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a vendemmia del 1570 fu disastrosa. In quel di Zurigo, il teologo Heinrich Bullinger si lamentava sul suo diario di “una primavera, come l’inverno, […] fredda e umida”. Due anni prima Hermann Weinsberg, ricco proprietario di Colonia, in Germania, aveva versato la sua ultima bottiglia di vino e disperato si lamentava: “Quasi tutte le vigne hanno smesso di produrre e non c’è vino in giro”. Il primo inverno di Philipp Blom (Marsilio) non è un trattato enologico ma discute spesso di vino per raccontare la cosiddetta “piccola era glaciale” che colpì l’Europa e il mondo intero dal 1570 al 1700, spargendo carestie e disperazione ma anche, secondo l’autore olandese, agendo da scintilla per la modernità europea. Tutto ha inizio il 19 febbraio del 1600 con la violenta eruzione del vulcano Huaynaputina, in Perù, che scaraventò nell’atmosfera tonnellate di ceneri e acido solforico. Il risultato fu un “inverno vulcanico” che avrebbe interessato il mondo intero per più di un secolo.
Blom ha deciso di raccontare un evento atmosferico come un oggetto culturale, seguendo i suoi riverberi nella tradizione militare, economica e sociale del tempo. Dobbiamo a questo lungo e incredibile inverno, per esempio, lo sbocciare di una nuova forma d’agricoltura “globale”. Visto che molti Paesi europei, quelli continentali e nordici tra tutti, dovettero interrompere la coltivazione di molte varietà di piante ormai inadatte al clima, alcuni governi furono costretti all’impensabile: specializzarsi e aprirsi al mercato.
Gli agricoltori dei Paesi Bassi, che già sul finire del XVI secolo, di fronte alla concorrenza dei grandi commercianti di granaglie, avevano iniziato a privilegiare l’allevamento, producendo carne, burro, latte e formaggio destinati al mercato, avevano ben presto potuto constatare che quella ristrutturazione aveva una conseguenza inattesa: i terreni, stremati da secoli di monocolture, stavano tornando fertili.
La guerra fece il resto. Il Seicento fu un periodo di notevole progresso tecnologico in cui si sancì il passaggio dalla spada al moschetto e il cannone: l’epicentro della rivoluzione fu la Guerra dei Trent’anni, ciclo di conflitti che insanguinò l’Europa centrale nel XVII secolo e funse da laboratorio sperimentale per una nuova ars bellica. Prima di tornare al ruolo del freddo in tutto questo, è utile ricordare le conseguenze politiche e sociali della nuova dottrina militare, che necessitava di “lunghi periodi di addestramento, nel corso dei quali gli uomini andavano alloggiati, nutriti e pagati”, favorendo l’organizzazione di caserme, uniforme e gerarchie sempre più moderne – ma anche costose. Le nuove spese militari sorgevano mentre il gettito fiscale dalle campagne si era fatto incerto, per via dell’inverno eterno. Fu Thomas Mun, dirigente della Compagnia britannica delle Indie orientali a indicare la nuova via: “Dobbiamo attenerci a questa regola, vendere agli stranieri più merci di quelle che acquistiamo da loro ogni anno”. Fu così che un freddo che sembrava una punizione divina e una guerra senza fine posero le basi del capitalismo.
Dalle colonie americane, intanto, era arrivato la patata, tubero la cui diffusione sarebbe stata favorita da, lo avrete intuito, due fattori: il freddo e la guerra: “Quando una fazione si ritirava [dal campo di battaglia, Nda],” racconta Blom, “dava alle fiamme i campi di grano per isolare il nemico all’inseguimento”, distruggendo raccolti preziosi in un periodo già difficile. Le patate, invece, crescendo sotto terra, erano più difficili da distruggere: toglievano un punto di forza tattico al nemico e consentivano alla popolazione di mettere qualcosa sotto i denti. Il primo inverno è un libro vasto che insegue l’eco dello stravolgimento climatico anche al di là dell’agricoltura e la guerra. Per esempio, mostra gli effetti della piccola era glaciale anche nel campo filosofico:
A Neuburg an der Donau in novembre, faceva già talmente freddo che Descartes si chiude in casa per tre giorni accanto a una grossa stufa accesa. Secondo uno dei suoi primi biografi, durante quel ritiro è visitato da tre visioni: un messo divino gli aveva rivelato le grandi linee di una vera filosofia.
Una leggenda, certo, ma Blom è lesto a unire fili ricordandoci che “da quel giorno il ventiquattrenne Descartes abbandona la carriera di ufficiale”, indicando quel lungo inverno come una sliding door senza la quale il pensiero europeo non sarebbe lo stesso. Non è insomma il nesso casuale diretto a interessarci quando l’impatto globale e impalpabile che il cambiamento climatico ha avuto nelle società umane. Non parliamo solo di vigne che muovono verso sud, della forzata diversificazione agronomica e della maggiore concentrazione di capitali, quanto del potere culturale che un lago ghiacciato in primavera può avere nell’inconscio collettivo: “la pioggia che mi cade in testa non è il riscaldamento globale”, ha scritto nel XXI secolo Timothy Norton nel suo Iperoggetti parlando di cambiamenti climatici d’origine umana e dalle conseguenze ancora inimmaginabili; lo stesso si può dire di un remoto vulcano che finisce per abbassare la temperatura e, quasi per caso, inventare la Modernità.
Quali saranno gli effetti del “nostro” cambiamento climatico? Quali forme avrà la società umana che lo avrà attraversato? Intanto il 2017 è stato l’anno con la produzione vinicola minore degli ultimi 60 anni: dopo aver letto Il primo inverno, potrete pensare che non può trattarsi di un buon segno.