cervello / figure appena sgrossate e confuse. / Le immagini oscillano e il tratto si fa incerto, / gli oggetti si nascondono: / è come se parlassero per enigmi continui / ed ogni sguardo obbligasse / la mente a tradurre” (L’arte della miopia). In entrambe le situazioni sembra però che a un cedimento dello sguardo non corrisponda un fallimento dello scrittore, ed è così che attraverso una resistenza a questa condizione “la miopia si fa poesia”.
Non sono in effetti pochi gli scrittori che a questa carenza del vedere hanno associato una creatività prodigiosa (l’esempio noto di Borges) o uno stile e una direzione differente rispetto al loro lavoro precedente (il D’Annunzio del Notturno). Appartiene a questi autori che necessitano di sopperire a una difficoltà della percezione anche Carlo Levi, autore celebre soprattutto per un unico romanzo, Cristo si è fermato a Eboli, ma la cui opera complessa e variegata custodisce tesori poco considerati (un libro su tutti, il lodevole romanzo politico L’orologio): il suo Quaderno a cancelli, ripubblicato adesso da Einaudi in una nuova veste filologica arricchita da acquisizioni inedite e curata con precisione da Riccardo Gasperina Geroni, è infatti un libro che Levi scrisse in uno stato di semi-cecità, pubblicato postumo nel 1979 con le cure della compagna di Levi Linuccia Saba e dello studioso Aldo Marcovecchio. Lo scrittore torinese infatti, in una sera del gennaio 1973, mentre stava andando al cinema con la compagna, avvertì un fastidio agli occhi e disse alla moglie: “Nevica!”. “Magari”, gli rispose lei, non nevicava, e quella era solo la prima avvisaglia del distacco della retina dovuto al diabete.
Così nel 1973 Levi subirà due interventi chirurgici agli occhi vivendo lunghi periodi nell’oscurità totale, alleviato solo dall’utilizzo di un particolare occhialino che aveva la funzione di riallenare la vista. In queste condizioni e rinchiuso nella sua camera di ospedale, Levi riuscirà comunque a scrivere attraverso un quaderno dotato di una griglia metallica per tenere allineata la scrittura. Come giustamente sottolinea Geroni nella sua Introduzione, il titolo del libro non si riferisce solo alla strana impalcatura utilizzata per la scrittura, ma sembra alludere anche, in chiave metaforica, a una condizione di prigionia e di costrizione, nonché alla sua detenzione carceraria a Regina Coeli, quando “lo spazio e il tempo della cella perdono i connotati di realtà”. Ecco allora che per Levi, rinchiuso in una camera di ospedale e privato della vista, la scrittura diventa uno strumento per indagare quello che si trova oltre la soglia del vedere, un nuovo motore percettivo da allenare e sforzare: il Quaderno a cancelli non è allora un’opera progettata nei suoi particolari (e per questo diversa dai Notturni di D’Annunzio che subirono invece una risistemazione), quanto un flusso continuo di voce che prova ad allontanare l’avvicinarsi inquietante delle tenebre. Tenendo ben presente l’eccezionalità che assume allora questa nuova condizione compositiva, si comprende meglio anche il contenuto di quest’opera che solo in pochi tratti si avvicina a dati concreti – la prima operazione, la convalescenza, il ritorno a casa e la nuova operazione – per trovarsi maggiormente a proprio agio invece in una dimensione onirica in cui si mescolano senza apparente continuità ricordi, eventi del passato, pensieri e immagini fantastiche, una dimensione che dipende dalla fiducia nella scrittura, e nella pittura, come mezzi per salvare ciò che sta iniziando a essere coperto da un velo buio. Se si cercasse un filo conduttore nel discorso di Levi sarebbe probabilmente il riferimento continuo allo stato di malattia e il perpetuo sentimento di morte, la differenza profonda avvertita verso chi è sano e il lento ma inesorabile abbandono delle forze: “Pagina nera (di nuovo) per me: bianca, per gli altri. Ricomincia il lasciarsi essere, allo stadio delle larve deposte sotto terra dagli insetti materni”, scrive Levi nell’aprile del 1973.
