D opo l’incontro fatale con Bobi Bazlen, avvenuto quand’era giovanissimo, Roberto Calasso entra in Adelphi alla sua fondazione, a soli ventun’anni. Bazlen muore improvvisamente poco dopo, e se la sua lunghissima ombra è ancora visibile – alcune scelte della casa editrice possono anche oggi, decenni dopo, essere ricondotte al suo influsso – la direzione della casa è sulle spalle di Luciano Foà e Roberto Calasso. Calasso diviene direttore editoriale praticamente da subito, dal 1971: facendo libri di altri, scrivendone di propri, e costruendo una delle più belle e affascinanti collezioni di libri del mondo. Si può affermare, dunque, che Adelphi sia la storia delle letture di Calasso, un’espressione di quello che lui pensa debba essere un libro: e si può anche aggiungere che in Italia (e forse in Europa) nessuno possa vantare questo triplice ruolo di editore, scrittore e lettore a livelli così alti.
La premessa è spero utile, per inquadrare meglio quello che, nell’opera generale di Calasso, è una deviazione dall’opus magnum. L’opera calassiana si divide in due: da una parte la nave ammiraglia, quella opera in corso che veleggia ormai verso i dieci volumi; dall’altra, libretti più brevi, pubblicati nella collana Piccola Biblioteca, luoghi letterari dove Calasso può parlare della cosa che più ama e conosce meglio: i libri, appunto.
Ma le opere minori hanno spesso il pregio di essere più accessibili, più personali. Come ordinare una biblioteca amplia un testo pubblicato fuori catalogo da Adelphi l’anno scorso, arricchito in questa edizione da tre brevi scritti, di cui uno inedito. Chi si accosta a questo libro desiderando un serio e definitivo trattato per l’organizzazione di una biblioteca, rimarrà deluso.
Ma fatta la tara alle proprie aspettative, questo libro è ironico ed erudito, e Calasso dà ampia prova del suo talento affabulatorio mantenendo il filo in un dedalo di storie, memorie, aneddoti, spigolature, glosse, che si rifanno all’ordine dei libri solo per riflesso, come il centro invisibile di un poliedro viene specchiato nelle sue facce.
Come Pierre Bayle che costruisce il suo immane Dictionnaire historique et critique liquidando ogni definizione in due sole righe, concedendosi poi intere pagine per le note e gli approfondimenti, giocando a nascondino con il lettore, così Calasso sbriga la questione dell’ordine librario in poche pagine, per poi iniziare una lunga serie di “note senza testo” che costeggiano l’infinito tema del comprare, possedere, mantenere, organizzare libri.
Di cosa significhi, cioè, essere un lettore che costruisce la sua biblioteca come la lumaca secerne il proprio guscio. Una biblioteca diventa un “paesaggio psichico”, un’emanazione di sé.
Il miglior ordine, per i libri, non può che essere plurale, almeno altrettanto quanto la persona che usa quei libri. Non solo, ma deve essere allo stesso tempo sincronico e diacronico: geologico (per strati successivi), storico (per fasi, incapricciamenti), fisiologico (connesso all’uso quotidiano in un certo momento), macchinale (alfabetico, linguistico, tematico). È chiaro che la giustapposizione di questi criteri tende a creare un ordine a chiazze, molto vicino al caos.
L’ordine perfetto non esiste, non può esistere: la pluralità degli ordini che si dovrebbero sovrapporre è in conflitto con lo spazio unidimensionale dei nostri scaffali, per cui un libro può inesorabilmente avere solo due vicini, uno a destra e uno a sinistra. (Idealmente, in uno spazio di Hilbert a infinite dimensioni un libro godrebbe di tutto lo spazio necessario per avere infiniti buoni vicini accanto a lui. Il digitale riproduce imperfettamente, per speculum, questa potenzialità: l’ordine perfetto è teoricamente impossibile, inconoscibile agli uomini, irrealizzabile, inconcepibile).
