S ono profondamente convinto che [la presenza dell’autore odierno] sia qualcosa d’inevitabile. […] È come quando si gira un documentario. O si cerca di far credere che si mostrano le persone come sono ‘veramente’, vale a dire come sono quando noi non siamo lì a riprenderle. O si ammette che il fatto di riprenderle modifica la situazione, e allora ciò che si riprende è proprio questa nuova situazione. A me non disturbano quelli che in gergo si chiamano ‘sguardi in macchina’: al contrario, li conservo, addirittura attiro l’attenzione su di essi. Faccio vedere cosa indicano questi sguardi, ossia quello che nel documentario classico si presume debba restare fuori campo: la troupe mentre gira, io che dirigo la troupe, e i nostri diverbi, i nostri dubbi, i nostri complicati rapporti con le persone che riprendiamo. […] Sono due scuole diverse, e tutto ciò che si può dire a favore della mia – la scuola del sospetto, del dietro le quinte e del making of – è che è più in sintonia con la sensibilità moderna di quanto non lo sia la pretesa allo stesso tempo altezzosa e ingenua di Marguerite Yourcenar di annullarsi per mostrare le cose come sono nella loro essenza e nella loro verità”.
Carrère è un fuoriclasse, non c’è altro modo di definirlo. È un fuoriclasse della parola, con una voce fortissima capace di rendere interessante qualsiasi storia, anche quelle che sulla carta non ti interesserebbero per nulla. Basti dire che io lo amo pur non essendo un appassionato di cronaca nera, indagini giudiziarie e omicidi efferati, e spesso è a questo tipo di tematiche che si dedica, sempre però mettendoci dentro moltissimo di se stesso, riflessioni sulla natura umana e lo sforzo di capirla. Dopo qualche traduzione italiana non fortunatissima, Carrère deve la sua riscoperta all’uscita di Limonov per i tipi di Adelphi, nel 2012 – libro formidabile che racconta la storia vera di un uomo che in una sola vita è stato poeta, artista, senzatetto, intellettuale a Parigi, guerrigliero in Jugoslavia e leader di un partito nazionalista in Russia – al cui successo sono seguiti molti titoli, tra i quali citiamo almeno L’avversario (precedente a Limonov) e Il regno, tutti appartenenti alla “seconda fase” di Carrère.
Lo scrittore francese infatti ha cominciato come romanziere, scrivendo storie di fantasia per tutti gli anni Ottanta, e dopo dieci anni spesi soprattutto scrivendo sceneggiature, è solo nel 2000 che è passato alla non-fiction, al racconto di storie vere (spesso con taglio autobiografico), di cui è presto diventato uno dei maggiori esponenti nel mondo. Quest’ultimo Propizio è avere ove recarsi, che prende il titolo da una frase dell’I Ching, rappresenta una sorta di dietro le quinte di tutta questa fase. Raccoglie infatti testi scritti tra il 1990 e il 2014, e in particolare dopo il 2000. Si tratta di prefazioni, articoli per giornali, reportage, idee per film, riflessioni… Che spesso si incrociano con i suoi libri di quegli anni. Per ciascuno di essi infatti viene qui riportato il lavoro preparatorio con i suoi dubbi, e spesso sono presenti gli articoli dove per la prima volta ha parlato dei temi che avrebbe poi approfondito (appunto in Limonov, L’avversario, Il regno, ma anche in La vita come un romanzo russo e Vite che non sono la mia). Per questo rappresenta anche un’ideale introduzione per chi non ha mai letto nulla di suo. Ci sono molte recensioni di libri e alcuni reportage – molto bello quello da Davos:
Fin dal primo giorno ci ha stupito l’atmosfera new age che pervade questo raduno di maschi alfa in abito grigio. Il secondo giorno ha cominciato a stordirci e il terzo non ne potevamo più, si soffocava in quella nube di discorsi e slogan usciti direttamente dai manuali di autosviluppo e di positive thinking. Non occorreva certo venire fin qui per scoprire che l’ottimismo è più diffuso tra i fortunati del pianeta che tra gli indigenti, ma qui è talmente inflazionato e slegato da ogni esperienza comune che anche il più pacato osservatore si ritrova a oscillare fra l’indignazione rivoluzionaria, sul versante idealista, e il più cupo sarcasmo, sul versante misantropo.
E poi ancora storie assurde, incontri con uomini straordinari (notevole il pezzo in cui si reca al cospetto del cosiddetto Uomo dei dadi, misterioso autore di un romanzo di culto degli anni Settanta che pare avere demandato ogni decisione della sua vita al caso: “Verso la fine degli anni Sessanta Luke Rhinehart faceva lo psicanalista a New York e ne aveva le scatole piene”), cronache più o meno erotiche per una rivista italiana (“Questa cronaca ha scoraggiato Fiona al punto da mettere fine alla mia collaborazione con Flair, e più o meno consapevolmente è per questo che l’ho scritta: ne avevo abbastanza. In seguito ho scoperto che quelle eiaculazioni femminili, che i siti porno chiamano squirting, fanno la felicità di moltissimi appassionati – e, quando capita, anche la mia”) e moltissime riflessioni sul suo lavoro e la letteratura, e sull’invadenza del narratore o del cronista (che prendono le mosse da pezzi su Balzac o su Truman Capote).