Levi non si limita a scrivere di se stesso, ma racconta invece un mondo in disfacimento, “fatto soltanto ormai di strade, che portano dappertutto, in un perpetuo week-end poetico”.
In questo libro è poi contenuta un’importante distinzione fatta da Levi sugli esseri umani, che vengono divisi in due grandi gruppi a seconda del loro carattere (distinzione su cui si concentra Italo Calvino nella sua recensione al volume apparsa originariamente sul Corriere della sera nel giugno del 1979 e qui riportata in appendice). Questi due grandi gruppi sono gli “allergici” e i “diabetici”, personalità che Levi descrive con profondità e dovizia di particolari, riportando alla mente, proprio per l’impressionante capacità di discriminazione, le migliori pagine dei Caratteri di La Bruyere. Levi è convinto infatti che “la storia del mondo è iscritta nelle malattie assai meglio e più chiaramente e profondamente incisa che nella storia delle idee e delle istituzioni, assai più ingannevoli e equivocabili e alterabili e sofisticabili che non quella dei tessuti, della carne e del sangue, e del cuore e del respiro”.
I primi, gli “allergici” sono quelli che “sono sempre contro qualcuno, contro l’altro, hanno costantemente un nemico che li tiene svegli”, sono “i fondatori e sostenitori degli eserciti permanenti e costosi, dei controlli, del potere dello Stato”, i “diabetici” invece, ai quali Levi apparteneva anche solo per la sua cartella clinica, ma anche soprattutto per ciò che testimonia di sé la sua opera, sono quelli in cui come all’interno del corpo “le sostanze circolano tra i tessuti” liberamente, così nelle cose della vita hanno un animo aperto, “liberi e liberali, e affettuosi e amorosi”, tendenti “alla grandezza, all’universalità, alieni dalla violenza”: “non si chiudono le porte neppure la notte, non si sorvegliano né si fanno sorvegliare”. Come nota Calvino in queste pagine, tra le più belle del Quaderno, dalla solare espressione del carattere dei diabetici e dunque in una sorta di autoritratto dello scrittore, emerge anche la consapevolezza di ciò che di terribile a loro può capitare: Levi è in quella condizione di salute a causa della sua malattia ed è di questa che sta parlando cosicché “più la riconosce – scrive Calvino – come parte di sé tanto più c’è amarezza nella sua voce, consapevolezza che questo modo d’essere porta in sé una condanna”. È anche la metafora di una sconfitta esistenziale davanti a un mondo, stavolta è Levi a parlare, “allergico, con le sue ideologie allergiche, le sue superstrutture allergiche”, dove è normale che il “Diabete scada al livello di anormalità, diventi malattia”.
Al di là della triste e dolorosa condizione fisica, elementi imprescindibili per l’interpretazione di questo testo e che certo rappresentano il punto centrale della riflessione dello scrittore, la perdita della vista e la scrittura di questo divenire oscuro sono anche lo strumento che esprime lo sconforto e la vulnerabilità di Carlo Levi, l’uomo “dolcissimo sempre sull’alto nella barricata” come lo descrive Calvino.
Il buio calato nella vita di Levi, l’annebbiamento dei sensi e il pensiero della morte sono anche la testimonianza di come Levi avesse avvertito il momento di svolta storica che stava vivendo e avesse scelto, come per il resto della sua vita peraltro, di utilizzare la scrittura per fronteggiare e contrastare la realtà e per lasciare un suo lucido sguardo finale. Se le cose stanno così, allora Levi non si limita a scrivere di se stesso, potrebbero “seguire lunghi tempi di cecità di massa” annota infatti, ma racconta invece un mondo in disfacimento, “fatto soltanto ormai di strade, che portano dappertutto, in un perpetuo week-end poetico”.