M ilano non è mai salva, non lo è prima di Expo e non lo è dopo Expo, non lo è tra il porfido del centro e non lo è tra i viali delle periferie; non lo è stata nei movimenti e fuori, nei salotti come nei cortili. Chi lo sa bene e chi soprattutto ha saputo raccontare Milano vista dal centro della strada, dal mezzo della lotta, è Marco Philopat. Marco Philopat è tra i pochi in assoluto capaci di costruire prima ancora che di narrare un’epica milanese di popolo, chiaramente non popolare, non mediata, ma densa di biografie che nella loro scomposta esattezza sono puntuali e inarcate nel corpo cittadino. Milano è una città infranta e lo è quasi da sempre, certamente da prima che la mano che scagliò la prima pietra ne rese evidente la sua esplosiva frammentarietà.
Milano è dunque i suoi frammenti sparsi, i suoi abitanti sempre più disabitati; una città dal disordine sovrapposto che si autoimpone regole di portamento più che di comportamento. La deriva a Milano ha l’odore dei Movimenti passati, pestati e come racconta abilmente Marco Philopat più volte oppressi anche se sempre più è vietato dirlo (vietato per questioni di etichetta, di portamento per l’appunto). Milano è attraversata – e lo è in continuazione – sulla linea della sua immaginazione: come uno specchio che genera ricordi futuri anche in chi (come molti, anzi moltissimi) a Milano non è nato, ma è cresciuto (non tanti) o semplicemente ci è venuto per lavoro, studio o qualche altra necessità (parecchi). Questa Milano ha l’occhio della vetrina a mezzo servizio, tra nostalgia ed entusiasmo, tra amori presi al volo come capita e come viene; la terra d’origine qui si fa concime, diventa uno strumento per ricordare e ritrovare nelle architetture Ottocentesche e Contemporanee il tempo sempre più schiacciato. Questa è la Milano di Ivan Carozzi, per esempio, quella che corre a passo d’uomo sopra una bicicletta scassata tra centro e periferia in Teneri violenti (Einaudi).
Poi c’è una Milano che lavora sulla densità, sul rumore bianco, sulla crescita costante, si diceva un tempo europea. La Milano delle grandi industrie, dell’editoria e della finanza, un luogo che pare ovvio, ma che in realtà pochi sono stati in grado di raccontare attraverso uno sguardo in movimento, attraverso un percorso che ritrova tra capitani d’industria e dirigenti l’anima lombarda fatta dalle sciabordanti ondate migratorie capaci di definire un corpo patrio. Un’identità della perdita che è la cosa che più da vicino ricorda un sentimento nazionale, un’idea di Italia capace di coniugare classi e visioni, partenza e arrivo. Una Milano contrita, gelosa che prende forma tra le botteghe della piccola borghesia e gli artigiani e la glacialità di un Novecento che si è fatto sì corpo esanime, ma anche nostalgia, come tra le pagine di Michele Mari, come nel romanzo autobiografico di Alberto Rollo, Un’educazione milanese (Manni).
Tra queste due forme, per certi versi riconoscibili tra loro e allo stesso tempo ostili, si sintetizza quel passaggio in cui la biografia, il singolo, si fa movimento. E Marco Philopat ne è il cantore privilegiato Lo è stato con la trilogia sull’underground milanese che vedeva spiccare Costretti a sanguinare (Shake – Einaudi) – suo romanzo d’esordio – e il leggendario La Banda Bellini (Shake – Einaudi), e lo è ancora oggi che porta in libreria I pirati dei navigli (Bompiani), capace vent’anni dopo il suo primo libro di raccontare il mondo di sotto, quello che sta sotto l’immagine e il percepibile, quello che scalda le vene di una società ben più inquieta di quello che le cronache amano riportare. Se con i primi romanzi Marco Philopat – agitatore culturale e anima di Agenzia X, editore che ha pubblicato tra i testi più interessanti sulle dinamiche milanesi di questi ultimi anni – si è concentrato su quel tempo a cavallo tra Settanta e Ottanta, ora con I pirati dei navigli affronta a piedi uniti gli anni Ottanta, ossia gli anni del riflusso, degli yuppie craxiani, della tv berlusconiana, ma anche quello di un’imprevista rivincita morale e in parte politica. Se ne La banda Bellini lo spazio veniva occupato mettendosi al centro della strada in opposizione a uno Stato che prendeva sempre più la forma di un controllore dagli atteggiamenti militari ora lo spazio sembra ritirarsi, farsi sottotetto, indugiare più volte tra la luce e il buio di mattine dimenticate già la notte prima.