Sino a pochi anni fa mi sembravano di una imperdonabile e piatta volgarità la presenza invadente di Balzac nei suoi libri, i suoi commenti, le sue opinioni su tutto – spesso bizzarre, qualche volta idiote – e la sua petulante presunzione. Invece in questo momento (ma l’ago della bilancia può ancora tornare a pendere dall’altra parte) trovo piatti e – in un modo loro caratteristico, più velato e di conseguenza più imperdonabile – volgari gli illustri scrittori di stretta osservanza flaubertiana, ossessionati dall’impersonalità e dalla perfezione formale di libri che si reggono solo sulla forza dello stile.
Carrère scopre di essersi sbloccato solo quando ha cominciato a mescolare se stesso alle storie degli altri: “dopo qualche pagina ho capito che avevo finalmente cominciato a scrivere il libro che da tanto tempo mi sfuggiva. Accettando la prima persona, accettando di assumere la mia posizione e nessun’altra, accettando cioè di liberarmi dal modello Capote, avevo trovato la prima frase, e il resto era venuto, non dirò facilmente, ma senza interruzioni e con naturalezza.” Da allora lo scrittore non si ritiene più in grado di inventare storie, o meglio, scopre che non gli interessa più parlare di persone che non siano reali. Si considera ormai un ritrattista, anche di se stesso, come racconta in una conferenza tenuta a Firenze.
Guardate un ritratto, uno qualunque. Vi accorgerete di riuscire a distinguere istintivamente, intuitivamente, senza neanche rendervene conto, quelli che sono stati dipinti dal vero da quelli che raffigurano personaggi inventati, nati dalla fantasia dell’artista. […] Non dico che i primi siano migliori dei secondi, dico soltanto che sono diversi, e che questa diversità salta agli occhi. […] Il volto di San Luca nel quadro di Rogier van der Weyden è uno di quelli che non lasciano dubbi: è una persona reale. E dagli storici dell’arte apprendiamo che non soltanto è una persona reale: è lo stesso Rogier van der Weyden. Il suo san Luca è un autoritratto. Il giorno in cui l’ho appreso sono stato molto contento perché, nel mio libro, ho fatto la stessa identica cosa. Sotto le sembianze di san Luca ho dipinto me stesso. Potrei dire, come Flaubert di Madame Bovary: ‘Luca sono io’, e in tutta onestà mi sembra di aver fatto la scelta più sensata. Probabilmente il mio Luca non somiglia al vero Luca, nessuno sa a cosa somigliasse il vero Luca, ma almeno somiglia a me: meglio che niente. L’importante, credo, non è a chi si somiglia: quel che conta è essere somiglianti.
È strano che Carrère sia uno scrittore di moda pur essendo sulla carta un grande antipatico, incapace di generare grande empatia: bianco, benestante, di buona famiglia, uno che si definisce da solo un radical chic. “Io vivo in un paese tranquillo, in fase di declino, dalla mobilità sociale ridotta. Nato in una famiglia borghese di un quartiere elegante, abito ora in una zona di Parigi decisamente radical-chic. Figlio di un alto dirigente e di una storica famosa, scrivo libri e sceneggiature, e mia moglie è giornalista. I miei genitori hanno una casa di vacanza sull’Ile de Ré, e a me piacerebbe comprarne una nel Gard. Non che questo sia un male o limiti le possibilità di arricchimento dell’esperienza umana, ma, insomma, dal punto di vista geografico e socioculturale non si può dire che la vita mi abbia condotto molto lontano dal mio punto di partenza, e lo stesso vale per la maggior parte dei miei amici.”
Una persona che non ha problemi a parlare, anche con una punta di autocompiacimento, delle sue buone letture, dei suoi viaggi, delle sue donne. A un certo punto parla del distacco tra una fotografa e le persone ritratte nel suo lavoro (tossici e protagonisti di vite disastrate), sottolineando con una certa ammirazione come questa riuscisse a non cedere mai alla tentazione dell’amicizia, come fosse sempre consapevole che il suo posto nella società è diverso da quello dei suoi soggetti.
Nonostante le sue difficoltà economiche era consapevole di essere infinitamente più ricca – in particolare di futuro – di tutti quelli che conosceva a Tenderloin, e si è sempre comportata di conseguenza. Ha sempre dato quel che poteva a chi glielo chiedeva, e non ha mai fatto come se la sua condizione non fosse diversa dalla loro. In assenza di un’impossibile uguaglianza, ha stabilito con Julie un rapporto alla pari fra due esseri umani raccontandole dei suoi fidanzati e dei suoi reportage in paesi che Julie non aveva mai nemmeno sentito nominare. […] Non ha mai invitato Julie a casa sua, e Julie, che a modo suo era intelligente, non glielo ha mai chiesto.
Carrère è un narcisista totale che non riesce a tenersi fuori dai suoi libri, che fa venire in mente la famosa frase di Dino Risi su Nanni Moretti (“mi viene sempre da pensare: scansati e fammi vedere il film”), ma che riesce sempre a rapirti, a trascinarti nella sua testa e a tenerti avvinghiato alle pagine, costretto a volere leggere subito anche il capitolo successivo, chiedendoti con quale storia potenzialmente poco interessante riuscirà a sedurti questa volta. Seduzione forse è proprio la parola giusta.
È un autore che ti fa entrare nel suo mondo rendendoti partecipe delle storie cui si dedica come se fossero dei segreti, mettendoti la voglia di leggere tutto, di seguirlo in tutto. È uno di quegli scrittori ai quali ci si affeziona, e di cui si vuole leggere ogni parola. Il suo talento mostruoso è un modello per tutti quelli che si sono scelti una professione che ha a che fare con la scrittura, ed è sensato il sospetto che possa fare molti danni, facendo indulgere nell’autobiografismo più masturbatorio un sacco di epigoni. Finché ci possiamo godere l’originale, però, siamo contenti così.