C hi ha scritto a proposito della più recente pubblicazione postuma di Roberto Calasso – l’esile Sotto gli occhi dell’Agnello, uscito la scorsa primavera – ha spesso voluto mettere in evidenza l’aforisma iniziale, che si apre così: “Gesù è il migliore, ma molto gli manca”. Calasso cristiano, con qualche riserva? Calasso tentato dal cristianesimo negli ultimi giorni? O il luciferino gnosticismo adelphiano?
Con meno partigianeria, si sarebbe portati a credere che sia invece Calasso simpliciter. Alla frase citata segue infatti una lista di nomi e di piste nel vasto territorio del sacro, che millenni di storia umana hanno tentato di mappare, descrivere e raccontare, senza per questo renderlo meno ignoto, prima di figurarsi di poterne fare a meno, da qualche tempo a questa parte. Infatti, di tutto questo – e dunque del libricino stesso – “l’uomo secolare non sa che cosa pensare”. Prevalgono l’imbarazzo, le pose di disprezzo, una certa compiaciuta ignoranza, come se ci fosse sempre qualcosa di più pressante, vicino e importante di cui occuparsi, o con cui distrarsi. Ma non per questo il presente si è fatto più chiaro. Fin da subito, perciò, Sotto gli occhi dell’Agnello si palesa come ulteriore aggiunta al quasi quarantennale discorso del suo autore su sacro e secolarità.
Che questo libro abbia come oggetto il cristianesimo è tuttavia significativo. Sul tema, il catalogo composto da Calasso editore disegna una galassia oltremodo eterogenea: dall’autobiografia di Ignazio di Loyola, da lui stesso curata già nel 1966, alla fede disperata di Sergio Quinzio; dallo gnosticismo del Pistis Sophia e dei trattati catari a C.S. Lewis l’apologeta; dal misticismo eckhartiano al capovolgimento proposto da Ferdinando Tartaglia; dalla preghiera esicasta dell’Anonimo russo all’esoterismo di René Guenon. E come non menzionare Angela da Foligno, René Girard, Jean-Pierre de Caussade e ovviamente Simone Weil. È una frangia, non per questo unitaria, di quella “banda” che Guido Ceronetti, recensendo La rovina di Kasch nel 1983, aveva così rappresentato:
divergono le iniziazioni, i maestri, i cammini, le venerazioni; c’è tuttavia la comunione generica dei fini (salvarsi come scopo del pensiero, salvezza per mezzo della conoscenza), il saper godere di uno dei massimi piaceri mentali, quello di ripensare illimitatamente i pensieri, le dottrine trasmesse dai tempi, di abbandonarsi alla vertigine del commento, alla contemplazione pura dei testi, alla lettura non passiva, non distaccata, ma furiosa, grondante, implacabile, incessantemente creatrice.
Idem per questi ultimi addenda. Ma se la frase da cui si è partiti colpisce inevitabilmente è perché, a differenza dei suoi autori, pur eterodossi, Calasso è sempre stato più restio – se non addirittura reticente – a parlare di Gesù. Non si esclude che ciò sia dovuto almeno in parte al ruolo, fin dagli albori cardinale nell’orientare e definire il progetto del catalogo di Adelphi, degli scritti di Nietzsche. Per il quale discutere di “cristianesimo“ significava includere nel discorso anche tutta la congerie dei tipici “anticristiani” cosiddetti. Cristiano, per Nietzsche, è qualsiasi frutto del cristianesimo: che si riconosca o meno come tale non importa. Vi include quindi la morale tutta, gli ideali di uguaglianza e giustizia variamente declinati, la democrazia, il mondo moderno, liberale o socialista che sia, e ogni anelito metafisico che tenda verso un Hinterwelt, un “mondo dietro”, più vero del vero, unica fonte di senso alla realtà. Perché tutto ciò, in Nietzsche, è “contronatura”, a partire dal sovvertimento dei valori operato dal cristianesimo con l’esaltazione della mitezza, della debolezza e di quanto è inadatto alla vita. Un pervertimento, una décadence da allora ininterrotta che ci siamo abituati a chiamare modernità. Niente a che vedere con l’aristocrazia dei Veda.
Secondo Calasso il cristianesimo è il supremo tentativo di spezzare la “macchina del mondo”, che si regge sull’ordine sacrificale.
Se, tuttavia, lo stesso Nietzsche verso Gesù non aveva che parole d’amicizia, per Calasso è stato quasi sempre uno dei grandi assenti, innominabile benché inattuale. Dopo Il libro di tutti i libri (2019), dedicato alle narrazioni che compongono l’Antico Testamento, un seguito sulla seconda parte della tradizione scritturale cristiana sembrava necessario. Non è arrivato, o meglio, non del tutto. Sotto gli occhi dell’Agnello è il piano di lavoro del libro che, viene da pensare, resterà incompiuto. E si muove tra il tentativo di vincere questa reticenza e una strutturale e disorientante laconicità. Ma nell’apparente frammentarietà informe di queste pagine scarne, il ragionamento, anche quando sotterraneo, non è per questo meno efficace.