Dopo trenta volte di avanti indietro carico finalmente tutto il furgone e sono pronto a partire in direzione Ripamonti. L’ultimo giro nell’appartamento è come un film. Su un tavolo lascio un biglietto di saluti, poi vado in tutte e tre le stanze dove dormono gli altri e a ciascuno do un bacio sulla fronte o sulla guancia. Nessuno si sveglia. Così, in una maniera un po’ teatrale, lascio per sempre Rogoredo.
Philopat racconta in presa diretta, sembra che le sue pagine siano figlie di una sbobinatura dell’anima. Milano vive sotto forma di un catena fatta di luoghi in continua e frenetica espansione di senso: l’umano a metà degli anni Ottanta prevale ancora. Un’umanità che resiste nonostante il dolore, la fatica e l’odio per la presenza ossessiva della morte, vero e proprio elemento farneticante, ghigliottiana sempre pronta a segnare per sempre un luogo e nel luogo un gruppo, degli amici, una coppia e degli amanti ancora e per sempre ostinatamente giovani. Il romanzo è attraversato dagli eroi del punk, eroi persi per troppa gloria come per abbandono; il caos è nella frenesia che colpisce l’intimità, l’incapacità di dare forma a gesti di comunità. La solitudine sembra così prendere il sopravvento pagina dopo pagina, la resistenza sembra già annunciare la sua deludente inutilità.
Ho le gambe molli e mi sento stanco, mi chiedo come farò a entrare in azione. Sto una decina di minuti in trance finché sento Colin e Roby che parlano dei CCCP. Cado in preda al panico perché ho il timore che Colin se la canti o addirittura gli chieda di darci una mano. Invece sento una frase di Roby che mi fa uscire in un secondo dalla palude: ‘Nooo! Non mi piacciono i CCCP, fanno roba troppo moscia per me’.
La ricostruzione di Milano nasce da una serie di incontri occasionali, nasce come si usa dire oggi dal basso, cioè da dove nascono da sempre le cose. Una ricostruzione sentimentale che deve però farsi argine e protezione, mentre fuori cavalca la furia dell’inumano, la marea montante più volte raccontata attraverso lo spappolamento dei generi nei libri, per esempio, di Giuseppe Genna. Philopat però non sceglie il volo, ma la cronaca, vuole stare aderente alla pelle di una storia che tracima per certi versi in maniera incontenibile – gli steccati divengono così a protezione dei luoghi occupati. I discorsi si aprono liberi verso un nuovo spazio di possibile relazione: nasce il COX 18 – il Conchetta –, nasce la durezza che nasconde la morbidezza sentimentale di una resistenza che non sarà mai resilienza (e non vuole esserlo), ma che saprà nel suo movimento interno contenere e accogliere, spazzare e rifiorire. Marco Philopat racconta così una città chiusa dentro una storia d’amore e lo fa attraverso una passione politica che si fa comprensione – quindi attenzione e cura allo stesso tempo.
È il 24 dicembre e come da copione c’è una pioggia fine che si sta trasformando in nevischio. Siamo almeno in venti davanti alla Calusca. Ci passiamo gli scatoloni dei libri per impilarli nel mio furgone, parcheggiato al di là della carreggiata. Ho sborsato due milioni per questo Volkswagen verde scuro a GPL che ha già fatto almeno centomila chilometri. L’ho comprato da un tale che organizza viaggi in Oriente e in Africa.
Il Conchetta diventa luogo di innovazione e di irradiazione di una stagione che espanderà i suoi frutti ben oltre i confini di Milano, in parte perdendosi e in parte ritrovandosi su sponde distanti, ma quello che resta e che definisce al meglio il corpo in fondo minuscolo di questa citt è l’intimità di uno spazio che non è più possibile presidiare, ma che è necessario vivere. Non c’è fine in questo attraversamento e non c’è resa, ma solo la bellezza e la confusione di un andamento che non si fa mai liturgia, ma sempre e ostinatamente presenza attiva.