Marco Taddei è scrittore e sceneggiatore di
fumetti. È autore con Simone Angelini di Anubi,
Horus, Enrico e Quattro vecchi di merda
(Coconino Press) e di Malloy e Storie brevi e
senza pietà (Panini Comics). Ha scritto La Nave
dei Folli, edito da Orecchio Acerbo, con le
illustrazioni di Michele Rocchetti. I suoi articoli
sono stati pubblicati da Date HUB e The
Towner. Le sue storie sono apparse su testate tra cui Linus, Vieni verso il
Municipio, B-Comics.
L
a stagione degli spettri in Occidente comincia dalla metà dell’autunno, quando il sole si ritira dietro l’orizzonte e la notte arriva prima, accorciando fatidicamente le giornate. Ed è lì, nel buio, che si muovono le larve. In Giappone la stagione delle creature sottili è l’estate, ed è durante i raggianti mesi solari, caldi e placidi, che si può incontrare qualche abitante dell’altro mondo che si aggira tra noi. Basta questa semplice variazione d’atmosfera, questa semplice variazione di luce, per comprendere la diversa concezione del soprannaturale ai due capi dell’Eurasia.
Ed è questo aspetto che risalta nell’opera di Elisa Menini: le atmosfere luminose e fulgide, anche nelle ambientazioni notturne, inquadrano le storie del suo Nippon Yokai (Oblomov) e racchiudono tutta la sensibilità dell’Estremo Oriente per l’ultraterreno. Più che una raccolta di storie di mostri e spettri e spiritelli, è l’elegante composizione di un puzzle filologico che ha come punto di partenza alcune tra le tante affascinanti novelle dell’arcano folklore nipponico. In Giappone, un paese dove ogni gesto è frutto di una sensualità accentuata e assieme repressa, il mistero è concubino dell’intrigo ed è così che queste storie sono incastonate dentro una storia più larga, più ampia: dieci invitati, seguendo le regole di un antico giuoco, si sfideranno in allegria a raccontarsi dieci fiabe che fanno paura, a notte fonda, in una casa sempre più buia, sperando alla fine di veder comparire tra loro per davvero uno yokai.
Yokai è una parola misteriosa, non solo perché inquadra un ambito magico e assieme tradizionale, ma soprattutto perché congela in un solo termine una ridda di mostri, fantasmi, bestie inquietanti, creature infere e demoni. Da noi “I Mostri” o “I Fantasmi” non sono esattamente la stessa cosa, mentre in Giappone hanno tutti un’origine comune, che si scopre proprio traducendo i due kanji che compongono il termine yokai – “Apparizione” e “Maledizione” – in qualcosa che suona come “Manifestazione di un Maleficio”. In questa definizione così larga rientrano dunque tutte le “forme” che appartengono a un mondo soprannaturale connotato negativamente e che entrano in contatto, manifestandosi, con la sfera degli umani.
Un po’ come i Lari o i Mani della tradizione antico romana – che non sono altro che gli spiriti degli antenati tramutatisi in protettori della casa, anzi nello spirito stesso dalla casa e per estensione della casata – anche gli yokai possono essere fasti o nefasti e vanno serviti e rispettati, ma sono molto più indipendenti. Raramente sono legati a una famiglia e in generale se ne stanno per i fatti loro a spassarsela sulla cima dei monti, nel profondo delle valli, dentro un caverna, in un lago, in una risaia, dentro un tempio, sotto un ponte, in un canneto, come in un mondo parallelo, complementare, da cui ogni tanto si affacciano in quello in cui vivono gli esseri umani. Sono solitari, ma possono anche essere il frutto di una lunga convivenza con l’Uomo. Ad esempio, diventano yokai gli oggetti utilizzati per cento anni: acquistano, cioè, una speciale consapevolezza a forza di essere utili e di essere utilizzati. Come se si evolvessero in yokai. Succede a sandali di paglia, otri di sakè, tazze, teiere e tanti altri oggetti di uso quotidiano. Qui da noi le case possono essere infestate, ma stentiamo ad immaginare che possa essere infestato un ombrello – parasole, anzi – come invece succede in Giappone con il Karakasa, che è appunto un parasole posseduto.
