L ’ideologia può nascondersi anche dentro strumenti all’apparenza puramente tecnici? La risposta è ovviamente sì, ce lo insegna la Storia. Nel caso l’avessimo però dimenticata, Oltre le banche centrali. Inflazione, disuguaglianza e politiche economiche di Francesco Saraceno è qui per ricordarcela.
Il primo aspetto di cui il libro si occupa è uno degli argomenti più sentiti degli ultimi anni: l’inflazione. Il secondo, altrettanto importante ma meno vicino al sentimento delle persone “comuni”, sono gli strumenti per combatterla, l’inflazione. Perché, si domanda Saraceno, la lotta all’inflazione si è trasformata in una faccenda quasi dogmatica che, come vediamo in questi anni, coinvolge una sola categoria di attori (le banche centrali) e una sola categoria di strumenti (le politiche monetarie e l’intervento sui tassi)? E quali sono le possibili alternative al dogma?
La prima parte del lavoro di Saraceno è dedicata a ricostruire come siamo arrivati a questo punto. Le tappe sono note. La crisi energetica e la stagflazione degli anni Settanta, che fanno precipitare il consenso intorno alla teoria keynesiana – l’ortodossia dominante nei primi decenni del dopoguerra occidentale – e aprono spiragli di visibilità e agibilità politica per vecchie nuove idee. In quello spazio si infila un economista americano che insegna a Chicago. Si chiama Milton Friedman e sostiene che “l’inflazione sia sempre e soltanto un fenomeno monetario”. Ovvero è sempre e solo il riflesso di una situazione in cui “una quantità maggiore di moneta va a caccia di una quantità costante beni”. E dato che aumentare il numero dei beni, cioè la produttività, si può rivelare difficile – e di sicuro si stava rivelando quasi impossibile negli anni Settanta dello shock petrolifero – la cosa da fare, secondo Friedman, è ridurre la quantità di moneta in circolazione. Come? Tramite un rialzo dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali. Per chi non fosse avvezzo alla questione, quando una banca centrale alza i tassi d’interesse, il costo di prendere denaro in prestito cresce, generando una contrazione del credito che, a tutti gli effetti, causa una riduzione della moneta in circolazione, riportando equilibrio nel rapporto tra domanda e offerta.
Come racconta Saraceno, l’idea che l’inflazione sia sempre e solo un problema di quantità di moneta non era nulla di nuovo già negli anni Settanta. Di fatto le primi intuizioni “monetariste” si possono far risalire al ‘600. Tuttavia, a partire dagli anni Trenta, questa idea era divenuta largamente minoritaria e al suo posto dominava una teoria diametralmente opposta. E ovvero che il modo per mantenere un’economia in salute passasse del sostegno, da parte della finanza pubblica, all’occupazione e alla domanda private. In un contesto di espansione economica come il dopoguerra, ciò coincise con decenni di denaro a “buon mercato”, ampio ricorso alla spesa e bassi tassi d’interesse. Tuttavia, come detto, quando negli anni Settanta il giocattolo si ruppe, economisti come Friedman ebbero buon gioco nell’indicare le politiche monetarie troppo generose tra le principali responsabili del dissesto.
Perché la lotta all’inflazione si è trasformata in una faccenda che coinvolge solo le banche centrali?
Le idee di Friedman sulla crisi e le su soluzioni non attecchirono subito ma quando lo fecero, lo fecero con grandi conseguenze. Nel 1979, quando l’inflazione americana è ormai in cronica doppia cifra da anni, ai vertici della FED siede un banchiere di nome Paul Volcker. Nel corso di quell’anno, Volcker decide una serie di rialzi dei tassi d’interesse come mai si era vista nella storia. Il risultato è che, infine, l’inflazione viene domata. L’effetto collaterale del “Volcker shock”, tuttavia, è la recessione. Milioni di persone perdono il lavoro e interi settori entrano in crisi. Una specie di tabula rasa che porta all’emergere di un nuovo mondo in cui, come ricorda Saraceno: “la preferenza delle banche centrali per la stabilità dell’inflazione si è spinta fino a sacrificare l’occupazione”.