Calasso ribadisce qualcosa che aveva già affermato altrove, ossia che il cristianesimo è il supremo tentativo di spezzare la “macchina del mondo”, che si regge sull’ordine sacrificale, appunto con il sacrificio definitivo di Dio a Dio stesso per fermare per sempre lo spargimento di sangue. Qui il nietzscheano ravviserebbe i segni della contronatura. In effetti, si direbbe che di fronte alla cognizione della violenza siano solo due le strade sensate: riconoscerne l’ineluttabilità, e dunque accettare la propria complicità; oppure rifiutarla, a costo di negare l’innegabile. Per Calasso, la novitas cristiana rispetto all’antico è proprio questa: si può fare a meno dell’ordine del mondo. “Gesù decise di farsi uccidere, invece di uccidere. E con questo si oppose all’ordine del mondo, voluto da suo Padre. Il suo gesto fu la domanda che aveva sempre evitato: Perché hai voluto così?”. Tale è la via dei Vangeli.
Sotto gli occhi dell’Agnello parte idealmente da qui, e, nello specifico, dalla domanda su cui già si chiudeva la corposa speculazione de Il libro di tutti i libri. Così la formula Simone Weil: “L’Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Il motore del sacrificio è la colpa, al punto che il sacrificio stesso, come spiegava l’autore a Lila Azam Zanganeh, “non è un modo per evitare la colpa o per giustificarla”, ma “una ripetizione della colpa” o addirittura un suo “rafforzamento”. Interrompendo la macchina del sacrificio, Cristo libera anche dalla morsa della colpa, sebbene in cosa consista questo mondo redento – il “Regno di Dio”, espressione che nel Vangelo di Giovanni compare solo due volte – non è chiaro.
“Ecco l’Agnello di Dio”: sono le parole che Giovanni il Battista rivolge a Gesù non appena lo vede. Il senso di quest’espressione – vera crux interpretum – si coglie ripercorrendo la tradizione ebraica: così l’agnello che Iahvè aveva ordinato agli Israeliti di immolare e mangiare per la loro salvezza, istituendo la Pasqua, è inestricabilmente legato alla figura del Cristo. Fin dall’inizio, Gesù deve essere immolato e mangiato per il rinnovamento pasquale, come la serie di agnelli innumerevoli che l’ha preceduto e prefigurato, di cui Gesù è il compimento. Per Isaia (59, 4), il servo del Signore “era come agnello condotto al macello”. Come: siamo nel campo delle analogie, delle corrispondenze. Ma in aramaico talja’ è tanto l’agnello quanto il servo. Il servo-agnello, perciò, si fa carico delle sofferenze e dei dolori del mondo e li lava col suo sangue.
Ma Gesù è anche il primo di tutti gli agnelli: esiste da sempre e per sempre. Nel Vangelo di Giovanni, il suo sacrificio è continuamente preannunciato, alluso, implicato. E così anche l’insistenza dell’evangelista sul cibo “che dura per la vita eterna” (Gv 6, 27), ossia la carne e il sangue dell’Agnello, senza i quali non c’è eternità e per i quali si verrà resuscitati nell’ultimo giorno. Il suo sacrificio sembra aver sempre fatto parte del piano di salvezza.
Ritorna allora, più urgente, la domanda di Simone Weil: chi ha ucciso l’Agnello, e quando?
Ritorna allora, e più urgente, la domanda di Simone Weil, e di Calasso. Chi ha ucciso l’Agnello, e quando? Questa enigmatica figura, archetipo e al tempo stesso compimento di ogni sacrificio, costituisce il cuore dell’Apocalisse di Giovanni: non più la storia messianica, che ne esce incompleta, ma solo l’eternità immutabile dell’essere immolato e vittorioso al tempo stesso. Come diceva il teologo Denis Pétau: “Il Messia, leone per vincere, si è fatto agnello per soffrire”. Ed è attorno a questa figura massimamente ambigua – e all’altrettanto ambiguo libro conclusivo del Nuovo Testamento – che ruotano gli interrogativi di Calasso.
Il testo greco dell’Apocalisse, nota l’autore, è grezzo, lontanissimo dalla lingua dell’evangelista omonimo o delle lettere di Paolo. La prosa imprecisa complica l’interpretazione del simbolismo, già oscuro di per sé. Calasso non lo dice, ma uno dei nodi essenziali del discorso sta in un versetto (13, 8) talmente equivoco da contenere ogni futuro scisma. Si parla di una bestia che verrà adorata da tutti coloro il cui nome non si trova sul “libro della vita dell’Agnello immolato”. Fin qui, le interpretazioni concordano; il contrasto sta in un’espressione – “fin dalla fondazione del mondo” – che potrebbe riferirsi sia a chi da sempre è escluso dalla salvezza, sia all’immolazione dell’Agnello. Per chi tende verso la prima opzione, come molti protestanti, sembra la conferma della predestinazione. Per la Bibbia di re Giacomo, per l’ultima traduzione della CEI e per la Vulgata, invece, è l’Agnello a essere occisus ab origine mundi. Prospettiva non meno problematica: l’uccisione e la colpa precederebbero qualsiasi cosa, persino la vita stessa. Ancor prima che qualcosa fosse, invece che il nulla, essa andava già riscattata.