La regola che Calasso ha usato per la propria biblioteca è, insieme, la più bella e la più difficile: la “regola del buon vicino”, che Aby Warburg utilizzò per la biblioteca che porta il suo nome, istituita prima ad Amburgo e poi trasferita a Londra.
La storia di Warburg e della sua biblioteca è materia di leggenda: figlio di importanti banchieri, “vendette” la propria primogenitura al fratello minore, a condizione che gli comprasse tutti i libri di cui avesse avuto bisogno. Sviluppò nei decenni un’originalissima biblioteca in cui confluivano discipline diverse, legata al problema teorico che affrontò tutta la vita. Scrisse il filosofo Ernst Cassirer:
Questa non è una raccolta di libri, ma una raccolta di problemi. E non è stato l’ambito abbracciato dalla biblioteca che ha destato in me quest’impressione, ma, molto più forte che il mero ambito, ha agito su di me il principio su cui la biblioteca è costruita. Qui infatti storia dell’arte, storia della religione e del mito, storia linguistica e della cultura palesemente non erano solo poste l’una accanto all’altra ma collegate l’una con l’altra, e collegate tutte a un comune centro ideale: un problema di natura puramente storica, la sopravvivenza dell’antico.
Poco dopo la sua morte, “il nome di Warburg evocava già più una biblioteca di un uomo”. La regola del buon vicino, il principio su cui è organizzata, è tuttora il metodo utilizzato al Warburg Institute. Ogni classificazione bibliotecaria privilegia un aspetto specifico: l’ordine alfabetico ha il pregio di essere una regola precisa e un algoritmo esatto, condiviso e di facile interpretazione per tutti. È un po’ noioso, ma la sua soluzione è univoca, e comprensibile. La regola del buon vicino è la migliore per “scoprire libri che non si sapeva di cercare”, che è poi uno dei nomi della serendipity – in un certo senso, ne è la definizione stessa, tautologica.
Si tratta però di un ordine soggettivo, privato, altamente idiosincratico: Warburg stesso continuò a spostare e riordinare incessantemente i propri libri, nello sforzo di riaggiornare la disposizione sugli sviluppi del suo sistema di pensiero; nel tentativo di costruire un “luogo psichico”; nella speranza, forse, di trasformarsi in una biblioteca.
La costellazione di personaggi che affollano le pagine di questo libretto è vertiginosa: oltre a Warburg, vi sono Pound, Valery, Kafka, Bazlen, Brodskij, Manuzio, Marguerite Caetani, Jacob Taubes, Pierre Bayle, Thomas Carlyle, Gabriel Naudé, Borges, Kurt Wolff. Un “popolo del libro” che Calasso rievoca come se fossero amici di vecchia data – e alcuni, a ben vedere, lo sono stati.
Uno degli aspetti più affascinanti del libro sono i piccoli episodi autobiografici che Calasso racconta: la misteriosa immagine di tre macchine da scrivere nel proprio studio (la sua, quella di Bazlen, quella di Brodskij), la volta che Bruce Chatwin lo introdusse come socio nella leggendaria London Library, le fortunate scoperte in librerie antiquarie e bancarelle, fra cui alcuni libri introvabili di Pound, di Freud, di Warburg stesso.
In uno strano ibrido fra saggio, memoir, manuale di etichetta Calasso – con ironia, ma non troppo – ricrea un piccolo galateo del Lettore: come si deve sottolineare (sempre a matita, mai a penna, ma il libro deve tenere traccia della lettura), come si posizionano i libri (a filo della mensola; se sono spinti in fondo, è segno che il padrone non li legge), cosa si deve o non deve mettere nella propria biblioteca (che viene spesso definita dai libri che non ci sono, più che da quelli presenti). Senza dimenticare l’ineffabile sprezzatura di ricoprire i libri di pergamino, una carta velina apposita, affinché l’importuno visitatore si faccia gli affaracci suoi e non possa carpire nulla del “paesaggio mentale” del padrone di casa.