I decenni successivi al “Volcker shock” sono in effetti caratterizzati da una calma piatta sul fronte dei prezzi. Tanto che si parla in proposito di un periodo di “grande moderazione”, in cui più che l’inflazione si teme semmai la deflazione. All’incirca negli stessi anni, a corollario naturale della dottrina Friedman, si afferma l’idea che il mercato sia un meccanismo autonomo in grado di allocare risorse e capitali meglio di qualunque decisore politico o pubblico. La grande moderazione dei prezzi contribuisce a una lunga stagnazione dei profitti e a rendere meno allettante l’investimento nell’economia reale e così, anche grazie a una serie di liberalizzazioni del settore nel corso degli anni Novanta, i grandi capitali cominciano a inseguire i margini ben più interessanti che promettono i mercati finanziari.
In quegli anni alcuni economisti mettono in guardia dai rischi della cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia e chiedono ai banchieri centrali di intervenire sui tassi per arrestare il gonfiarsi di bolle sempre più evidenti e pericolose. Tuttavia una delle ricette di Friedman, ormai cristallizzatasi in dogma, suggeriva che le banche centrali dovessero astenersi il più possibile dal condizionamento del mercato, specie se per agenda politica. Non dovevano dettare il ritmo all’economia, ma seguirlo e correggerlo solo in caso di evidenti deviazioni dei prezzi dalla norma. In altre parole dovevano mantenere un atteggiamento di “benign neglect”, come da celebre mantra del potente Alan Greenspan della FED. Il quale, come ricorda Saraceno, “amava ripetere che far scoppia la bolla fosse troppo costoso […] e che il meglio che le banche centrali potevano fare era essere pronte ‘ad asciugare passando lo straccio’ dopo che essa era scoppiata naturalmente”.
E così, tra anni Novanta e Duemila, il mondo, come sappiamo, è punteggiato da una serie di crisi finanziarie con epicentro l’economia americana. Crisi che, come noto, raggiungono un punto critico con il fallimento di Lehman nel 2007 e da lì a cascata con l’esplodere della bolla delle bolle, quella dei subprime. Da quel momento in poi, il mito del “benign neglect” e la “regola Freidman” rivelano tutti i loro limiti e le banche centrali tornano, prima in America e poi con in ritardo in Europa, pro-attive protagoniste, “inondando i mercati di liquidità e facilitando l’accesso al credito”. Diffondendosi a livello globale, il collasso motiva ampie politiche di espansione monetaria, incluso il celebre “whatever it takes” di Draghi, “banchiere superstar” per antonomasia.
La grande moderazione dei prezzi contribuisce a rendere meno allettante l’investimento nell’economia reale, così i grandi capitali cominciano a inseguire i mercati finanziari.
Di crisi in crisi, Saraceno rimbalza fino a quella in corso. Una crisi cominciata con il COVID, proseguita con la guerra in Ucraina e le sue conseguenze sul costo dell’energia e da lì sull’inflazione, che è ritornata così a proiettare la sua lunga ombra sull’emisfero occidentale dopo quasi quarant’anni. Considerato il discredito del monetarismo nel post-2008, ci si aspetterebbe, ci dice Saraceno, che di fronte all’attuale inflazione si sia andati “oltre le banche centrali”, oltre l’idea che l’unica cura possibile all’inflazione sia la restrizione monetaria e l’intervento massiccio sui tassi. E invece, non appena è ricomparsa l’inflazione: “il ritorno sulla scena di Friedman è stato spettacolare […] l’idea per cui questa è essenzialmente un fenomeno monetario è riapparsa prepotentemente, nonostante tutto sembrasse indicare che gli aumenti dei prezzi fossero legati a scarsità, colli di bottiglia, tensioni sui mercati dell’energia e dei beni alimentari”
La ragione per cui Friedman e la sua eredità sono così duri a morire, è molto semplice: l’efficacia dell’aumento dei tassi d’interesse nel contenimento dell’inflazione è indubbia e indiscutibile. Alla lunga la riduzione della moneta circolante riesce – è matematico – a contenere l’aumento dei prezzi. Ma a quale… prezzo?
