A ccade spesso con le biografie, e a maggior ragione con le autobiografie, che i piani di lettura siano molteplici e si intersechino tra loro. Nonostante tutto (Bollati Boringhieri, 2024) della biochimica ungherese Katalin Karikó non fa eccezione. Nel 2023 le è stato assegnato, assieme al collega Drew Weissman, il premio Nobel in fisiologia e medicina per una delle ricerche più discusse e centrali della storia recente, ovvero la scoperta dei meccanismi necessari all’utilizzo del RNA messaggero (mRNA) per la produzione di vaccini, compresi quelli utilizzati durante la pandemia di COVID-19. La storia della vita di Karikó, il rapporto ininterrotto con la ricerca scientifica, il posizionamento politico, sia nei confronti della natia Ungheria sia verso la seconda patria, gli Stati Uniti, il suo essere donna di scienza e di successo, indipendente e autonoma, tutto ciò e molto altro si trova in questo testo, scritto con la romanziera e giornalista Ali Benjamin.
Nella narrativa contemporanea la pubblicazione di autobiografie, specie se totalmente estranee al mondo della letteratura, è diventata una prassi ormai comune. La moda si è senza dubbio diffusa rapidamente anche nel mondo scientifico, dove, complice una progressiva spettacolarizzazione della ricerca, figure di spicco della ricerca danno spesso alle stampe il racconto (il più delle volte agiografico ed edificante) della loro vita. Per non parlare poi delle sempre più numerose biografie, che a volte raggiungono una diffusione planetaria, come nel caso di Oppenheimer dopo l’adattamento cinematografico. Non è però un fenomeno solo del nostro tempo: fin dall’antichità, soprattutto raggiunta una certa età, gli scienziati hanno provato a raccontare cosa li aveva spinti a dedicarsi alla ricerca con fini pedagogici, ma quasi sempre questi testi sono stati compresi e apprezzati solo a posteriori. E certamente non si è trattato di successi commerciali, come invece accade oggi, sull’onda della curiosità dei lettori e delle spinte da parte delle case editrici.
Nel caso dell’autobiografia di Karikó, quello che si rintraccia è un percorso incentrato su un modus operandi, una metodologia della ricerca scientifica, che per la studiosa coincide con una pratica di vita. Non vi è quindi alcuna differenza tra vivere e ricercare: Karikó è di origini popolari ed è fiera di quei valori – umiltà, costanza, determinazione, trasparenza, rispetto, coerenza – che per lei dovrebbero informare la ricerca scientifica. La vita degli scienziati, nella visione di Karikó, è un’avventura a volte cruenta (“la schizzinosità è un lusso che nessuno si può concedere, tantomeno una famiglia di lavoratori”), ma certo per lei ciò che conta sono il mistero e la meraviglia racchiuse in ogni fenomeno, così come il lavoro non è nulla di più che “una cosa che va fatta”. In campagna si coltivano i campi e nulla di ciò che la terra ci offre va sprecato, e lo stesso metodo si applica anche alle tecniche di laboratorio: “la scienza ha lezioni da offrire ovunque intorno a me, bisogna solo raccogliere i frutti del lavoro”.
Complice una progressiva spettacolarizzazione della ricerca, sono sempre più frequenti le biografie e autobiografie di scienziati.
L’impegno in campagna che attraversa tutta la sua gioventù le insegna i segreti dell’entomologia, della botanica e degli ecosistemi. Conosce i cicli di coltivazione, impara che l’istruzione non si ottiene solo a scuola, che se “le cose possono cambiare all’improvviso, è importante essere flessibili nella vita”, e soprattutto che apprendere nozioni e sviluppare l’intelligenza sono due percorsi non per forza coincidenti. Per la giovane futura scienziata la vita, lo studio e il gioco si fondono in un unico movimento, che lei sintetizza in una sola parola: “cercare”. Lei stessa si definisce Kutató, una “cercatrice”. Anzi, lascia che ad attribuirle questo titolo sia l’uomo che è per lei punto di riferimento costante, suo padre:
Mio padre voleva dire che stavo cercando delle risposte, delle cose che ancora non si conoscevano. Voleva dire che stavo cercando la verità, o per lo meno quella che un essere umano può trovare nell’arco di una vita. Intendeva dire che il mio scopo era la ricerca in sé e per sé. Non si sbagliava.
Una condizione mentale e psichica, quella del “cercare”, che ai suoi occhi è quanto di più importante possa essere detto e fatto. Al contrario, l’assenza o la debolezza di questo requisito per gli scienziati è all’origine di molti fallimenti, così come di un comportamento non eticamente corretto. Mai però Karikó si avventura in un meccanismo meritocratico e competitivo: per lei ciò che conta è la dedizione e la costanza, non certo l’agonismo o la velocità, ed è assente nel suo metodo qualsiasi logica performativa. Una domanda alla volta, un passo dopo l’altro, come ripete continuamente nel corso del libro, è il metodo con cui si avvicina ai problemi.
