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hi ha amato Sacks lo ha seguito, negli ultimi trent’anni, in tutte le sue scorribande: il racconto dei casi clinici più bizzarri, dei risvegli dopaminici, la spiegazione delle meraviglie della chimica, dei misteri degli arti fantasma, dell’universo binario di chi non vede i colori, il racconto delle piante fossili, dei segreti del cervello dei sordi, dei viaggi allucinatori, del suo amore per la musica fino alle ultime, commoventi confidenze sulla sua morte imminente, e sulla malattia che lo stava conducendo a quello che per lui era, soprattutto, un nuovo traguardo. Si aggiunge ora alla lista la nuova, postuma, raccolta di scritti originali Ogni cosa al suo posto (Adelphi, traduzione di Isabella C. Blum) un compendio, diviso in tre parti, di alcune delle sue più grandi passioni, rivisitate con la maturità dei suoi ottant’anni, e filtrate dalla sua unica – e riconoscibilissima – visione del mondo.
Nella prima parte c’è il bambino Oliver, e già si capisce chi diventerà, quel bambino, e che quel bambino, in parte, non crescerà mai, e che questo, più di ogni altro, sarà il suo segreto.
Quando si nasconde per passare una notte al suo Museo di storia naturale preferito, quello di South Kensington (galleria degli invertebrati – una delle sue passioni; fossili – un’altra), già pensa “potevo essere un naturalista di riflesso, un viaggiatore immaginario con un biglietto per visitare il mondo intero”. Che è poi quello che farà per tutta la vita, in ogni direzione possibile, andando di persona, ma anche restando nel suo studio. E quando si lascia rapire dai prodigi della chimica nello stesso museo, o scoprendo la vita di uno dei grandi chimici, che definisce poeta, Humphry Davy, ha “la percezione, infantile ma intensissima – che la scienza sia un’impresa profondamente umana: influenze e conversazioni scambiate da un’epoca all’altra”.
Eccole, le due cifre principali di Sacks: la curiosità, mai sazia, e l’empatia verso tutto ciò che vive.
La seconda parte è dedicata al suo essere neurologo, e a tanti dei suoi pazienti, fonte inesauribile di ispirazione e schiera cui lui stesso apparterrà, in diversi momenti della sua vita. Così, come succede a lui, dopo l’ingessatura della sua gamba e, più tardi, con il suo melanoma, Sacks racconta la vicenda di Frigyes Karinthy, scrittore ungherese nato nel 1887 che descrisse, in uno dei primi memoir neurologici mai pubblicati da un paziente, la storia di quanto gli era accaduto mentre nel suo cervello si sviluppava un tumore, a cominciare dalla sufficienza con cui era stato trattato da molti medici. “Persone che non ascoltano, non visitano, sono supponenti e saltano alle conclusioni sono ubiquitarie e pericolose oggi, proprio come lo erano allora” scrive, per continuare poco dopo “Questa scena si verifica negli ospedali di tutto il mondo: l’improvvisa concentrazione su una patologia affascinante, e la completa dimenticanza dell’essere umano (forse terrorizzato) a cui capita d’esserne colpito.
Nell’era della medicalizzazione e dell’esasperazione dell’approccio specialistico, Sacks vede prima di tutto l’uomo malato, forse perché
ancora prima di formarmi professionalmente imparai dai miei genitori, che erano entrambi dottori, una verità essenziale: essere medici comporta molto di più di far diagnosi e prescrivere cure; comporta il coinvolgimento in alcune delle decisioni più intime della vita d’un paziente. Questo richiede una considerevole dotazione di delicatezza e buon senso sul piano umano, non meno che giudizio e conoscenze su quello medico.
E quando poi la malattia è mentale, la delicatezza deve essere se possibile anche maggiore, per tanti motivi, e anche perché “tutti noi viviamo su uno strettissimo crinale di normalità, sui cui due versanti si spalancano gli abissi della mania e della depressione”.
Sacks se lo ricorda sempre, e ascolta sempre, ascolta tutto, anche quando un epilettico gli racconta le sue esperienze di pre-morte, o le sue visioni di Dio (“la tendenza al sentimento spirituale e alla credenza religiosa è profondamente radicata nella natura umana e sembra avere una propria base neurologica”), o quando un tourettico gli parla di come riesca a tenere a bada i tic in pubblico grazie alla meditazione. Perché della persona fa parte ogni cosa, compresi i sogni, non nel senso psicanalitico, ma perché nelle malattie neurologiche anch’essi si modificano, e bisogna tenerne conto: “È una strada secondaria ma piena di fascino, e non dovrebbe essere ignorata”. E anche quando non può ascoltare, perché i pazienti non comunicano, si avvicina, e si fa domande, e in questo modo guarisce lo zio Toby, un uomo congelato in una sorta di apatia assoluta cui nessuno presta attenzione, causata da un semplice malfunzionamento della tiroide, risolta solo cercando di capire che cosa è stato a ridurla così.
