P hilippe Forest torna nelle librerie italiane con il suo esordio Tutti i bambini tranne uno, pubblicato da Fandango nella traduzione di Gabriella Bosco dopo la prima edizione per Alet nel 2005 (nella magnifica covata dell’editore padovano, Forest stava accanto a Limonov, Denis Johnson, Michael Herr, William Vollmann, Cortazar, Vila-Matas) e dopo un passaggio in Rizzoli che non lo ha trattenuto. Un auspicio: tre editori per un libro del genere sono troppi, se lo tenga stretto Fandango.
Tutti i bambini tranne uno di Forest è un grande libro di narrative nonfiction, il testo che ha trasformato un professore di lettere in un autore in Francia e all’estero. Chi ha letto L’anno del pensiero magico di Joan Didion e La vita dopo di Donald Antrim trova in questa opera un capitolo ulteriore alla voce lutto familiare. In breve, Tutti i bambini tranne uno racconta l’ultimo anno di vita di una bambina di quattro anni, figlia dell’autore, morta per un tumore alle ossa. Non è il primo né l’ultimo libro sul dolore, ma Forest ne parla chiamando in causa la scrittura stessa, un richiamo per la letteratura a responsabilizzarsi davanti al tempo che è stato squadernato dagli eventi.
Nella tarda primavera del 1996, Philippe Forest, professore universitario e saggista, si scopre suo malgrado autore di un manoscritto che nessun cassetto avrebbe dovuto mai custodire. Autore di articoli e saggi letterari, Forest non aveva fino a quel momento mai avuto alcuna ambizione letteraria, si identificava nel ruolo del lettore di professione. Alla fine delle sue giornate lo spazio era riservato alla famiglia. L’esigenza di “posare la minima parola, abbozzare la minima storia” nasce proprio nel momento peggiore, quando la diagnosi medica e l’evolversi rapido e violento della situazione lo mettono davanti al punto stesso della vita, “dove il suo essere irrimediabilmente si disfa”. Forest scopre una vocazione brusca senza apprendistato e inizia a raccontare la morte della figlia sottraendo spazio all’oblio del lutto. Non senza difficoltà: Tutti i bambini tranne uno non è un libro facile da addomesticare, tanto che la traduttrice ha lavorato sulla nuova edizione illuminando le parti più recalcitranti alla confessione, nascoste sotto l’apparenza di un autocontrollo. Tutto il libro procede su questi due binari. Primo, la necessità di raccontare la materia vulnerabile con una scrittura iperrealista:
libri sulla morte ne escono a decine ogni mese niente di più comune. Il lutto obbliga a dire. Autori o lettori si va in cerca di parole, unico obolo pensabile per il defunto. Qualunque critico ve lo può dire, lo scrittore di qualità si riconosce dal fatto che affrontando un argomento così grave, eviterà innanzitutto lo scoglio del pathos […]. Ma io vado dove mi porta il vento della vita. Avanti tutta verso le scogliere.
E poi, la consapevolezza dell’indecenza di aggiungere ancora parole, “ho fatto di mia figlia un essere di carta” dirà verso la fine del libro, al lutto e alla “rivelazione unica e schiacciante del tempo”.
Ma il lettore Forest, perso dentro il calvario, sa che anche la parola ha attraversato i territori del lutto e ritrova nei classici letti fin da ragazzo la vertigine della premonizione del dolore (“insomma, quello che dico è vero, non è solo musica” confessa Mallarmé rileggendo tristemente dei versi scritti tempo prima), il pensiero fisso della morte (a partire dall’antitesi romantica per eccellenza, la morte nell’infanzia). La poesia può stilisticamente combattere la morte, portare il pensiero fiaccato in uno spazio privilegiato dove rimettere a posto le cose?
Questo è il tema del libro: cosa succede quando la letteratura, con le sue armi più affilate e rigorose, cioè lo studio assiduo degli autori, viene costretta a una verifica da un fatto enorme come la morte di una figlia? Cosa avevano detto Hugo, Camus, Mallarmé e gli altri quando conobbero lo stesso lutto fuori dalle parole, nell’esperienza nuda degli affetti reali? Sfuggiti per un pelo alla pazzia si erano scoperti disarmati anche sulle loro stesse pagine? La letteratura fa sul serio o davanti al vero, al tempo incrinato, frana anch’essa?
Allo stesso modo nel libro la chimera della salvezza letteraria – sondata disperatamente non per speculazione gratuita, ma perché Forest vive di quel delirio solitario che è la letteratura (le Lettere come una delle forme di fedeltà alla realtà, anche quel reale che però si manifesta come “vertigine, lacuna, stupore”) – convive con le lusinghe dell’oblio, laddove “la ragione, la morale, il buon senso, l’affetto stesso impongono l’oblio”. Forest oppone resistenza a entrambi, infilandosi nel mezzo: “Il romanzo è una incisione nel legno del tempo, ma è anche un miracolo senza gloria perché le parole, come gli esseri viventi sono in partenza per il nulla che aspetta al varco”. La rotta verso le irrinunciabili scogliere del pathos confida almeno che “la parola sia una incessante consolazione” però “respinta”, reclamando la possibilità di attingere al reale delle cose. La comunanza di destini con altri scrittori, dopotutto, non permette di barare: “ll poeta si salva in virtù della propria arte? No, fissa sulla sua tela di senso il destino, condiviso, irrisolto”.
Da quelle scogliere Forest è tornato nella condizione di scrivere altri libri, di farsi leggere e apprezzare. Della versione italiana di questo primo libro ha avuto modo di gradire il titolo, migliore a sua detta dell’originale L’enfant eternel (Gallimard 1997) che ne avrebbe travisato gli sforzi. Nel successivo Per tutta la notte Forest affronta la memoria della famiglia, definita “niente altro che un teatro della disfatta”, approfondendo la conversazione interiore iniziata col primo libro.
L’odiosa espressione “un pugno nello stomaco” viene spesa ciclicamente per parlare di libri che si pongono al di fuori dei canonici tracciati della letteratura, con un pudore vivace o innocentemente scaltro, con qualcosa di sorprendente, vivido, inedito, insomma di illetterato – perché immediato, senza vera consapevolezza formale. Che succede invece quando è il letterato a dover fare i conti con una materia che non ammetterebbe mediazioni e canoni? In questo senso Forest ha rotto il tabù affiancando all’iperrealismo la critica letteraria, trovandosi nel momento peggiore a utilizzare i suoi quotidiani strumenti per la verifica più ardita e il racconto più sofferto.