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unedì pomeriggio: apri Facebook, leggi i primi post degli amici, ti arriva una mail di lavoro, la apri e la leggi, poi torni su Facebook, scorri le notizie e i relativi commenti, apri Twitter e twitti sulla notizia del giorno, nel frattempo pensi alla mail. Lavori con le cuffie nelle orecchie: apri Youtube, fra i video correlati ti segnalano la nuova uscita del tuo musicista preferito… Poi ti sorge un dubbio sulla sua biografia, la leggi su Wikipedia, nel frattempo posti la canzone che stai ascoltando su Facebook, qualcuno mette mi piace al tuo post, vai sulla sua bacheca, scorri le foto, pensi alla mail di lavoro, guardi l’orologio: è passata un’ora e ti maledici per aver sprecato tutto quel tempo. Ma hai davvero perso tempo?
È la domanda che si pone Kenneth Goldsmith in Perdere tempo su internet (Einaudi) e a cui, fondamentalmente, si dà una risposta negativa. Il pregio di Goldsmith sta nell’affermare una tesi controintuitiva: se il tempo impiegato a navigare senza meta è uno spazio sottratto – quasi in modo surrealista – alle azioni determinate della nostra routine, navigare in rete risulta essere fondamentalmente una pratica che amplia le nostre categorie cognitive. Per l’autore, il web è infatti stuplime, ovvero “una combinazione di epico e sublime”, “un gigantesco museo, una biblioteca e un’accademia, tutto insieme” entro cui
pensare le nostre sessioni web come narrazioni epiche scritte inconsciamente e senza sforzo, annotate nelle cronologie dei nostri browser come nuova forma di memorialistica. Andando oltre, Facebook, con i suoi splendori e le sue miserie, è la più monumentale autobiografia collettiva che mai una cultura abbia prodotto, una manna dal cielo per i futuri sociologi, storici e artisti.
Tuttavia, rivolgendo l’attenzione al solo aspetto artistico, Goldsmith indugia nel truismo, mettendo in scena l’utilizzo della tecnologia di una sola classe – quella bianca borghese newyorkese – di cui egli fa parte. Considerando internet un mero strumento, lo scrittore cade nel banale errore di credere in un neutro sviluppo digitale, quando è evidente, in realtà, che la rete sia influenzato dagli interessi economici di chi detiene il potere e le possibilità per indirizzarlo. La tecnologia fonda il suo sviluppo su precise disponibilità economiche, e dunque su un preciso sistema di accumulo capitalista: non è mai neutrale.
Per mettere in luce la parzialità della tesi di Goldsmith possiamo prendere uno dei tanti aspetti trattati: quello della nuova concezione del tempo. La natura globale del web conduce, infatti, all’atemporalità: non siamo più soggetti al ritmo circadiano, quello delle 24 ore, ci sarà sempre qualcuno sveglio dall’altra parte del mondo a leggere il nostro messaggio. Per Goldsmith, questa nuova possibilità non solo si configura come una liberazione delle potenzialità umane, ma costituisce “il ronzio dei computer e i network che macinano dati ed esistono al di fuori delle concezioni del tempo, siano esse soggettive, personali, locali, tradizionali e perfino comunitarie”. Jonathan Crary chiama proprio questo stato di perenne sonnambulismo “24/7”, descrivendolo come
l’annuncio di un tempo senza divenire, sottratto a qualunque delimitazione concreta o riconoscibile, un tempo senza ritmo sequenziale o ricorrente. Nel suo carattere perentoriamente riduttivo, è la celebrazione di un presente allucinato.
In Perdere tempo su internet si descrivono le lezioni di un corso universitario condotto dall’autore. Lo scopo del corso sembra essere semplice: trovare una forma di contatto umano attraverso il mezzo digitale. A turno i partecipanti si scambiano i computer e leggono la posta altrui, oppure usano il computer come se fossero a casa – o almeno si illudono di farlo. Le ricerche degli studenti, infatti, sono proiettate su un maxischermo, e ciò signfica che se qualcuno seleziona una canzone conosciuta, tutti la cantano, mentre chi inserisce una password deve spiegarne l’origine e così via. Alla fine del corso gli studenti devono elaborare proposte per “perdere tempo” in maniera divertente e surreale, come: “trovate un pezzo audio che rappresenti e riassuma l’intera esperienza di internet” o “catturate quante più schermate di video virali di Youtube e create uno slideshow che vada velocissimo”. Goldsmith, alla luce di questi risultati, cade però nell’errore di chi frequenta gli ambienti dell’arte: museificare.