Allo stesso modo considera gli alzheimeriani nella loro interezza, in modo assai diverso a quanto accade di solito:
Si osserva una gamma caleidoscopica di sintomi e disfunzioni, mai esattamente la stessa in due persone diverse. Le disfunzioni neurologiche interagiscono con tutto quanto vi è di particolare e unico in un individuo – i punti di forza e le debolezze preesistenti, le capacità intellettuali, le abilità, le esperienze di vita, il carattere.
La stessa unicità, del resto, caratterizza la sua idea di cervello, organo che segue un percorso molto diverso da quello di tutti gli altri organi che, semplicemente, si logorano. Il cervello no, perché è “un sistema incessantemente attivo, intento per tutta la vita a categorizzare e ricategorizzare le proprie attività e a ricostruire interpretazioni e significati a livelli sempre più alti”. Per questo, quando sopraggiunge la vecchiaia si raggiunge uno stadio che “comporta l’integrazione di enormi quantità di informazione, la sintesi dell’esperienza di una lunga vita insieme all’allungamento e all’allargamento delle prospettive dell’individuo e a una sorta di distacco o di serenità”. Una prospettiva decisamente diversa da quella contemporanea, che da una parte cerca modi per raggiungere almeno i centovent’anni, dall’altra esercita una costante rimozione di tutto ciò che non è giovane, bello, sano, omologato al modello-selfie.
La terza parte ci restituisce il Sacks irriducibile esploratore della realtà ed erede della sua tradizione (“Tra gli ebrei ortodossi, esiste una benedizione da pronunciare quando si è testimoni di qualcosa di strano: si benedice Dio per la diversità della creazione, e gli si rende grazie per la meraviglia di ciò che è bizzarro”), che spazia dall’astrobiologia e alle sue innumerevoli stranezze alla lode alle aringhe, dalla scoperta delle felci sul muro di Park Avenue alle osservazioni sul movimento degli elefanti, dalle emozioni fortissime di un contatto ravvicinato con un orango alla tradizione culinaria ebraica, fino al potere terapeutico del contatto con la natura, che Sacks promuove molto in anticipo sui tempi (oggi questi argomenti sono oggetto di grandissimo interesse, e di molti studi). Scrive: “In molti casi i giardini e la natura sono più potenti di qualsiasi farmaco” e “gli effetti esercitati dalla natura sulla salute non sono soltanto spirituali ed emozionali, ma anche fisici e neurologici. Non ho alcun dubbio che riflettano cambiamenti profondi nella fisiologia del cervello, e forse anche nella sua struttura”.
Sacks ha fatto in tempo a riflettere sul mondo social, con il quale non è tenero:
Ogni minuto, ogni secondo dev’essere passato stringendo tra le mani il proprio device. Chi è intrappolato in questo mondo virtuale non è mai solo, mai in grado di concentrarsi e apprezzare le cose a modo suo, in silenzio. In larga misura, costoro hanno rinunciato alle piacevolezze e alle conquiste della civiltà: solitudine e tempo libero, l’autorizzazione a essere se stessi, realmente assorti – non importa se nella contemplazione di un’opera d’arte, d’una teoria scientifica, d’un tramonto o del volto di una persona amata”.
Ancora una volta non esita a esprimere un’idea sghemba, prima che questo tipo di critica trovi lo spazio che sta avendo nell’ultimo periodo.
Ma la sua conclusione non è amara, anzi. È l’ultimo incondizionato e libero atto di fiducia nell’uomo e, soprattutto, nella scienza:
la scienza, la buona scienza, sta fiorendo come mai prima d’ora (…) Mi sembra che soltanto la scienza, sostenuta dal rispetto per i valori umani, dal buon senso, dalla lungimiranza e dalla preoccupazione per gli sfortunati e i poveri offra al mondo una speranza nella palude in cui attualmente si trova.
Anche così, fino agli ultimi giorni, incarna quello che si augura per tutti: “Se siamo così fortunati da raggiungere un’età molto avanzata in buona salute, questo senso di meraviglia può mantenerci entusiasti e produttivi fino alla fine della nostra vita”.