U na donna senza nome sulla soglia dei suoi quarant’anni trova un annuncio su internet: “P., MASTER, 31 ANNI. SE SEI CURIOSA SCRIVIMI”. Risponde e P. diventa la sua ossessione amorosa. Nell’immediatezza di questa concatenazione di eventi c’è tutta l’evidenza della verità raccontata nel romanzo di Valentina Della Seta Le ore piene, edito da Marsilio. Nell’incontro con P. c’è la realizzazione, per la prima volta, di fantasie sessuali in cui la donna asseconda intero il volere dell’uomo che la comanda, la domina, le infligge sofferenza e soprusi, facendola godere moltissimo:
P. ha detto: “Piegati in avanti, metti le mani aperte sulla cassettiera, fammi vedere il culo. Guarda le mie mani. Vedi? Sono piccole ma sanno colpire. Ora le sentirai. Conta per me. Conta fino a diciannove, come i minuti che mi hai fatto aspettare. Anzi no, fino a venti”. Ha detto: “Una te la regalo”.
Ciò che accade con P. corrisponde alle fantasie a cui la protagonista da sempre ricorre per raggiungere l’orgasmo mentre ha rapporti sessuali canonici. Infatti, nelle relazioni precedenti:
Con lui, come con gli altri, mi sentivo sola. Mentre facevamo sesso una parte di me si distraeva a guardare gli infissi d’epoca delle finestre con la vernice rovinata negli angoli. Ascoltavo i rumori del traffico, intercettavo lo sbuffo delle porte degli autobus che si aprivano e si richiudevano. Riuscivo a venire chiudendo gli occhi e immaginando di essere sdraiata sul pavimento del bagno di un locale. Mi vedevo come un oggetto ingombrante preso di mira da ragazzini che si tiravano giù i pantaloni e iniziavano a masturbarsi e a baciarsi tra loro, a gruppi di due o di quattro […] Raggiungevo l’orgasmo immaginando che i ragazzi mi schizzassero addosso tutti insieme, sui capelli e sulla faccia.
P. le dà la possibilità di realizzare la verità dei suoi desideri, di conseguenza questo ragazzo che ha nove anni meno di lei, che fa l’impiegato e non ha nessun libro in casa mentre lei si occupa di traduzioni e revisioni, corrisponde del tutto all’ideale amoroso. P. è il Principe Azzurro della donna voce narrante e in questa identificazione che non ha faglie, non ha tremolii, c’è la grandezza di questo romanzo.
La sofferenza, la profonda solitudine, l’inadeguatezza sotto forma di pigrizia o mancanza di determinazione che connotano la personalità della protagonista sono inevitabilmente il motore del suo desiderio, perché sono il nucleo fondante della sua esistenza. Per questo il piacere abbondante, semplice, l’orgasmo immediato che si ripete a distanza ravvicinata si verificano nel momento in cui la donna agisce nel sesso il suo vero senso di sé. E per questo il modo in cui vuole P. tutta la vita accanto a sé, in cui desidera il per sempre, è totalizzante e delirante:
Ero sicura che P. mi avrebbe salvato. Mi avrebbe presa e tenuta da parte come una creatura da venerare in casa sua. Nessun altro mi avrebbe visto cambiare. Al momento giusto, quando sarei diventata brutta davvero, P. avrebbe coperto gli specchi nel corridoio e nel bagno, per guardarsi avrebbe usato la videocamera del cellulare o il lato piatto della lama di un coltello. La mia immagine avrebbe continuato a esistere nei suoi occhi.
Questo è l’apice di un percorso di perdizione nell’innamoramento che inizia a partire dal primo incontro con P:
Avrei avuto voglia di tornare da lui e ricominciare tutto. Volevo chiedergli se gli andava di fare una gita in campagna, percorrere chilometri con la bicicletta fino a non riuscire a piegare le ginocchia; sdraiarci su un prato a contare gli insetti che si arrampicavano sui vestiti e guardare il cielo.
La donna non sente così per ingenuità, non è un abbaglio il suo. P. l’aveva avvertita del rischio di sentirsi innamorata che si corre quando si pratica il sesso con tanta intensità, realizzando desideri tanto più nascosti quanto più profondi. Le fondamenta del suo bisogno insostenibile di P. sono nel suo desiderio di annientamento che si esprime finalmente quando lei fa “la sua cagnetta”, quando gode a farsi mettere le pinze per i panni ai capezzoli, a farsi venire in faccia, a leccargli le scarpe: “avrei preferito sentirgli dire che gli appartenevo completamente, che nessuna scelta era più la mia”.