È esemplare il racconto del rapporto tra Karikó e David Langer, studente nel suo dipartimento e figlio di un una figura di rilievo nell’Università della Pennsylvania. L’uomo ha un ictus che lo lascia parzialmente paralizzato, un fatto che sconvolge il figlio. Il loro incontro è perciò tutt’altro che semplice: Karikó affida a Langer delle analisi da eseguire, e lui compie il lavoro in modo superficiale e distratto. Con la chiarezza e la trasparenza di sempre, Karikó è la sola ricercatrice a rimproverare il ragazzo in tutto il dipartimento, che invece trattava il giovane in modo accondiscendente e benevolo. Langer diventerà poi il miglior collaboratore di Karikó, che si fa vanto di questo fatto. Sa bene che la ricerca è una sorta di ossessione, ma le è anche evidente che se vuole ottenere dei risultati quella della precisione e della perseveranza è l’unica strada efficace.
Per la giovane Karikó, lo studio e il gioco si fondono in un unico movimento, che lei sintetizza in una sola parola: cercare.
Il giorno in cui a Karikó fu assegnato il Nobel, Ali Benjamin ha dato una descrizione azzeccata di ciò che c’è in questa autobiografia: “se vi piacciono le storie di donne ‘difficili’, se vi interessano le vite reali influenzate dalla geopolitica della Guerra Fredda, se siete curiosi di sapere come si presenta l’influenza crescente del denaro sulla scienza, se volete capire le grandi idee che stanno dietro a una svolta nel modo in cui tratteremo i tumori, le malattie infettive intrattabili e altro ancora, e/o se vi piace una buona storia di redenzione, probabilmente troverete qualcosa in questo libro”. È in definitiva il racconto del conflitto, sempre presente nella sua vita, tra i valori tradizionali e i codici della vita in società e della ricerca scientifica, in un regime di competizione e profitto.
Eppure, rispetto a tutto ciò, sono gli anni della giovinezza e degli studi in Ungheria a risultare quelli più coinvolgenti. Da chi è stato costretto a fuggire con i soldi nascosti in un orsetto di pezza, via da un Paese dove in sostanza vigeva una forma di dittatura, per quanto relativamente moderata, ci si aspetta una critica feroce e radicale a tutto quanto l’ha costretto a quel passo. Invece ciò che viene evidenziato da Karikó è solamente l’incapacità, propria di un meccanismo collettivista, di lasciare emergere i valori individuali, come fu ad esempio per il lavoro del padre, macellaio e piccolo imprenditore a cui fu negata ogni autonomia lavorativa. Ma al netto di questa valutazione, Karikó riconosce apertamente le qualità dell’amministrazione comunista del suo Paese d’origine. Non manca ad esempio di far notare come le campagne di vaccinazione avevano eradicato la poliomielite in Ungheria già dal 1969, “in anticipo di ben dieci anni sugli Stati Uniti e di quindici sul Regno Unito”.
Karikó sa bene che la ricerca è una sorta di ossessione, ma le è anche evidente che se vuole ottenere dei risultati quella è l’unica strada efficace.
In più occasioni Karikó sottolinea come una persona di umili origini, di estrazione popolare come era lei, ha potuto studiare e avere aperte le porte dell’università e della ricerca grazie alle agevolazioni a cui la “lettera F” – il distintivo scolastico per lo studente proveniente da una famiglia contadina – le ha permesso di accedere. Chiaramente il suo valore la poneva in una condizione differente: non tutte le persone agevolate negli studi raggiungono il premio Nobel, ma la questione posta da Karikó è evidentemente rivolta alla sua seconda patria, gli Stati Uniti, dove lei, indipendentemente dalle sue capacità, non avrebbe mai potuto accedere a un’istruzione universitaria.
Come non perde occasione di evidenziare le enormi difficoltà di accesso alle università di cui soffrono gli studenti provenienti da famiglie disagiate, Karikó rimarca ogni qualvolta lo ritiene necessario le problematiche vissute dalle scienziate donne. Lo fa ricordando l’indispensabile contributo di Rosalind Franklin nella scoperta del DNA, per lungo tempo attribuita solamente a Watson e Crick, sino alla sua netta presa di posizione, forte e ribadita con convinzione, sul tema della presenza delle donne nel mondo della ricerca, universitaria o privata che sia. Il racconto del rapporto con la figlia, Susan Francia, due volte oro olimpico nel canottaggio, mette in luce il desiderio conflittuale per cui la madre vorrebbe essere maggiormente presente nei confronti della figlia, mentre la scienziata sa bene quanto la ricerca sia un lavoro totalizzante:
Ogni tanto la gente mi chiede di cosa ha bisogno una donna per essere una madre e insieme una scienziata di successo. La risposta è semplice, ovvia: ha bisogno di assistenza all’infanzia di elevata qualità e a prezzi accessibili, come quella di cui ho usufruito io in Ungheria. […] È una questione di cui dobbiamo occuparci, se vogliamo più donne nella scienza, se vogliamo più donne in qualsiasi campo. Prima lo facciamo, meglio è.
