Marco Taddei è scrittore e sceneggiatore di
fumetti. È autore con Simone Angelini di Anubi,
Horus, Enrico e Quattro vecchi di merda
(Coconino Press) e di Malloy e Storie brevi e
senza pietà (Panini Comics). Ha scritto La Nave
dei Folli, edito da Orecchio Acerbo, con le
illustrazioni di Michele Rocchetti. I suoi articoli
sono stati pubblicati da Date HUB e The
Towner. Le sue storie sono apparse su testate tra cui Linus, Vieni verso il
Municipio, B-Comics.
È
bello sapere che esiste un mondo prima e dopo Le Avventure di Pinocchio. L’avvento di questo personaggio nel 1881 a opera di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, è uno spartiacque nella letteratura italiana e mondiale. Pinocchio, nato senza il pregio della carne, si è reincarnato così tante volte che seguirne le tracce non ha un vero senso. Tradotto in centinaia di idiomi, stampato e ristampato in ogni paese del mondo, declinato decine di volte, il pezzo di legno che vive e che vuole essere bambino, si affaccia regolarmente nelle librerie, nelle edicole, nelle serie televisive, nei cinema, come protagonista o come comparsa, sulle scrivanie degli intellettuali che lo usano come metafora di qualcosa. È ormai popolare quanto una maschera di carnevale e inquietante come un vecchio mistero irrisolto.
Le riletture sono un genere di narrativa per coraggiosi o sciagurati. Riscrivere il capolavoro è il maximum di sfida per chi si cimenta in questo sottogenere (o contro-genere?) narrativo. Si parte infatti dal logico presupposto che è arduo comporre un capolavoro da un capolavoro. Questo presupposto però non sembra funzionare per Pinocchio, se è vero che pure se riscritto, rimaneggiato, rielaborato, riconcluso, ripensato, spesso produce risultati validi come e, a volte, più dell’originale. A titolo di esempio ci sono il disperato Pinocchio televisivo di Luigi Comencini, il Pinocchio subacqueo e notturno di Luca Caimmi, quello infantile e delirante di Osamu Tezuka, il Pinocchio ossessivo ridisegnato da Marco Corona: tutti questi elaborati hanno raggiunto altissimi livelli e contribuito, come l’originale, al felice progresso della letteratura. Nonostante queste premesse, per il fumetto di Winshluss bisogna fare un discorso a parte.
Nel 1881, nel primo capitolo nato dalla penna di Collodi, Pinocchio è un pezzo di legno un po’ magico, senz’altro irrequieto –nel Pinocchio prima di Pinocchio di Alessandro Sanna lo vediamo rotolare e correre come un dio arcaico per valli e per monti – che implora mastro Ciliegia di non farne una gamba da tavolo, e che viene ceduto al collega Geppetto che ha la buona volontà di ottenerne una marionetta, come se il vecchietto dai capelli giallastri volesse cavare dal ceppo qualcosa di buono.
Nel Pinocchio di Winshluss il pezzo di legno è sparito, Geppetto, anche volendo, non potrebbe cavarne qualcosa di buono. C’è al suo posto l’immota lamiera, per niente ossessa, anzi silenziosa e noncurante – mindless, come un Grande Antico d’origine lovecraftiana – che osserva, o forse nemmeno, gli eventi che si catalizzano attorno a lui. È un pinocchio muto come un menhir, che va dove lo indirizzano, attende pacatamente il prossimo sventurato che gli dia una scossa giusta o che spinga distrattamente la punta del naso, per poter riattivare il suo apparato di armi – infatti è una macchina da guerra, non un bambolino che non vuole andare a scuola.
Con queste premesse il Pinocchio di Winshluss poteva essere un qualsiasi brogliaccio cyberpulp che prende in canzone la vecchia favoletta, ma l’autore riesce a dare la stura a certi demoni sotterranei dell’opera collodiana.
Quell’io fumoso che anima la marionetta di Winshluss è figlio di un tilt psicologico del maldestro Jimmy lo Scarafaggio, che rappresenta la voce nel cervello di ferro del nostro Pinocchio da guerra. Jimmy si rivela, più che un sollecito Grillo Parlante, un logorroico perdigiorno, orribile anima di una marionetta che non ammette nessuna forma di animazione. Dal momento in cui il bacarozzo occupa l’appartamento cerebrale di Pinocchio iniziano i guai, per usare un eufemismo, e davanti ai nostri occhi si spalanca il vorace scivolo verso il fondo più oscuro.