Dunque che cosa ci fa l’Apocalisse al termine del Nuovo Testamento, si domanda Calasso? È “antitetica a ogni parola di Gesù”, eppure chiude le Scritture cristiane. Un libro nato dal rancore, animato dal desiderio di vendetta contro i persecutori – una vendetta, a conti fatti, non solo contro il mondo (da cui il Gesù del Vangelo giovanneo aveva messo in guardia, suggerendo di essere nel mondo ma non del mondo), ma anche, in pieno spirito di ressentiment, contro i Vangeli stessi, con cui sembrerebbe concettualmente incompatibile. Tanto da costituire, per l’autore, “l’autodistruzione del cristianesimo”.
Dopotutto, il nostro è un mondo, pur pieno di “opere […] cattive” (Gv 7, 7), che Dio “ha tanto amato” (Gv 3, 16) al punto da inviare il Figlio per redimerlo col suo sacrificio. Ma perché lo vincesse, non perché lo distruggesse, come invece nell’Apocalisse, secondo cui verrà fatto da capo (caelum novum et terram novam). Gesù, nel Vangelo, viene a indicare la via della vita eterna, a illuminare le tenebre; sarà poi compito del Paracleto – lo Spirito Santo – convincere il mondo. L’Agnello dell’Apocalisse scioglie invece i sigilli per spazzarlo via in una grande guerra cosmica da cui uscirà trionfante. Non per nulla alcune chiese dei primi secoli non la inserivano nel canone.
Si ha l’impressione di avere tra le mani il materiale per un libro annunciato che tuttavia non esisterà.
Ed è a partire da tale senso di sgomento e irrisolvibile contraddizione che Calasso sembra scrivere le sue note a questo testo in cui la “parola sconcertante” del Vangelo è lontana, non diversamente da oggi. Il cristianesimo si è fatto “molle, invitante e utile”. Diventato coi secoli un partito, poi diversi partiti, quindi “complemento della vita borghese” e di quella società che esso stesso aveva permesso, e che sembra oggi poterne fare a meno; pare spinto, in Occidente, a una lenta estinzione.
Pur in un testo così minimo, si ha l’inestinguibile impressione che nei progetti esso costituisse la base per una più ampia trattazione. I vari interrogativi suscitati dal Vangelo di Giovanni, il mistero del Paracleto, il senso del sacrificio di Gesù nel piano della salvezza, il messaggio dell’annuncio paolino, ciò che della cristianità oggi persiste, l’eredità cristiana del mondo secolare: questi i temi appena sfiorati, che devono aver accompagnato Calasso negli ultimi anni di lavoro. I quali resteranno irrisolti, non meno delle irrisolvibili domande sull’Apocalisse e l’Agnus Dei.
Così, Sotto gli occhi dell’Agnello porta all’estremo – e forse involontariamente – il metodo di scrittura di Calasso, quel “mosaico”, come da lui stesso descritto, “senza un ordine prestabilito”. Si ha perciò l’impressione di avere tra le mani il materiale per un libro annunciato che tuttavia non esisterà, e di cui abbiamo solo appunti su schede Bristol, glosse ai margini della bibliografia, scoli sparsi. Al peso delle domande, si aggiunge la straziante laconicità di queste pagine, come un sussurro turbato, tra l’apofasi e l’afasia, tra l’aporia e l’ipotesi. Gesù è nuovamente lontano, estromesso dall’ingombro dell’Agnello.
Quando sembra di alzare gli occhi dalle chiose al testo biblico per guardarsi attorno, la situazione è altresì deprimente. La fragilità dell’“innominabile attuale” infesta tutte le strade. Il denaro, scrive Calasso, è la via privilegiata, ma non risolve nulla. Le religioni odierne – l’ambientalismo, la filantropia, il volontariato – offrono “solo l’impressione di essere buoni”, ma, come aveva già avuto modo di dire, “good feelings are not enough, and they are not particularly good very often”.
Basterà che a qualcuno resti la domanda immutata su ciò che dovrà essere, le “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo”, a cui questo libricino mira? Nelle sue poche pagine, perlopiù bianche e rese ancor più sconcertanti dalle circostanze della loro sobrietà, resta una meditazione sentita, un ultimo tentativo di illuminare l’ordine del mondo e il suo destino da parte di un uomo che da questi interrogativi – è lecito desumere – si è fatto accompagnare nell’enigma della morte.