In primis, bisogna sottolineare che gli esperimenti sono condotti in un ambiente controllato: i partecipanti hanno già a monte alienato del tempo per farvi parte. Ma nel mondo reale internet si incista in un sistema che predilige l’accelerazione, il consumo di tempo e l’information overload: accelerato, frammentato e refrattario alla profondità, il tempo ipermoderno è un tempo in cui il postmoderno è stato naturalizzato e in cui la categoria suprema risulta essere l’orizzontalità. In Accelerazione e alienazione Hartmunt Rosa sostiene che “in un certo senso l’accelerazione conduce direttamente alla disintegrazione e all’erosione delle nostre relazioni sociali: non riusciamo a integrare gli episodi delle nostre azioni e della nostra esperienza (e degli oggetti che acquistiamo) nella totalità dell’esistenza”. Nel mondo lontano dagli esperimenti di Goldsmith, internet è la cassa di risonanza di un panottismo che ingabbia il desiderio nelle forme a priori decise dai rapporti di forze del mercato, proprio perché, sempre secondo quanto Rosa sostiene,
tutti gli episodi del nostro agire e della nostra esperienza, tutte le opzioni che abbiamo, le persone che conosciamo e gli oggetti che acquistiamo sono il materiale grezzo per molte narrazioni possibili di noi stessi, per molte storie che potremmo scegliere per definire la nostra identità. Nessuna di queste storie sembra però conclusiva, perché nessuna è veramente appropriata.
Il rapporto fra tempo e internet è allora conflittuale e non meccanicista come vorrebbero dimostrare gli esperimenti di Goldsmith. Se poi scorriamo con attenzione la lista posta a fine libro dall’autore, notiamo che le produzioni dei suoi studenti sono sempre volte al dispetto e alla decostruzione: l’utilizzo strumentale di internet risulta – nella maggior parte degli esempi – volto sì all’entropia, ma a un’entropia che assomiglia sempre più a una pars destruens perenne, a un “gioco” che sa di “scherzo”.
Secondo Goldsmith “la genialità dei social network sta nella funzione livellatrice” poiché “non è più importante il contenuto ma l’infrastruttura”. Dunque, in un ambiente di abbondanza di sapere, è importante non solo cosa si decide di apprendere, ma anche come lo si seleziona. E la figura che allegorizza il rapporto dell’utente con internet non può essere altro che quella dell’artista-curatore: da Richard Prince ai creatori di mashup, Goldsmith riprende e magnifica la nozione di pastiche come paradigma cognitivo della contemporaneità. Quando l’autore cita l’artista come curatore centra inconsciamente il punto: la mole di dati prodotta da internet, l’ansia catalogatrice, “la vertigine dell’archivio”, annichilisce ogni possibilità progressiva. La stessa nozione di enciclopedia è volta a una gerarchizzazione del sapere, che ci avvicina sempre più a una mappatura cosciente, ma la mappatura totale operata da internet è invece mera culturalizzazione della realtà, erosione dell’umano a fronte del sistema che dovrebbe essere di suo aiuto. L’illusione di mantenere un controllo cognitivo ci ha educato inoltre alla distrazione, una distrazione che affonda le radici nella natura stessa della rete, in particolar modo circa la qualità primaria del mezzo, l’infrasottile di derivazione duchampiana. Goldsmith ne traccia un profilo preciso, ma sembra non preoccuparsene.
Anzi, l’elemento fisico mescolato con l’invisibile che contraddistingue il nostro sonnambulismo digitale ‒ l’esserci stabile e al tempo stesso effimero ‒ non solo “ci colloca nel presente”, ma addirittura propone un ‘ethos internettiano’” per il quale noi lettori-esploratori non siamo così lontani dall’attitudine del flâneur ottocentesco. In questo particolare status di incertezza e neutralità ‒ come era stato teorizzato da Roland Barthes ‒ cliccare spensierati un portale dopo l’altro (quasi ci si teletrasportasse da una galleria d’arte all’altra) significa prendere parte a un flusso che, di fatto, non sempre prevede una selezione. Eppure per Goldsmith, l’indifferenza del “peripatetico vagabondo digitale” viene presentata positivamente rispetto al desiderio famelico e passivo-aggressivo dello zombi che striscia nel web ossessionato dal consumo. Il web ci confonde costantemente perché è una costellazione di coppie oppositive, e non può essere declinato esclusivamente attraverso una visione surrealista di una cultura onirica. È, in sostanza, “una condizione più che una cosa”. Ecco perché, nel decifrare questa tipologia di ricezione e creazione della sovrabbondanza, è di fondamentale importanza individuare il confine tra la distrazione costante e la concentrazione continua. Soprattutto se, accantonata l’idea che internet sia esclusivamente una dimensione creativa “che ha a che fare con la comunicazione” ‒ come Goldsmith sostiene ‒, ci avviciniamo al problema della conoscenza.