Come abbiamo visto il credo monetarista emerge in seguito alla crisi degli anni Settanta che, come detto, aveva cause complesse e multi-sistemiche – lo shock energetico, l’instabilità geopolitica, le grandi contrattazioni dell’epoca. Complessità su cui la soluzione monetarista passò come una falciatrice, fornendo sì una soluzione, ma una soluzione che faceva di tutta l’erba un fascio, senza distinguere tra problemi che emergevano dal lato dell’offerta e altri che riguardavano invece quello della domanda. Il tutto, peraltro, causando, come detto, una grave recessione destinata a cambiare per sempre la relazione tra economia e società, con il tramonto dell’assunto che ampia occupazione ed equa ridistribuzione fossero il fine ultimo del sistema socio-economico.
Qualcosa di simile, secondo Saraceno, sta accadendo anche oggi. Di fronte a un’inflazione che ha chiaramente un’origine complessa e multi-sfaccettata (il covid, la guerra, i sostegni all’economia pandemica, la ricomposizione settoriale, il frazionamento geopolitica), l’unica risposta che finora siamo stati in grado di elaborare è il rialzo dei tassi. Una risposta che, scrive Saraceno, equivale a “spegnere una candela con un’idrante”.
Il credo monetarista causò una grave recessione destinata a cambiare per sempre la relazione tra economia e società.
Sarà efficace? Sconfiggerà l’inflazione? È (quasi) certo. Risolverà, o anche solo interverrà, sui problemi strutturali e sistemici che l’hanno causata? No e anzi, probabilmente, ne creerà altri. E, proprio questo, secondo Saraceno, è il problema e la ragione del suo invito ad andare “oltre le banche centrali”. Non solo perché l’affidarsi soltanto alle banche centrali ha effetti collaterali deleteri ma perché affidarsi soltanto alle banche centrali significa togliere dalle spalle della politica e dello Stato una responsabilità che invece dovrebbe essere anche delle politica e dello Stato. Perché l’inflazione, così come gli strumenti monetari che usiamo per combatterla, è una malattia con sintomi e conseguenze in primis sociali: impoverimento, concentrazione della ricchezza verso i ceti più alti e così via. Pensare che la sua risoluzione debba essere lasciata alla tecnocrazia delle banche centrali è sicuramente conveniente per chi governa nei periodi d’inflazione ma è il riflesso di un’ignavia politica che i problemi del presente e del futuro semplicemente non consentono più.
Se la pars destruens del libro di Saraceno è senz’altro efficace e ben argomentata, un po’ meno convincente appare la pars costruens, ovvero la proposta di soluzioni alternative – come per esempio l’invito alla concertazione che lo stesso autore ritiene improbabile e al ritorno a un’idea di “policy mix”, ovvero a un mix di diverse politiche economiche e industriali, mirate a individuare e a combattere le singole cause dell’inflazione una alla volta. E tuttavia, in quanto autore di un libro su logistica e supply chain, mi viene da obiettare che le tubature da cui passa l’economia globale sono talmente numerose e intricate che risalire, con precisione, ai punti in cui si sono guastate si rivela spesso una fatica di Sisifo. Tanto da far credere che la vera ragione per la predilezione della politica monetaria sia in realtà molto semplice, e in un certo senso deprimente: è l’unica che ci consente la complessità raggiunta dal sistema economico (o la nostra capacità di comprenderlo).
Se sia davvero l’unica o meno, lo capiremo magari anche attraverso l’esperienza di questa crisi. Ma aldilà degli strumenti che eventualmente potrebbero sostituire o affiancare l’intervento delle banche centrali – e che potrebbero cambiare o meno l’idea di onnipotenza che gli abbiamo attribuito; l’auspicio è che a cambiare sia la rigidità, spesso dogmatica, con cui in questi decenni la politica economica ha concepito il funzionamento del mercato e il suo optimum.
Affidarsi soltanto alle banche centrali significa togliere dalle spalle della politica e dello Stato una responsabilità che invece dovrebbe essere anche loro.
Ovvero, per lasciare l’ultima parola a Saraceno: “La politica economica dovrà perseguire una crescita stabile ed equilibrata, assicurandosi di non sacrificare la resilienza sull’altare di una crescita fine a se stessa e in fin dei conti fragile”.