Nella fantasticheria simbiotica di cui la donna diventa preda può finalmente smettere di esistere, di faticare enormemente per conservare quanto meno le vestigia della Volontà, “di questo motor che ci porta avanti quasi tutti quanti, maschi, femmine e cantanti su un tappeto di contanti, nel cielo blu…” come cantava De André:
Potevo diventare la sua cagnetta domestica. Avrei potuto alzarmi ogni giorno per prima, preparargli la colazione, uscire a fare la spesa mentre era in ufficio, specializzarmi nei piatti che preferiva. Potevo imparare a pulire la casa, stirare le sue magliette, le camicie, le lenzuola del letto dove mi avrebbe concesso di dormire quando sarei stata particolarmente ubbidiente. Mi avrebbe scopato spesso. Tutte le sere. Avrebbe scelto i miei vestiti e il colore del rossetto. Avrebbe potuto chiedermi di tingere i capelli di biondo, farmeli arricciare, di indossare camicette bianche di sangallo e orecchini d’oro, di farmi crescere le tette, rimpicciolire il culo. Potevo diventare un’altra.
La sua vita in casa, mantenendosi con dei lavori che non le danno la serenità della noia né la soddisfazione dell’avventura, che soprattutto non le garantiscono abbastanza denaro, da sola, bevendo ogni tanto troppo, rappresenta tutta la sopravvivenza che è riuscita a garantirsi perché a un certo punto, a seguito di una certa infanzia: “avevo finito per credere solo alla mia autosufficienza”. Con la forza indefessa della narrazione, Della Seta scrive della sua protagonista che questo bisogno abissale e orrendo dell’Altro scaturisce anche o forse soltanto dalla necessità di dover contare troppo su se stessa, da una banale quanto mefitica impossibilità di affidarsi. Se l’Altr* non c’è, abbandona, come fa la madre della protagonista, è presente ma irraggiungibile, nelle fantasie per il piacere deve restare coerentemente cattivo, non amorevole, disprezzante. E nei sogni d’amore deve diventare tutto, dare la possibilità finalmente alla protagonista di dimenticarsi di sé, di smettere di dover tirare avanti.
Nel racconto del meccanismo di piacere e annientamento della donna che ha tratti innegabili di disperazione c’è, però, un aspetto cruciale e soddisfacente, quanto solo il tempismo sa essere. La donna incontra P., gode così come le piace davvero, inizia ad agire anche con altri le sue fantasie proprio quando sta per compiere quarant’anni:
Lo scorrere del tempo lo senti nel corpo. Prende forma nei desideri che diventano difficili da realizzare, è nell’invisibilità che a poco a poco sostituisce gli sguardi quando cammini per strada. Diminuiscono gli amori potenziali, sono sempre più numerose le persone e le scelte che capisci di non poterti permettere.
L’invecchiamento che agisce inesorabile la induce a sentirsi “vampira”, quando guarda e desidera i corpi degli uomini giovani: “ho alzato gli occhi dal telefono, ero circondata da gruppetti di ragazzi in pantaloncini. Guardandoli ho immaginato che mi spuntassero dei canini appuntiti”. In questa identificazione, oltre al rimando immediato al furto di energia e bellezza di cui lei si macchierebbe volendoli, c’è altro. I vampiri non possono invecchiare e neanche lei:
Su un muretto poco lontano tre ragazze in pantaloncini e canottiera fumavano sigarette e si raccontavano storie con l’aria intensa e leggera dell’adolescenza. Ho fantasticato di avvicinarmi e chiedergli di vendermi una sigaretta. Me l’avrebbero data, al prezzo di una smorfia che rivelava quanto ero invecchiata. Avrei detto: Guardate che sono una di voi. Ve ne accorgerete, dentro non cambia niente.
Una delle conseguenze dei meccanismi di comportamento, che si ripetono e lasciano incagliate e incagliati sempre ai soliti lidi, è che impediscono la trasformazione e mantengono una parte consistente del sé ferma a quel punto esatto del passato in cui la reazione ha preso corpo ed è fiorito il trauma. Non casualmente alla fine del romanzo la protagonista del romanzo di Della Seta raccoglie un mazzo di ortiche, simbolo e ricordo della sua infanzia.
Nel testo però, è bene chiarirlo, non ci sono scivolamenti riflessivi, sovrastrutture di senso, la voce dell’autrice non si sovrappone mai a quella della narratrice e il racconto del sesso è così ben fatto, equilibrato nella vertigine.