Il terzo avversario nel mondo della ricerca americana con cui Karikó si è dovuta misurare, dopo le discriminazioni economiche e le discriminazioni di genere, sono state le pressioni finanziarie esercitate dall’industria sui laboratori di ricerca per ottenere più rapidamente risultati e prodotti commercializzabili sul mercato. Chi di recente l’ha accusata di essere uno strumento manovrato dalla grande industria farmaceutica, forse non sa nulla delle continue pressioni che nel corso degli anni Karikó ha ricevuto dai suoi superiori proprio per la grande difficoltà che l’università incontrava nell’ottenere finanziamenti per le sue ricerche, giudicate spesso inutili e invendibili:
Le pressioni finanziarie rischiano anche di influenzare la natura della ricerca. C’è un’enorme pressione a condurre quel tipo di studi che ti fornirà i finanziamenti di cui hai bisogno: ad andare, in altre parole, là dove l’attenzione è già desta e dove gira la grana. Non è necessariamente lì che si raggiungono i traguardi più importanti, come non è li che c’è un maggior bisogno di risorse. I finanziamenti, in sintesi, possono lasciare totalmente nell’ombra idee ottime.
L’articolo di Stuart Buck citato nel libro, “Il problema Karikó”, affronta proprio la questione dei finanziamenti alla ricerca di base. Per un programma che, grazie all’impegno e al lavoro di ricercatori e ricercatrici come Karikó, si rivela col tempo avere un’importanza capitale, come possiamo sapere quante altre visioni geniali non diventano di dominio pubblico solo perché l’industria e l’università non li valutano abbastanza redditizi? Karikó non si risparmia e dedica pagine intere a descrivere quelle che secondo lei potrebbero essere modifiche da apportare ai meccanismi della ricerca per ridurre le discriminazioni, sia finanziarie che di genere.
I valori tradizionali che tanto stanno a cuore a Karikó si scontrano con i codici della vita in società e della ricerca scientifica in un regime di competizione e profitto.
Per Karikó la scelta di dedicarsi all’epidemiologia non è casuale, e ancora una volta viene ricondotta agli eventi della sua infanzia. Nel 1963 l’Ungheria dovette affrontare un’epidemia di afta epizootica, che colpì solamente il bestiame. Per evitare che le fattorie contaminate diffondessero il virus in tutta la campagna, vennero introdotti una sorta di lockdown e di quarantena come quelli che sessant’anni dopo abbiamo tutti sperimentato con COVID-19. Nel 1968 vi fu poi una pandemia influenzale, di un ceppo che come racconta la stessa Karikó provocò fino a quattro milioni di morti in tutto il mondo. Le restrizioni imposte non avevano nulla a che fare con l’atteggiamento autoritario del governo, anzi:
Suppongo sia stato il Partito a incoraggiare questa linea di condotta, ma nessuno ha lamentato intrusioni da parte del governo. Si trattava di un virus, e un virus non ha né un’ideologia né un programma politico. Se non stavamo attenti si sarebbe diffuso.
La sua ricerca sull’mRNA comincia presto quando è ancora in Ungheria, e difatti riuscirà a trovare lavoro negli Stati Uniti solo grazie alla particolarità del suo approccio. Già alcuni anni prima dell’epidemia di COVID-19 i suoi lavori con Weissman avevano raggiunto ottimi risultati sperimentali, ma i loro studi non avevano incontrato l’interesse delle case farmaceutiche, che non ne vedevano le applicazioni pratiche. Anche l’idea di costituire una società in proprio non aveva funzionato, non avendo loro due la proprietà di alcun brevetto. Per lei, scienziata, questi problemi burocratici erano inconcepibili di fronte alla possibilità di sintetizzare farmaci che avrebbero potuto prevenire malattie ancora gravi e incurabili.
Karikó spiega nel dettaglio come le sue terapie fondate sull’mRNA non abbiano modo di toccare il codice genetico, il DNA, poiché questo non viene considerato nella terapia, al contrario delle terapie geniche finora utilizzate, e come tale caratteristica le renda particolarmente sicure. Viene spiegato dettagliatamente anche com’è stato possibile produrre i vaccini così rapidamente, quando un vaccino finora aveva necessitato di anni di prove. Karikó non si sottrae a nessuna delle accuse che sono state rivolte alle sue metodologie, rispondendo punto per punto, e dimostrando espressamente comprensione e disponibilità verso le paure anche irrazionali che nel mondo sono emerse verso le terapie a mRNA e la medicina tout court: “la colpa non la davo – non la do – a chi aveva paura. La scienza alla base di questi vaccini è complessa. Spesso si teme ciò che non si capisce. Purtroppo, alcune persone alimentavano intenzionalmente la paura propagando mezze verità, o vere e proprie bugie […]. Quando l’ago pieno di mRNA modificato mi è entrato nella vena, ho cominciato a piangere. Era un gesto così pieno di umiltà. Soprattutto, ero onorata di far parte di tutto ciò”.