Accettare i limiti del parziale e del provvisorio, così come del “presentismo hausmanniano” secondo il quale nel processo di creazione e distruzione mentale di dati informativi perdiamo il senso del tempo reale, rappresenta una grande sfida per il nostro sistema cognitivo. Il filosofo Pierre Lévy, è ben cosciente dell’impossibilità di fare un uso diverso della rete. Ovvero, un uso che possa deviare dalla strada maestra del diluvio informazionale. L’enorme quantità dei dati fa parte del gioco. Ma è la modalità con la quale noi accediamo a quest’ultima ad accrescere una distopia conoscitiva. Il messaggio del cyber-spazio è chiarissimo: dobbiamo stabilire un rapporto nuovo con la conoscenza. Sempre Pierre Lévy, teorizzatore della cosiddetta intelligenza collettiva, sottolinea la necessità di imparare a selezionare le risorse dalla crescente e inesauribile Biblioteca di Babele digitale, che tuttavia non può presentarsi, in virtù della mancata sintesi di un furioso multitasking, come l’ideale di una conoscenza universale né tantomeno come una “estensione della nostra mente”.
Negli ultimi anni molti studiosi hanno osservato ‒ si pensi al dibattito attorno alla domanda Internet ci rende stupidi? posta da Nicholas Carr e Derrick de Kerckhove ‒ che internet ci ha disabituato a organizzare e ad articolare secondo sequenzialità i dati, proprio perché accettiamo conoscenze irrelate, composte da brandelli di fonti incongrue. Del resto, all’interno di questo “accumulo di accumuli” perfettamente variegato, si nasconde il fantasma della verità. Era stato l’Oxford Dictionary a precisare che il concetto di post-truth esisteva da tempo, ma oggi viene sempre più connesso alla diffusione delle fake news e alla incapacità da parte degli utenti di discernere il vero dal falso. Ecco perché non possiamo valutare il mondo di internet come uno spazio di mera creatività. Tra verità e post-verità, tuttavia, sembrerebbe esserci solo una via percorribile, ovvero una conoscenza delle fonti che si affianchi a una matura consapevolezza circa il funzionamento della nostra relazione con i media. Il che significa, precisamente, avere lucidità nei riguardi della metamorfosi della nostra attenzione, sempre più sedotta da stimoli che si aggrappano alla primaria sede nella quale normalmente confluiscono ‒ in ultima fase ‒ i ricordi modulati ai fini conoscitivi: la memoria.
Crediamo, infatti, di partecipare a un ordine rispettabile che nasce dalle finestre sovrapposte, dal nostro essere iperconcentrati in differenti attività nello stesso istante. E in effetti, l’illusione riesce ad avere qualche parvenza di concretezza: ricordiamo nomi, immagini, suoni, meme e altro ancora in modo caotico, abbiamo l’illusione di conoscere il presente. Ma essendo imbrigliati in ripetuti mondi dentro mondi, l’oblio ‒ che è funzionale all’azione selettiva della memoria ‒ risulta spesso assente. Esattamente come accade nella memoria prodigiosa e sovraccaricata di Funes, il personaggio dell’omonimo racconto di Borges: se da una parte Funes riesce a ricordare ogni cosa con estrema facilità, dall’altro non è in grado di elaborare criticamente i saperi immagazzinati, e la sua memoria registra solo frammenti non riuscendo ad approdare alla compiutezza dei concetti. La sua, infatti, è una condizione monadica che lo spinge verso l’incomunicabilità. Nella nostra esperienza iperconnessa le infinite scatole informative del web – se non vengono interpretate da una memoria “che precede” e che riformula l’invasione dell’immateriale – risultano quasi essere vuote, autoriflessive, inutili scorie modulate da una memoria pervasiva e dalla fittizia percezione totalizzante. Un orizzonte fatto di meme, di risatine, di pensosi longform che ti fanno perdere il pomeriggio. A proposito: hai poi risposto a quella mail?