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el giro di pochi anni guidare non sarà più una professione: milioni di autisti, tassisti e camionisti perderanno il lavoro, sostituiti da macchine autoguidanti e i camion di Otto, la start up comprata da Uber. Possiamo cominciare da questa previsione per calcolare il disastro che ci aspetta: solo negli Stati Uniti d’America 3,5 milioni di persone sopravvivono guidando camion e tir. Non durerà a lungo.
Le persone non servono è un saggio di Jerry Kaplan sul “lavoro e la ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale”. Pubblicato in Italia dalla LUISS University Press, non è il primo libro sull’argomento e può essere letto in parallelo a La nuova rivoluzione delle macchine di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee (Feltrinelli). Il titolo si inserisce in una nuova ma già florida bibliografia sul tema del post-lavoro, uno scenario in cui il lavoro – da sempre unica missione dell’uomo e fondamento della Costituzione Italiana – non c’è o ha un ruolo marginale nelle nostre vite. Non è un atto di accusa nei confronti dell’outsourcing, la Cina o le inadeguate politiche dei governi ma una tendenza ormai impossibile da fermare.
La miscela di robot sofisticati, intelligenze artificiali, sensori e software sarà letale. L’automatizzazione è ben diversa dalla meccanizzazione, che nello scorso secolo ha tolto lavoro dai campi e dalle fabbriche, perché ha un ampio margine di skill. Se le macchine industriali hanno ridotto il numero di operai automatizzando alcuni dei processi più semplici e ripetitivi, un software, oggi, può rendere obsoleta la professione di un colletto bianco. In campo legale, ecco Tax Foresight, un programma che, sfruttando il machine learning, “è in grado di prevedere le sentenze della corte su temi fiscali, basandosi sui fatti forniti dagli utenti e l’analisi delle decisioni precedenti”. Persino a Wall Street la pacchia sta per finire: nuovi algoritmi e intelligenze artificiali hanno inaugurato un’inedita stagione di licenziamenti e tagli.
Se le macchine industriali hanno ridotto il numero di operai automatizzando alcuni dei processi più semplici e ripetitivi, un software, oggi, può rendere obsoleta la professione di un colletto bianco.
Come ogni storia, quella raccontata da Le persone non servono di Jerry Kaplan, parte da lontano. Si parla di automatizzazione del lavoro ma per farlo dobbiamo tornare agli anni Sessanta, quando i computer erano calcolatori grandi quanto stanze e infinitamente meno potenti di uno smartphone qualsiasi. In quell’epoca, scienziati e fisici dell’allora neonata Silicon Valley cominciarono a immaginare una macchina in grado di pensare, parlare e capire. Kaplan, imprenditore e nume titolare della stessa Valley, li chiama “intelletti artificiali”, qualsiasi meraviglia tecnologica in grado di restituirci l’incanto delle capacità umane.
Kaplan racconta che le prime vere critiche a questa forma di IA nacquero proprio all’interno della IBM, azienda che negli anni Sessanta aveva cominciato a investire nel campo: “Una cosa era rimpiazzare commessi di basso livello che scrivevano promemoria e inviavano fatture, un’altra cosa era suggerire che questi stessi computer che la IBM spingeva ad acquistare potessero un giorno minacciare gli impieghi di manager e supervisori”. Era una questione di classe e prestigio che l’azienda decise di soffocare con una risposta chiara: “i computer possono fare solo quello che sono programmati a fare”.
Torniamo al 2017: oggi le cose non stanno più così. Le intelligenze artificiali si sono evolute dai primi “sistemi simbolici” a quelli che chiamiamo “network neurali”: la differenza tra i due sistemi è che “i primi richiedevano al programmatore di predefinire simboli e regole alla base del dominio del problema, mentre i secondi semplicemente richiedevano che il programmatore fornisse sufficienti esempi”. Con enormi moli di dati – il cosiddetto big data – un network neurale può analizzare anni di informazioni evidenziando trend, fattori e rapporti di causa-effetto invisibili all’occhio umano.
Leggendo Le persone non servono il lettore deve innanzitutto abbandonarsi al titolo stesso del libro, prendere atto del fenomeno sperando che qualcun altro pensi a come cavarci dal futuro distopico che sembra attenderci. “Il mio punto di vista personale”, scrive l’autore, “è che l’intera storia dell’ingegneria elettrica, elettronica, la radio, […] internet, e la IA sia semplicemente un nostro primo tentativo di esplorare cosa può essere fatto con questi fenomeni di recente scoperta. […] non siamo noi i migliori attori a poterne beneficiare. Lo sono le macchine”.
Kaplan mantiene un punto di vista analitico e freddo. È uno dei grossi limiti del libro e dal luogo da cui proviene, la Silicon Valley: l’ossessione per il risultato a discapito della profondità delle problematiche umane.
Dopo questa citazione, non vi stupirà sapere che un intero capitolo del libro sia dedicato alla disoccupazione di massa. Per argomentare il suo punto di vista, Kaplan prende ad esempio proprio il mercato delle spedizioni e trasporti, i cui posti di lavoro saranno annichiliti da una combinazione di veicoli autoguidanti e droni. Nel farlo, Kaplan mantiene un punto di vista analitico e freddo. È uno dei grossi limiti del libro e dal luogo da cui proviene, la Silicon Valley: l’ossessione per il risultato a discapito della profondità delle problematiche umane.
È alla fine del saggio che arrivano le risposte – o quantomeno delle proposte. La più bizzarra è il mutuo di lavoro, un nuovo tipo di contratto sociale in cui i datori di lavoro si fanno “sponsor”, dichiarando di voler assumere tot persone nel futuro a medio termine. Un sistema di pesi e contrappesi regolerà il meccanismo, garantendo sgravi fiscali a chi mantiene le promesse e punendo invece chi non lo fa. A stupire invece è il rapporto dell’autore con l’universal basic income, il reddito di cittadinanza che secondo alcuni studiosi potrebbe risolvere almeno in parte il problema: ognuno riceve un assegno mensile, se qualcuno trova un lavoro part-time o alla Uber – la cosiddetta gig economy, niente di più lontano dal posto fisso – potrà aggiungere quei soldi extra all’assegno mensile e universale. Qui Kaplan vola alto, immaginando per gli Stati Uniti una situazione molto – fin troppo – semplice: un grosso investimento in bond decennali del Tesoro e altri tipi di mosse pubbliche in grado di – a guardare i dati proposti nel libro – permettere a chiunque di “spendere 40.000 dollari l’anno e tenere il passo con gli aumenti dei prezzi”.
Funzionerà? Impossibile saperlo con certezza – è questo il limite di opere come questa: sono necessarie e preziose ma non riescono a cancellare l’atroce dubbio del post-lavoro, l’idea che sia impossibile arrivare preparati a una rivoluzione di questa portata.