Nel libro di Menini non incappiamo in un Karakasa, ma incontriamo il meglio del repertorio nipponico spiritistico: Kitsune, Yuki-Onna, Kappa, Oni, Yamanba e tante altre espressioni di una mitologia ancestrale. La vicenda si svolge su due piani. Il primo, in bianco e nero, segue le venture del gruppo di improvvisati cantastorie; il secondo, a colori, raccoglie tutte le storie da questi raccontate e sperimenta diversi approcci grafici, in un raffinato gioco di rimandi alla cultura visiva del Giappone. I cantastorie improvvisati sono particolari, sembrano essi stessi maschere di un Giappone vagheggiato: c’è un ninja incappucciato, un attore che si chiama Kabuki, un tizio grosso come una montagna che difatti risponde al nome di Sumo, una cortigiana, una nonnina, il padrone di un cane – gigante – chiamato Shiba proprio come la famosa razza di cani del Sol Levante, il capobanda è Hanpo ed ha, a sua volta, qualcosa del monaco errante.
L’idea della suddivisione è ottima perché trasferisce il racconto in una dimensione astratta, in cui la casa dell’incontro di questi menestrelli, le loro lanterne che si accendono e si spengono, diventa il limbo della leggenda, della dimensione contadina e religiosa, che rende il Giappone uno dei luoghi “unici” del pianeta, non solo per conformazione e società, ma soprattutto per l’inclinazione a far coincidere il più delle volte l’ordine con il disordine. È pur vero che nelle popolosissime strade delle sue modernissime megalopoli, tuttora non è contemplata l’intuizione dei numeri civici e per darsi un appuntamento servono piccole mappe fatte a mano. Qualcuno la chiama, non a caso, la terra delle contraddizioni, dei contrasti. Ed è meraviglioso vedere come Menini, già autrice di tanti lavori che corteggiano e onorano l’Oriente, si affidi completamente a questo principio, trasbordando le alchimie di un Giappone di qualche secolo fa, in un’opera prodotta nel 2020, qui in Italia.
C’è un filo rosso che unisce la stirpe degli yokai a quella dei Pokemon e passa attraverso i capolavori del mangaka Shigeru Mizuki, gli spiritelli di Yoshiko Phillips, i funghi animati del film Matango il Mostro, Bem, le parodie perverse di Toshio Saeki, ma per gli occhi offuscati di un europeo e persino per quelli di un asiatico che non sia nato sulla bella Cipango, quel filo resta invisibile. Elisa Menini domina la materia nipponica in maniera irreprensibile: i giapponesi convivono con le loro radici perché ne hanno cura. Quanto sarebbe utile oggi conservare lo stesso affetto, per esempio, per la nostra – quasi – dimenticata cultura contadina?
Nippon Yokai vivifica e sequenzializza l’estetica dell’epoca d’oro della cultura giapponese, l’epoca Edo (1600-1868) che corrisponde alla pax in tutto il paese e al periodo di più profondo isolamento del Sol Levante. Sotto l’antico cielo dell’Arcipelago, in questo lungo lasso di tempo si affacciano decine di artisti il cui nome riecheggerà anche da noi: da Katsushika Hokusai detto il Pazzo a Kitagawa Utamaro, dal raffinatissimo Utagawa Kunisada fino a Toshusai Sharaku. A Edo – Tokyo – cresceva senza freni un mondo fluttuante, edonistico e querulo, leggero, il mondo di una borghesia rampante abitato da concubine, teatranti, locandieri, artisti sbandati, lottatori. Queste immagini sono le protagoniste delle stampe ukiyo-e ottenute con una laboriosa tecnica xilografica che permetteva di stampare in serie disegni in bianco e nero o a colori. Elisa Menini tiene conto della lezione di questo mondo e di questi artisti, così le pagine di Nippon Yokai diventano l’espressione di un libro talmente sensibile che, per il lettore medio, diventa quasi straniante.
L’edizione firmata Oblomov è asciutta e serve bene l’indole pacificatrice di questo volume, che affonda a piene mani nelle tradizioni giapponesi, in un bagno rituale che lascia ristorati. Le storie di yokai hanno ispirato la cultura del Sol Levante, dando vita a opere insuperabili, come il film Kwaidan – Storie di Fantasmi, per il mercato italiano – una pellicola che è tra le gemme dell’intera cinematografia dell’Estremo Oriente. Quel film, diretto dal maestro Masaki Kobayashi, viveva di istanti che toglievano – e tolgono tutt’ora – il fiato allo spettatore. Viveva di un gioco di equilibri così intenso da essere ammaliante, viveva, insomma, del barlume splendente di un Giappone che non c’è più. Che per noi fortunati può brillare ancora, come in un sogno, grazie alle pagine audaci di un fumetto italiano.