In questo libro cigola tutta la realtà da incubo che viviamo oggi: il capitalismo, lo sfruttamento, il turbamento, il militarismo muscolare, la malora spirituale, la rivoluzione che diventa totalitarismo, i cingolati della società che schiacciano i più deboli in un universo parallelo che è il backyard delle nostre calde e comode case, la distorsione della realtà nella pazzia, l’inquinamento tracimante, la natura incurante, il mondo che prende caldo bruciandosi i piedi, come fece il pupazzetto di Collodi, incurante del puzzo di carne bruciata.
Ci sono scintille in questo libro che producono incendi non solo nella testa vuota del Pinocchio meccanico, ma anche nel fruitore diretto delle sue truci pagine. Il Pinocchio di Winshluss è un susseguirsi impietoso di destini e di eventi che producono la slavina catastrofica del “lieto fine”, che arriverà biecamente anche in questa riscrittura famelica.
Il tratto di Winshluss sembra riportarci alle grotte di epoche preistoriche, dove ogni cosa era graffiata col nerofumo contro una parete porosa, dove ogni immaginetta di uomo con arco o mammut abbattuto aveva un significato pratico e uno trascendentale, collegandosi a un piano votivo superiore. Winshluss lavora alla stessa maniera: il piano superiore è l’originale fiabesco di Collodi e il suo modus reinterpretandi è il corteggiamento rupestre dello stesso. Dove lì c’era preghiera, qui c’è sghignazzo. Dove lì ci si votava a una divinità, qui ci si vota a un nichilismo talmente radicale che potrebbe diventare religione se non fosse così liberatorio.
La bugia riscritta è menzogna due volte. Tutta la letteratura, anzi tutta la scrittura è, come diceva Giorgio Manganelli, una menzogna. E questo fa dello scrittore il mentitore per eccellenza e di Pinocchio, forse, la sintesi meravigliosamente gioviale e giocosa dello scrittore.
Manganelli con il suo Pinocchio: un libro parallelo salda i debiti con il fantoccio di Collodi riscrivendone la storia da cima a fondo, in una delle sue leggendarie revisioni analitiche dove affonda per provare un’operazione di palingenesi totale degna del dottor Frankenstein, il cui mostro risorto è un altro meraviglioso esempio di bambolotto vivente. Nelle vicende del burattino (che, per inciso, è una marionetta) c’è qualcosa di talmente sfumato da renderlo il giardino dei sentieri che si biforcano della riscrittura. Il proteismo di questa “storia di un burattino” è dovuta alla bravura di Collodi oppure siamo noi ad aver assimilato Pinocchio al punto di vederlo ovunque nel mondo?
Alla fine, come tutti sappiamo, la meravigliosa picaresca marionetta diventa un bambino qualunque, per accedere, per dirla con Emil Cioran, a una vita che è un fondo d’inferno dove ogni secondo è un miracolo. Forse è questo il senso tragico della storia della marionetta, e ovviamente di ognuno di noi.
In un mondo strambo ma giusto questo libro si troverebbe nella casa di ogni cittadino, nelle scuole, nelle biblioteche, nelle chiese capitali di un rito che denigra il politicamente corretto e prende a schiaffi ogni insegnamento morale. Pinocchio è una favola con due anime, una oscura e l’altra luminosa. Ed è con questo lato che Winshluss stringe un’alleanza fortissima, un po’ il contrario rispetto alla successiva Nella foresta buia e misteriosa, altra tappa del suo personale viaggio nella fiaba (la più recente è il film Huntedda lui diretto, la caccia selvaggia a una moderna Cappuccetto Rosso).
Per questo libro non si fa peccato a usare la parola capolavoro. E se è vero che è un libro praticamente muto, in realtà parla, anzi canta, come un aedo, la sinfonia dell’autodistruzione, che diventa meccanica della fiaba e fa scorgere anche una catartica morale in questo ecpirosi psicocosmica, la catastrofe finale, che alla fine della lettura tutti ci auguriamo si scateni sull’intera umanità, la vera protagonista di questo volume e dell’originale di Collodi.
L’edizione speciale uscita a gennaio, di Comicon Edizioni, per celebrare il decimo anniversario, ha la copertina rigida e un finale alternativo, che spernacchia magnificamente quello di AI – Intelligenza artificiale: il Pinocchio di Spielberg, che voleva fare Kubrick, una falsificazione continua, una bugia frame by frame, di quello che poteva essere, nelle mani del migliore, un altro capolavoro.